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Conservazione tra materia e immaterialità

3.0 Materia e immaterialità della danza

Il fulcro di questa ricerca è la danza in quanto bene culturale immateriale e la sua conservazione (che può espletarsi in vari modi: documentazione, archiviazione, musealizzazione, ricerca). Già nel precedente capitolo, di natura prettamente giuridica, si è potuto notare quanto sia labile il confine tra materiale e immateriale quando si tratta di questa tipologia di bene.

Nella presente sezione si parlerà specificatamente dei problemi conservativi che emergono con le componenti immateriali e materiali della danza, la quale, come premesso, verrà approcciata partendo dal punto di vista di uno storico dell’arte e considerata un’arte visiva a tutti gli effetti. Per prima cosa però è necessario chiarire alcuni aspetti del nostro oggetto di conservazione: la danza. Essa infatti può essere considerata in senso assoluto, ossia danza come fenomeno antropologico, bene dell’umanità, che si esprime tramite il corpo in movimento, il quale supera il movimento quotidiano andando verso qualcosa di altro e raggiunge una dimensione metaforica. In questo caso l’elemento materiale unico e solo è il corpo del danzatore. Egli traduce il mondo con i suoi movimenti e in questo processo metaforico può anche raggiungere la poesia, l’arte. Oppure si può considerare la danza come attività organizzata, strutturata, performance, spettacolo, ad esempio un balletto classico oppure quella rituale o popolare, che si può avvalere anche di altri elementi materiali, spesso fondamentali per la sua realizzazione. In questo caso il corpo si organizza per agire ed essere visto secondo una determinata modalità. La danza come spettacolo è quella che è più soggetta alla conservazione, in quanto produce una serie di materiali, come le scenografie, i costumi, le partiture musicali, ma ancor prima i bozzetti, eventualmente le coreografie scritte ecc., che generalmente vengono conservati in quelli che possiamo definire i luoghi della memoria e di cui si parlerà più specificamente nel prossimo capitolo.

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In questo secondo caso ci troviamo di fronte a materiali che compongono la danza, che potrei definire veri e propri frammenti, perché insieme vanno a formare un’opera unitaria. Per tale motivo ritengo che l’approccio conservativo da adottare sia quello dell’estetica del frammento. Questi potrebbero permettere di ricostruire qualcosa dell’intero, ma da soli non possono dire molto; testimoni di una memoria, traccia, ci danno solo una vaga idea della completezza, senza tuttavia arrivare alla perfezione dell’intero, all’essenza243. Infatti il materiale in sé non è l’opera d’arte;

essa risiede altrove244. Un caso eclatante può essere quello del ready made dove ciò che fa assurgere l’oggetto a ‘opera d’arte’ risiede nel gesto che lo seleziona e lo decontestualizza. Gesto dunque compiuto da un essere umano che è la materia principale (materia che in questo contesto rievoca la radice della parola, mater) sia della danza come spettacolo, che di quella in senso assoluto, così come delle arti performative. Il limite conservativo risiede proprio in questo, difatti i gesti del corpo che danza non sono alienabili, poiché non producono nulla di materiale: è l’uomo

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Dominique Dupuy parla spesso di vestigia (da intendere come l’impronta del passo nel suolo) per dare l’idea dell’effemericità di queste tracce. Alle vestigia lui associa la parola vertigine (ricordiamo il titolo del convegno Vestige-vertige per cui rimandiamo anche alle pp. 250 e ss.) proprio per il senso di spaesamento che può provarsi davanti ad una traccia che ci dà solo un indizio di un qualcosa che è stato, ma che sta a noi poi cercare di ricostruire. Io parlerei di vertigine anche in relazione all’immagine (o sarebbe meglio dire ai frammenti di immagini che il nostro cervello cerca di ricostruire, colmando eventualmente le lacune, ricreare l’insieme, viaggiando dal particolare al generale) e all’emozione. La vertigine è spesso intesa come terremoto interiore creato dall’immagine e allo stesso tempo introiettato in essa. Immagine che non è altro che il prodotto di tensioni accumulatesi nel tempo - silentemente captate dai “sismografi” arte, sapienti memorie dell’animo umano - fino ad esplodere in modo sorprendente. Dobbiamo quindi pensare una conservazione di immagini, consapevoli che nell’immagine stessa è insita una idea di conservazione e che l’immagine si presta alle interpretazioni del tempo perché gli sguardi mutano.

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Esplicativa in tal senso è l’affermazione di Lucio Fontana nel Primo Manifesto dello Spazialismo del 1947: «L’Arte è eterna, ma non può essere immortale. È eterna in quanto un suo gesto, come qualunque altro gesto compiuto, non può non continuare a permanere nello spirito dell’uomo come razza perpetuata... Rimarrà eterna come gesto, ma morrà come materia», cfr. http://www.giacomobelloni.com/page4/styled-15/index.html.

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stesso il proprio prodotto, che quando esce dalla scena si dissolve245. Legata al gesto vi è un’altra componente immateriale, che è l’emozione che esso può suscitare e questi argomenti verranno trattati nel paragrafo dedicato al corpo del danzatore, il quale è una sorta di punto nodale essendo caratterizzato da entrambe le componenti (materiale e immateriale) e poiché è ciò che crea i maggiori problemi conservativi.

Vanno poi considerati alcuni “materiali della memoria”, da intendere al pari dei “materiali della memoria” di cui si parlava nel primo capitolo in riferimento ai monumenti e ai documenti246. Dunque tutti quegli elementi che forniscono una documentazione, che sono fonti, ma che spesso danno vita ad una sovrapposizione tra l’oggetto della conservazione e il mezzo per la conservazione (soggetto). Questi “materiali” in alcuni casi sono il prodotto di determinate relazioni che si vengono a instaurare tra danza e altre espressioni artistiche. Sicuramente il rapporto con le arti plastiche è uno dei più fruttuosi sotto questo punto di vista. Numerose sono le “immagini” che ne sono scaturite e che hanno tentato di fissare un attimo della danza o hanno cercato di esprimerne l’essenza, ma anche le collaborazioni e ispirazioni reciproche che si sono avute tra arte plastica e danza (la danza ha ispirato l’arte e viceversa). Tuttavia qui non si vuole considerare il confronto con le arti plastiche e nello specifico con l’arte contemporanea, solo in quanto produttrice di oggetti materiali anche se effimeri, ma si vuole tenere conto anche di tutta quella parte di arte in cui il focus è l’artista e l’azione performativa. La stessa danza – che è concreta nel corpo che danza, ma effimera nel movimento - se intesa come “spettacolo”, come abbiamo già detto, può produrre elementi materiali da musealizzare o comunque da fare oggetto di conservazione. La problematica però risiede nel fatto che, mentre gli elementi materiali, qualora non siano mutevoli o deperibili, possono essere conservati nei luoghi di memoria, quelli immateriali che

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SEVILLA A., Danza, cultura y clases socials, Ciudad de Méxuci, INBA, 1990, p. 73.

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Interessante a tal proposito lo scritto: SEBILLOTTE L., Documenter la danse : le moyen de l’archive, in FILLOUX-VIGREUX M. - GOETSCHEL P.- HUTHWOHL J.- ROSEMBERG J. (a cura di), Spectacles en France. Archives et recherche, Paris, Publibook, 2014, pp. 15-20. Qui si parla di tracce indirette, nonchè della delicata problematica dell’archivio.

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futuro hanno? Oggi le nuove tecnologie sembrano poter in parte risolvere questo problema, ma c’è qualcosa che sfugge sempre e che risiede nell’emozione del vivere in modo empatico e diretto l’evento. Questo è lo stesso problema che si pone con le performances artistiche.

Ma cosa si intende per performance? Il termine performance rivela un’ambiguità costitutiva poiché in inglese, a seconda dei casi, può significare azione fisica o rappresentazione. Gli studi americani sulla performance, pur continuando ad ampliarne lo spettro d’azione, promuovono l’idea dello studioso Richard Schechner per il quale ogni atto performativo si fonda per lo meno su tre operazioni: l’essere (being), quindi sullo stato di presenza; il fare (doing), ovvero un’azione; e terzo, ma non meno importante, il mostrare il fare (showing doing)247. Potremmo dire allora che la performance attiene a un processo di attivazione del corpo che si concede alla vista, in un dato spazio248. Quest’ultimo può essere ovunque, non ce n’è uno privilegiato. Secondo Silvana Sinisi lo spazio è una sorta di cassa di risonanza

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SCHECHNER R., Performance studies, an Introduction, Routledge, Londres/New York, 2002. Sulla performance, rimangono testi di riferimento: GOLDBERG R. L., Performance art. From Futurism to the present, revised and expanded edition, London, Thames & Hudson, 2001 (I ed. Performance: Live art 1909 to present, London, Thames & Hudson, 1979) e CARLSON M., Performance: a critical introduction, London-New York, Routledge, 1996. Per un sintetico ma articolato panorama della pratica della performance in Italia si veda: SINISI S., La nuova coreografia italiana: percorsi tra la danza, l’arte e la scena, in “Ariel”, anno XII, n. 1, gennaio-aprile 1997, pp. 43-49; SINISI SILVANA, La performance e le neoavanguardie, in Id., Cambi di scena. Teatro e arti visive nelle poetiche del Novecento, Roma, Bulzoni Editore, 1995, pp. 221-228. Per la situazione in Italia con particolare riferimento all’evento della Settimana della performance si veda: CERVELLATI E., “A rare event”. La nuova danza alla III settimana della performance (Bologna, 1979), in “Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno V, numero 4, 2013 /rivista on line. Particolare forma di performance è l’event (denominazione con cui spesso Cunningham qualificava i suoi balletti), cfr. RIOUT D., L’arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, Torino, Einaudi, 2002, pp. 364 e ss.

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BURIGHEL G., Dal teatro di Jan Fabre. Attitudini performative del corpo sulla scena: quali forme di presenza, e quali mimesi?, in “Mimesis Journal”, II, 2, (2013), p. 1. Sul rapporto danza performance e in generale sulle implicazioni del corpo e dello spazio tempo si veda: BEAUQUEL J., Esthétique de la danse, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2015.

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dell’azione dove «in assenza di delimitazioni precostituite, la vicinanza fisica tra gli spettatori e i performers crea un cortocircuito di energie, un continuo scambio di tensioni e stimoli, che possiedono il flusso imprevedibile e caldo della vita»249. Lo spazio e il tempo sono fondamentali nella performance ed è proprio nel diverso modo di interpretare questi che differiva con la danza e il teatro anche se ora queste differenze si vanno appianando, basti pensare ai lavori del coreografo Jérôme Bel250.

Per Massimo Schiavoni l’azione performativa è un atto creativo non classificabile e assimilabile totalmente né al teatro, né alla danza così come li conosciamo. La Performing Dance «ha un sentimento dadaista, una dislocazione di un quadro di de Chirico, un tempo e uno spiazzamento di Allan Kaprow; la manualità di una fotografa pittorialista, la composizione di una scrittura costruttivista e lo spazio di un’opera di Robert Smithson»251.

Il punto in cui performance e danza trovano certamente convergenza è quello della conservazione252, la quale addirittura spesso può essere negata (molte opere infatti nascono con l’intento di non essere conservate, ma, come è accaduto per molta della danza moderna, successivamente si è sentita l’esigenza di recuperare l’accaduto e in alcuni casi si sta creando una sorta di repertorio delle opere passate, con tutti i rischi che esso comporta).

Tutto ciò ci fa comprendere quanto siano articolati e complessi i problemi conservativi che pone la danza.

249

SINISI S., La performance e le neoavanguardie, in ID., Cambi di scena. Teatro e arti visive nelle poetiche del Novecento, Roma, Bulzoni Editore, 1995, p. 222.

250

Cfr. O’REILLY S., Il corpo nell’arte contemporanea, Torino, Einaudi, 2011, pp. 62 e ss.

251

SCHIAVONI M.,Ereditare il futuro. Ballata sulla scena contemporanea, in ID. (a cura di), Creatori di senso. Identità, pratiche e confronti nella danza contemporanea italiana, Roma, Aracne editrice, 2013, p. 36.

252

Si veda per il discorso danza/performance problemi conservativi: ARMELAGOS A. - SIRRIDGE M., The Identity Crisis in Dance, in “JAAC”, vol. 37, n. 2 (Winter, 1978), pp. 129-139. Attualmente sembra che i modo migliore per documentare questa tipologia di evento sia il video, ma manca quasi sempre qualcosa, come analizzeremo meglio più avanti.

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