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L’altare Maggiore della Basilica di San Marco

1.8. La malattia e le ultime opere

Negli ultimi dieci anni di vita, provato dall’età e dalla malattia, Bartolomeo si dedicò ad un numero ristretto di opere, tutte di piccole dimensioni.

Nel 1836 l’Ateneo Veneto bandì un concorso, finanziato con la sottoscrizione dei soci, per l’erezione di un monumento al medico e letterato Francesco Aglietti, membro dell’Ateneo ed eminente uomo di cultura208. Tra i numerosi progetti presentati fu scelto dalla Commissione quello di Bartolomeo Ferrari.

La gestazione dell’opera ebbe un iter lungo e complicato, a causa di ostacoli imprevisti: prima la malattia di Bartolomeo che gli impedì di mettere mano al marmo, poiil fulmine che colpì la sala dell’Ateneo destinata ad accogliere l’opera e che per mesi rimase inagibile. L’esecuzione si rivelò un supplizio per la Commissione, ma soprattutto per il figlio Luigi costretto ad eseguire l’opera in vece del padre in un periodo già denso di sue importanti commissioni.

La travagliata storia dell’opera è ripercorribile grazie alla documentazione che ancora oggi si conserva in Ateneo, ma soprattutto grazie alle lettere che Luigi inviava trafelato all’amico Paride Zaiotti.

L’ultracinquantenne Bartolomeo iniziò ad avere i primi seri problemi di salute che negli anni avvenire non lo abbandoneranno più, il suo fisico cominciava ad appesantirsi ed il suo carattere diventa sempre più schivo. Il contratto stipulato con l’Ateneo prevedeva la consegna dell’opera per la fine di maggio del 1838; ricevute alcune indicazioni dalla Commissione per apportare delle modifiche, all’inizio del gennaio 1838 Bartolomeo aveva portato a termine solamente la figura del Genio in gesso. La lentezza nell’esecuzione, oltre alla malattia che lo costrinse a letto per un lungo tempo, era dovuta all’assenza del figlio Luigi, suo unico aiuto che in quei mesi si trovava a Milano per l’esposizione del Laocoonte alla mostra annuale di Brera. La ripresa dei lavori subito dopo il ritorno di Luigi, induce a ritenere che egli sia l’esecutore anche del gesso e che a Bartolomeo si debba l’idea iniziale e il bozzetto presentato al Concorso.

Il Monumento, di chiara impostazione neoclassica, vede al centro un cippo sopra al quale è posta l’erma dell’Aglietti, sulla sinistra un giovane genio209 con uno stilo immortala il nome del medico sul cippo; sulla destra la Medicina vestita alla greca e con in mano il caduceo, si volta

208 Cfr. DEBORA TOSATO, La collezione di Francesco Aglietti (1757-1836) in “Saggi e Memorie di Storia dell’Arte”, n.

26, 2002, pp. 353-429.

209 “Quel Genio non sarà chiamato da nessuno Genio dell’Aglietti, ma il genio del Ferrari. E quella povera gente che

non voleva metterci il vostro nome! Come se occorresse metterlo! Voi vi siete firmato con tali colpi di scarpello, che nessuno fragl’Italiani potrebbe contraffare quella firma!”, lettera di Paride Zaiotti a Luigi Ferrari, Trento 31 agosto 1840, in ENRICO BROL, Paride Zaiotti a Trieste, in “Studi Trentini di Scienze Storiche, Rivista della Società di Studi per la Venezia Tridentina”, a. XXXII, f. I, 1953, p. 413.

malinconica verso l’illustre rappresentante della sua disciplina. In basso sul cippo, a bassorilievo, è scolpito lo stemma dell’Ateneo Veneto.

Il Monumento venne finalmente portato a termine da Luigi nel 1840, era pronto per essere collocato nella sala della biblioteca quando l’Ateneo venne colpito da un fulmine che danneggiò parte della copertura della sala, facendo rimandare la consegna dell’opera e lamentare non poco Luigi, come scrive in una lettera indirizzata all’amico Paride Zaiotti:

“Il monumento Aglietti sta nel mio studio e chi sa dire quanto vi starà ancora. A colmo delle contarietà incontrate in questo benedetto monumento, ora che è finito ci voleva propriamente il fulmine che avesse a ritardare la sua collocazione. Uff! Avesse almeno incendiato gli scaffali in tal guisa il monumento avrebbe almeno il suo posto. Chissà quando ripareranno la sala ed una volta riparata chissà poi quando si verrà alla conclusione di rimuovre quei maledettissimi scaffali. Diavolo! la mi è scappata. Mi dispiace che la stagione s’innoltra, e non vorrei che il mio povero Genio, cioè quello di Aglietti, nudo nudo come sta avesse accadere ammalato di costipazione per le brezze autunnali. Ed in tal caso la medicina poco gli potrebbe giovare – e mezza ammalata a quet’ora. A certe macchie nel volto e nelle braccia che accusano già una affezione scorbutica. Oh la misera condizione in cui sono gli artisti! Altro che gloria, che corone. La gloria è una voce…messa per caso nel vocabolario, ed in quanto poi le corone, si sa già cosa significassero quelle di spine. Bella cosa esser sazi di gloria ed intanto aver fame – esser morti quando si viveva, e vivere dopo morti, quando quaggiù per noi è tutto finito. Ciò nullo stante non posso perder di mira questo benedetto vocabolo Gloria!!!”210.

Il monumento venne finalmente inaugurato, con solenne cerimonia, il 5 dicembre 1842. Nello stesso arco di anni Bartolomeo era impegnato in una particolare impresa: scolpire sei statue di modeste dimensioni per celebrare sei uomini illustri “italiani” per lo studio di Antonio Papadopoli. L’opera, seppur particolare nel suo genere per il numero di sculture e per la loro dimensione, rientrava nell’uso di quegli anni di celebrare i grandi del passato, basti pensare ai Pantheon che stavano nascendo i tutte le grandi città italiane211.

Nel 1838 erano pronte due delle sei statue, quella di Pietro Bembo e quella di Paolo Sarpi che vennero esposte in Accademia di Belle Arti in autunno, in occasione della mostra allestita in onore della visita dell’Imperatore Ferdinando I a Venezia. Bartolomeo, sulle orme di Antonio Canova riguardo alle statue di illustri personaggi, come ad esempio George Washington (1817- 1821, già Raleigh, distrutta) (fig. 25), La principessa Leopoldina Esterhàzy Liectenstein (1806 – 1818, Eisenstadt, Castello Esterhàzy) (fig. 26), Maria Luigia d’Asburgo come la Concordia (1809- 1814, marmo, Parma, Galleria Nazionale) (fig. 27) e La Musa Polimnia (1812 – 1817, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Hofburg) (fig. 9), sceglie di rappresentare tutti e sei i suoi protagonisti

210 Lettera di Luigi Ferrari a Paride Zaiotti, Venezia, 3 settembre 1840, in ADTs, Fondo Zaiotti, b. da Ci a F, f. Luigi

Ferrari scultore.

211 Per il caso veneziano in questi anni si faccia riferimento al caso di Francesco Hayez in GIUSEPPE PAVANELLO, Il

seduti mentre stanno compiendo un gesto particolare che denota il loro carattere o un episodio della loro vita.

Rispetto alle opere canoviane, dove lo scultore è spesso combattuto tra la rappresentazione ideale mitologica o in foggia all’antica, Bartolomeo opta per la rappresentazione dell’effigiato nel costume del suo tempo. I sei, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei, Nicolò

Macchiavelli, Paolo Sarpi, Pietro Bembo, vestono dunque il saio, una lunga tunica, l’abito talare o

la ricca sopraveste, abiti sapientemente composti in uno studiato ed efficace gioco di pieghe. Per ognuno di loro Ferrari ha individuato, pur sommariamente, una fisionomia caratteristica e una posa sempre diversa e un disegno del panneggio sempre originale. Le figure sono inoltre dotate di attributi essenziali atti a ricordarne la personale vicenda.

Tra il 1840 e il 1841 Bartolomeo Ferrari portò a termine l’ultima opera in marmo a noi nota, il bassorilievo per la tomba della contessa Chiara Ghellini Babieri, lavoro che conclude anche la lunga collaborazione tra lo scultore e il cimitero di Vicenza. Il bassorilievo che rappresenta l’anima della defunta pronta per essere accolta da Dio è come un testamento spirituale di Bartolomeo.

Di li a qualche anno le continue ricadute della malattia lo porteranno alla morte l’8 febbraio 1844212.

1.9. Catalogo delle opere

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