GLI STRUMENTI DEL VIAGGIATORE
4.3 Il racconto e la memoria
4.3.1 Memoria difettosa o puro escamotage narrativo?
Questa è una domanda che ci si pone spesso leggendo le opere di Luciano. Risulta infatti che il nostro autore utilizzi all’interno delle opere l’espressione ‘non mi ricordo più’, introdotto dalla particella ‘ma’. Infatti Luciano prima ammalia il lettore/ascoltatore introducendo e descrivendo luoghi, usi, tradizioni particolarmente strani (paradoxovtaton)254, ma poi, quando bisogna riferirli nel dettaglio, utilizza l’espressione, ‘ma non mi ricordo’ ajll≠ oujkevti
mevmnhmai255
.
Luciano molto spesso non ricorda o interrompe la narrazione con false promesse. Ma perché lo fa? Ci verrebbe da pensare che sia normale per un viaggiatore non ricordare alcuni dettagli. La memoria è labile. Ma Luciano è un autore accorto, e niente di quello che scrive o dice è semplice e privo di significato come può apparire.
254 L’espressione paradoxovtaton si ritrova in Bacch. 7 to; mevntoi paradoxovtaton oujdevpw
ei\pon: h]n ga;r ajtelh' oJ gevrwn metaxu; katalivph/ o}n diexhv/ei to;n lovgon, Herc. 3 kaivtoi to; paradoxovtaton oujdevpw e[fhn th'" eijkovno": oJ ga;r dh; gevrwn ïHraklh'" ejkei'no" ajnqrwvpwn pavmpoluv ti plh'qo" e{lkei ejk tw'n w[twn, VH 1.18 qevama paradoxovtaton, VH 1.40 stavnte" ejndotevrw tw'n ojdovntwn kaqewrw'men aJpavntwn w|n ejgw; ei\don qeamavtwn paradoxovtaton, VH 2.41 kai; oJ kubernhvth" oJ Skivnqaro" falakro;" h[dh w]n ajnekovmhsen, kai; to; pavntwn dh; paradoxovtaton, oJ ga;r iJsto;" th'" new;" ejxeblavsthsen kai; klavdou" ajnevfusen, Cont. 23 ajpoqnhvskousi gavr, w\ porqmeu', kai; povlei" w{sper a[nqrwpoi, kai; to; paradoxovtaton, kai; potamoi; o{loi, Dips. 4 diyw'si ga;r eij" uJperbolhvn, kai; to; paradoxovtaton, o{sw/per a]n pivnwsi, tosouvtw/ ma'llon ojrevgontai tou' potou'.
255 Nella Storia Vera, ad esempio, Luciano afferma di non ricordare il vincitore della corsa VH
2.22 to;n mevntoi drovmon oujkevti mevmnhmai o{sti" ejnivkhsen. Anche nelle Dipsadi, ricordando l’epigramma, che l’amico gli aveva riferito di aver letto su una stele, in cui si era imbattuto durante un viaggio, afferma di non ricordare più gli ultimi quattro versi (6 e[ti kai; a[lla e[ph tevttarav ejsti peri; tw'n wj/w'n, kai; wJ" ajnairouvmeno" aujta; ejdhvcqh, ajll≠ oujkevti mevmnhmai ejkeivnwn). Ma è soprattutto nel Sogno che egli non ricorda, quasi a rincarare la dimensione sfumata della visione notturna. Non ricorda le parole di Techne, (forse anche perché poco incisive e sgrammaticate), Somn. 8 ajll≠ oujkevti mevmnhmai: ta; plei'sta ga;r h[dh mou th;n mnhvmhn dievfugen. Anche quando Luciano salirà sul carro alato di Paideia, egli si sentirà come un nuovo Trittolemo, che non feconderà la terra con i semi, dono di Demetra. Seminerà – sì – qualcosa, ma proprio non riesce a ricordare cosa (15 kaqavper oJ Triptovlemo" ajpospeivrwn ti eij" th;n gh'n. oujkevti mevntoi mevmnhmai o{ ti to; speirovmenon ejkei'no h\n, plh;n tou'to movnon o{ti kavtwqen ajforw'nte" a[nqrwpoi ejphv/noun).
L’eventualità di non ricordare compare anche nelle Storie di Erodoto, ma mai in prima persona. Erodoto non dice mai di ‘non ricordare’. La mente non è in grado di ricordare solo quando Erodoto fa riferimento a ciò che egli ha sentito dire da terzi o dai racconti che riporta all’interno della narrazione come testimonianza storica (oujk ejmevmnhto). Ovvero, egli riferisce che un tale, per esempio, non ricordava determinate cose che gli erano state dette, perché non le aveva comprese, o che un altro non si ricordò di quanto gli era stato predetto dall’oracolo.
Insomma, l’incapacità di ricordare che ci presenta Erodoto nelle Storie sembra essere un problema dei personaggi coinvolti in prima persona negli eventi che lui descrive e narra, non è affatto collegata invece ad un suo difetto. Erodoto ricorda e se non ricorda bada bene di non riferirlo direttamente a noi che lo ascoltiamo.
Hdt. 3.51 ≠Exelavsa" de; tou'ton iJstovree to;n presbuvteron tav sfi oJ mhtropavtwr dielevcqh. ïO dev oiJ ajphgeveto w{" sfea" filofrovnw" ejdevxato, ejkeivnou de; tou' e[peo" tov sfi oJ Proklevh" ajpostevllwn ei\pe, a{te ouj novw/ labwvn, oujk ejmevmnhto.
Dopo averlo scacciato chiese al figlio maggiore cosa avesse loro detto il nonno, e quello gli raccontò che li aveva accolti affettuosamente, ma le parole che Procle aveva loro dette congedandoli, poiché non le aveva comprese, non le ricordava.
Hdt. 4.164 Tau'ta hJ Puqivh ≠Arkesivlew/ cra'/. ïO de; paralabw;n tou;" ejk th'" Savmou kath'lqe ej" th;n Kurhvnhn kai; ejpikrathvsa" tw'n prhgmavtwn tou' manthivou oujk ejmevmnhto, ajlla; divka" tou;" ajntistasiwvta" ai[tee th'" eJwutou' fugh'".
Questo la Pizia rispose ad Arcesilao. Ed egli presi con sé quelli di Samo rientrò in Cirene e riconquistato il potere non si ricordò più dell’oracolo, ma cercava di far vendetta del suo esilio sugli avversari.
Luciano invece si fa ben pochi scrupoli nel dichiararsi colpevole di amnesia. Si capisce bene dunque che egli lo fa di proposito utilizzando la formula ‘non mi ricordo’ per vari motivi:
- Per evitare di addentrarsi in discorsi troppo oscuri, anzi lo avrebbero solo messo in difficoltà;
- Per catturare l’attenzione dello spettatore, e sappiamo bene quanto Luciano ci tenesse ad avere degli ascoltatori attenti256. Inoltre riferire sensazioni, opinioni, esperienze in prima persona serve a conferire vivacità alla narrazione. Questo serve anche a garantire la verosimiglianza dei particolari descritti, sollecitando l’attenzione del destinatario;
- Perché il suo intento non è fare un resoconto storiografico, bensì portare avanti la sua azione satirica di critica contro i molti bersagli delle sue opere.
Luciano afferma in prima persona di non riuscire a ricordare dettagli che molto spesso sono ovvi e determinanti nella narrazione. Il nostro autore dunque usa per un fine mirato questa espressione. Vediamo alcuni casi.
Iniziamo da quello narrato nella prolalia Il Sogno o la vita di Luciano. Si tratta di un caso particolare perché la dimensione onirica è per natura approssimativa, priva di connotazioni definite, gli aspetti che caratterizzano un personaggio, o un oggetto, nel sogno possono anche essere precisi e ben definiti257, ma quando il sogno finisce, e il sognatore si ritrova a dover ripensare a quello che ha sognato, si accorge presto di come tutto diventi approssimativo. La
256 Nel Sogno Luciano afferma che il resoconto del suo ‘viaggio onirico’ necessita di ascoltatori
attenti: Somn. 5 ta; meta; tau'ta de; oujkevti eujkatafrovnhta, w\ a[ndre", ajkouvsesqe, ajlla; kai; pavnu filhkovwn ajkroatw'n deovmena. L’attenzione del pubblico è essenziale affinché l’azione satirica possa avere successo. Nelle opere lucianee si trova però un’altra espressione, filoqeavmwn. Con questo termine Luciano connota l’eroe satrico il quale desidera vedere tutto. L’eroe satirico è filomaqhv" e proprio per questo deve essere anche filoqeavmwn. Per l’uso del termine vd. anche Camerotto 2014a pp. 192-195. Il termine viene utilizzato nel Caronte. Il nocchiero dell’Ade infatti desidera vedere e conoscere tutto quello che avviene sulla terra (Cont. 5 ER. Ei[ ge kai; ijdei'n ejqevlei", w\ Cavrwn, a{panta: oujk e[ni de; a[mfw kai; ajsfalh' kai; filoqeavmona ei\nai) Lo stesso avviene nella Nave, dove Licino critica l’amico per la sua curiosità che lo porta a fare qualsiasi cosa pur di vedere (Navig. 1 ou{tw filoqeavmwn suv ge kai; a[okno" ta; toiau'ta). Il rapporto tra autore e destinatario è uno elemento molto importante nello studio dell’opera lucianea nell’ambito della Seconda Sofistica. Luciano si rivolge principalmente ad un uditorio di pepaideumenoi. Luc.
Somn. 4-5 ejpei; nu;x ejph'lqen katevdarqon e[ti e[ndakru" kai; th;n skutavlhn ejnnow'n. Mevcri
me;n dh; touvtwn gelavsima kai; meirakiwvdh ta; eijrhmevna: ta; meta; tau'ta de; oujkevti eujkatafrovnhta, w\ a[ndre", ajkouvsesqe, ajlla; kai; pavnu filhkovwn ajkroatw'n deovmena: Mi limito qui a rimandare ad uno studio esaustivo di Anderson, il quale analizza il termine e il ruolo di questo pubblico ‘selezionato’, non solo in Luciano ma in vari autori del II sec. d.C., vd. Anderson 1989. Vd. anche per una valutazione sulle strategie della comunicazione letteraria Camerotto 1998, pp. 270-274.
257 Luciano definisce ciò che gli appare in sogno con il termine ejnuvpnion e cioè ‘visione notturna’.
Il termine utilizzato ha un significato particolare, perché anche qui l’autore dimostra che nel sogno la vista è essenziale (come anche l’udito), ma a funzionare qui sono gli occhi dell’immaginazione, dell’inconscio. Luc. Somn. 5 i{na ga;r kaq≠ ‹Omhron ei[pw, qei'ov" moi ejnuvpnion h\lqen o[neiro" / ajmbrosivhn dia; nuvkta, ejnargh;" ou{tw" w{ste mhde;n ajpoleivpesqai th'" ajlhqeiva". e[ti gou'n kai; meta; tosou'ton crovnon tav te schvmatav moi tw'n fanevntwn ejn toi'" ojfqalmoi'" paramevnei kai; hJ fwnh; tw'n ajkousqevntwn e[naulo": ou{tw safh' pavnta h\n.
mente non ricorda più i particolari che prima nel dormiente erano chiari, tutto diviene impreciso258.
Luc. Somn. 8 Tau'ta kai; e[ti touvtwn pleivona diaptaivousa kai; barbarivzousa pavmpolla ei\pen hJ Tevcnh, mavla dh; spoudh'/ suneivrousa kai; peivqein me peirwmevnh: ajll≠ oujkevti mevmnhmai: ta; plei'sta ga;r h[dh mou th;n mnhvmhn dievfugen.
Queste ed altre cose disse l’Arte, inciampando nella pronuncia ed offendendo di continuo la grammatica; parlava tuttavia con molta passione e cercava di persuadermi. Ma non ricordo più: le cose che ho udito mi sono uscite ormai quasi tutte di memoria.
Luc. Somn. 15 ejpei; de; ajnh'lqon, hJ me;n h[laune kai; uJfhniovcei, ajrqei;" de; eij" u{yo" ejgw; ejpeskovpoun ajpo; th'" e{w ajrxavmeno" a[cri pro;" ta; eJspevria povlei" kai; e[qnh kai; dhvmou", kaqavper oJ Triptovlemo" ajpospeivrwn ti eij" th;n gh'n. oujkevti mevntoi mevmnhmai o{ ti to; speirovmenon ejkei'no h\n, plh;n tou'to movnon o{ti kavtwqen ajforw'nte" a[nqrwpoi ejphv/noun kai; met≠ eujfhmiva" kaq≠ ou}" genoivmhn th'/ pthvsei parevpempon.
Quando fui salito, ella, fatti partire i cavalli, ne teneva le briglie ed io, levato in alto, guardavo giù da oriente ad occidente città, nazioni, provincie, seminando, come Trittolemo, qualcosa a terra. Sennonché non ricordo più che cosa fosse ciò che seminavo, ma solo questo, che guardando dal basso la gente mi applaudiva e quelli sui quali passavo nel mio volo mi seguivano coi loro auguri.
Un altro caso simile a quelli già citati qui sopra, ripresi dal Somnium, è quello tratto dalle Dipsadi.
Luc. Dips. 6 gegravfqai de; pro;" toujpivgramma<ouj cei'ron de; kai; aujto; eijpei'n,
Toi'a paqovnt≠ oi\mai kai; Tavntalon ai[qopo" ijou' mhdama; koimh'sai diyalevhn ojduvnhn. kai; Danaoi'o kovra" toi'on pivqon oujk ajnaplh'sai
aije;n ejpantlouvsa" uJdrofovrw/ kamavtw/.
258 Sembra che tutto sia connotato da una certa astrattezza. E a conferma di ciò, nel Somnium
lucianeo sono anche le stesse personificazioni che l’autore porta in scena. Tutto è molto vago e Luciano intelligentemente colloca tutta questa scarsa precisione nell’ambito che per eccellenza è impreciso, il sogno. Iannucci afferma infatti che tutta la prolalia è basata su un criterio di non- definizione, definendola una ‘messinscena’. L’astrazione e l’indefinitezza dalla dimensione del sogno si ripercuotono anche nella dimensione del ‘reale’ in cui avviene la narrazione: «Tutti i personaggi al centro del racconto sono anonimi: l’io narrante indefinito al punto che lo stesso pronome ejgwv è usato con insolita parsimonia […], sfuggenti i contorni dello zio materno […] e ancora dei due interlocutori che da un altrettanto imprecisato pubblico intervengono alla fine della descrizione del sogno. Del resto non è definito nemmeno il luogo della performance rappresentata: l’espressione conclusiva pro;" ujma'" ejpanelhvluqa (§ 18) non dà alcun riferimento a una specifica città, originaria o no dell’autore, ma si limita a far coincidere il luogo di origine del fittizio conferenziere con quello in cui si esplica la prolalia narrata, e gli stessi personaggi al centro della narrazione sono personificazione di concetti astratti, Paideia e ‘Scultura’.» vd. Iannucci 2009, p. 103. Per l’interpretazione della prolalia come una messinscena vd. Iannucci 2009, p. 104. Per Luciano come artista plastico – egli infatti afferma nel Sogno di essere abile nel modellare la cera – della parola, vd. Romm 1990, Schouler 1994. Questo gli deriverebbe anche da una certa predisposizione naturale e dalla tradizione familiare.
e[ti kai; a[lla e[ph tevttarav ejsti peri; tw'n wj/w'n, kai; wJ" ajnairouvmeno" aujta; ejdhvcqh, ajll≠ oujkevti mevmnhmai ejkeivnwn.
Sulla lapide, inoltre, era inciso l’epigramma, che non è male riferire letteralmente: Anche Tantalo penso non abbia, così tormentato,
mai del fosco veleno sopita la sete dolorosa, e di Danao le figlie tal orcio riempito con eterna fatica l’acqua attingendo e portando.
Ci sono ancora altri quattro versi che dicono delle uova e che quello fu morsicato per prenderle, ma non me li ricordo più.
Luciano utilizza qui un artificio particolare. Egli, dopo aver elencato gli effetti mortali che il morso della dipsade causa in chiunque venga morso da questo serpente, utilizzando anche il sussidio della medicina259, afferma di non avere mai visto effettivamente con i propri occhi (autopsia) alcuna persona affetta da tale sofferenza. Ma non basta, l’autore afferma chiaramente che egli non solo non ha mai visto di persona una cosa del genere, ma che non ha mai messo piede in Libia.
Si pensava di essere di fronte ad un viaggio vero, e invece Luciano ci afferma il contrario. A cosa dobbiamo credere dunque?
Luciano sta semplicemente utilizzando un tema che gli viene fornito da un evento, da una notizia che gli è giunta, da qualcosa che ha letto e la sfrutta a suo piacimento per compiere la sua azione satirica.
Luc. Dips. 6 ≠Egw; me;n ou\n oujdevna tou'to peponqovta ei\don, mhdev, w\ qeoiv, i[doimi ou{tw kolazovmenon a[nqrwpon, ajll≠ oujde; ejpevbhn th'" Libuvh" to; paravpan eu\ poiw'n. ejpivgramma dev ti h[kousa, o{ moi tw'n eJtaivrwn ti" e[legen aujto;" ejpi; sthvlh" ajnegnwkevnai ajndro;" ou{tw" ajpoqanovnto". ejk Libuvh" e[fh ajpiw;n ej" Ai[gupton para; th;n megavlhn Suvrtin poiei'sqai th;n poreivan: ouj ga;r ei\nai a[llw".
Io non vidi nessuno affetto da questa sofferenza, né possa mai vedere un uomo, o dei, subire una simile pena, ma nemmeno, e davvero saggiamente, misi mai piede in Libia. Sentii però di un epigramma, che un amico mi diceva di aver letto sulla lapide di un uomo morto così. Raccontava che, andando dalla Libia in Egitto, faceva il suo cammino lungo la Grande Sirti, giacché non era possibile altrimenti.
259
Luciano riferisce – a rendere più verosimile e allo stesso tempo spaventoso, il rettile che vive in Libia – che secondo i medici il morso della dipsade causa, come è attestato dal nome stesso del serpente (dal verbo diyavw che significa ‘aver sete’), una sete insaziabile. Inoltre il veleno che viene iniettato, inizialmente è denso, ma tanto più la vittima che è stata morsa beve, più velocemente il veleno si diffonde nel sangue, accelerando la morte dello sfortunato, vd. Luc. Dips. 5 levgousin ijatrw'n pai'de" ejkeivnhn th;n aijtivan ei\nai, pacu;n to;n ijo;n o[nta e[peita deuovmenon tw'/ potw'/ ojxukivnhton givgnesqai, uJgrovteron wJ" to; eijko;" kaqistavmenon kai; ejpi; plei'ston diaceovmenon.
L’autore pertanto non essendo mai stato spettatore di ciò, ci propone un’alternativa: egli ha sentito dire da un amico, che pare aver transitato durante un viaggio proprio in quella zona della Libia, dell’esistenza di una stele260. L’amico, riferisce Luciano, vide questa stele su cui era raffigurata una scena particolare, affine alla modalità in cui i Greci raffigurano Tantalo nel suo eterno supplizio261.
Luc. Dips. 6 e[nqa dh; tavfw/ ejntucei'n para; th;n hji>ovna ejp≠ aujtw'/ tw'/ kluvsmati, kai; sthvlhn ejfestavnai dhlou'san tou' ojlevqrou to;n trovpon: kekolavfqai ga;r ejp≠ aujth'/ a[nqrwpon mevn tina oi|on to;n Tavntalon gravfousin ejn livmnh/ eJstw'ta kai; ajruovmenon tou' u{dato", wJ" pivoi dh'qen, to; qhrivon de;<th;n diyavda<ejmpefuko;" aujtw'/ periespeira'sqai tw'/ podiv, kaiv tina" gunai'ka" uJdroforouvsa" a{ma polla;" katacei'n to; u{dwr aujtou': plhsivon de; wj/a; kei'sqai oi|a tw'n strouqw'n ejkeivnwn ou}" e[fhn qhra'n tou;" Garavmanta": gegravfqai de; pro;" toujpivgramma< […].
Ebbene lì, sulla spiaggia e proprio sulla battigia, s’imbatté in una tomba, sulla quale era eretta una lapide che illustrava il modo della morte: in essa, infatti, era scolpito un uomo nello stesso atteggiamento in cui si dipinge Tantalo, mentre cerca, stando in piedi nello stagno, di portarsi dell’acqua alla bocca, evidentemente per bere; l’animale, la dipsade, è avvolto strettamente intorno al suo piede e molte donne, che insieme portano dell’acqua, la versano su di lui. Vicino ci sono delle uova, del tipo di quelle degli struzzi, dei quali dicevo che vanno a caccia i Garamanti. Sulla lapide, inoltre, era inciso l’epigramma […].
L’immagine raffigurata sulla stele che l’amico descrive a Luciano aiuta alla comprensione e alla collocazione dei fatti262. Infatti il popolo nomade dei
260
Qui è molto importante la contrapposizione che Luciano ci presenta tra autopsia (testimonianza diretta) e l’akoe (testimonianza indiretta) e studia bene la costruzione delle sue proposizioni: all’inizio del paragrafo 6, l’autore pone in prima posizione il pronome ejgwv, seguito dalla particella mevn e seguito poi dal verbo ei\don, nella frase successiva invece pone in prima posizione l’oggetto di cui è venuto a conoscenza da un amico, ejpivgramma, seguito dalla particella dev e dal verbo dell’ascolto h[kousa. Il problema qui è capire se Luciano stia dicendo la verità o stia inventando tutto (cosa molto probabile) solo per avere una valida testimonianza, utile allo svolgimento della narrazione. O forse sta criticando il metodo storiografico utilizzato da alcuni storici?
261
Luciano fa largo uso dell’arte, in particolare quella pittorica. La descrizione (e[kfrasi") è una dei campi in cui il retore riesce ad esercitare meglio le sue capacità nell’arte della parola e nell’ammaliamento dello spettatore. La parola diviene vero e proprio spettacolo della vista. Superfluo è se l’opera d’arte descritta sia vera o inventata. È l’abilità del retore a fare da protagonista. vd. Anderson 1976a, p. 51: «Ficticious paintings were a recognised rethorical frame work for literary fiction». Per il ruolo dell’arte e della pittura in Luciano vd. Maffei 1994. L’arte diviene, come la poesia, imitazione del reale, ed è proprio questo nesso che interessa Luciano ed egli lo sfrutta a suo favore nel manipolare la realtà. Allo stesso modo il mythos serve all’autore per creare un punto di riferimento al suo uditorio, per poi ricreare un’immagine se non affine, nuova, come poteva essere quella di un Eracle Ogmio.
262 La stele è un elemento ricorrente nelle opere lucianee. La testimonianza scritta diventa l’unico
elemento che fornisce informazioni esatte. Come riferisce Canfora 2000, pp. 18-19, la documentazione epigrafica è considerata un tipo di trasmissione “senza intermediari”. «Il documento epigrafico – che è di norma un pezzo “originale” – giunge di norma senza “intermediari”». Luciano inoltre, tenendo conto del fatto che la storia deve guardare ai posteri e non al momento (vd. Hist. conscr. 5, 9, 13, 40-42, 61-63), inserisce tale elemento anche nella
Garamanti, che si addentra in questa regione per la caccia, come già l’autore aveva riferito all’inizio della prolalia tra gli elementi ejpicwvria degni di nota, sono soliti cacciare asini selvatici, struzzi, scimmie e talvolta elefanti263.
La raffigurazione delle uova «simili a quelle degli struzzi, dei quali vanno a caccia i Garamanti» (plhsivon de; wj/a; kei'sqai oi|a tw'n strouqw'n ejkeivnwn ou}"
e[fhn qhra'n tou;" Garavmanta"), spinge Luciano a ricreare una corrispondenza
tra l’apparato iconografico della stele e le usanze che egli ha riscontrato (se di persona o meno è relativamente poco importante), riportando così al suo pubblico una testimonianza verosimile e dunque credibile.
Luc. Dips. 7-8 Sullevgousi de; a[ra ta; wj/a; kai; ejspoudavkasi peri; aujta; oiJ perivoikoi, oujc wJ" fagei'n movnon, ajlla; kai; skeuvesi crw'ntai kenwvsante" kai; ejkpwvmata poiou'ntai ajp≠ aujtw'n: ouj ga;r e[cousi kerameuvein dia; to; yavmmon ei\nai th;n gh'n. eij de; kai; megavla euJreqeivh, kai; pi'loi givgnontai duvo ejk tou' wj/ou' eJkavstou: to; ga;r hJmivtomon eJkavteron ajpocrw'n th'/ kefalh'/ pi'lov" ejstin. ejkei' toivnun locw'sin aiJ diyavde" para; ta; wj/av, kai; ejpeida;n prosevlqh/ oJ a[nqrwpo", ejk th'" yavmmou ejxerpuvsasai davknousi to;n kakodaivmona: oJ de; pavscei ejkei'na ta; mikro;n e[mprosqen eijrhmevna pivnwn ajei; kai; ma'llon diyw'n kai; pimplavmeno" oujdevpote.
Gli abitanti dei dintorni raccolgono, appunto, le uova e hanno molto interesse per esse, non solo pensando di mangiarle; le svuotano, invece, e le usano come utensili facendone delle tazze. Non possono, infatti, lavorare l’argilla perché la terra da loro è sabbia. Se poi ne trovano delle grandi, ricavano da ciascun uovo due berretti,