Viene richiesto parere legale da Caia, convivente “more uxorio” da più di sedici anni di Tizio, in ordine alla possibilità di impugnare favorevolmente la sentenza del Tribunale di Brindisi che l’ha ritenuta responsabile del delitto di cui all’art. 378 c.p. per aver mentito alle Forze dell’Ordine al fine di evitare l’arresto al suo convivente, ricercato per aver commesso – all’insaputa della donna – una rapina impropria ai danni del Supermercato Beta e del suo proprietario Sempronio.
In particolare, Caia, quando Tizio tornava a casa raccontandole della rapina e chiedendole di mentire alle Forze dell’Ordine sulla sua presenza in casa, acconsentiva e, all’arrivo dei militari, dichiarava loro falsamente di non aver avuto notizie del suo compagno.
Poco dopo, tuttavia, Tizio veniva comunque tratto in arresto. I militari, infatti, poco convinti dall’atteggiamento tentennante di Caia, si erano appostati in una via vicina all’abitazione di residenza della coppia e dopo qualche ora avevano visto Tizio uscire dal garage di pertinenza della casa, dove si era rifugiato subito dopo aver udito il rumore delle sirene in avvicinamento.
Al fine di fornire una soddisfacente risposta al quesito posto da Caia occorrerà analizzare, in primo luogo, il reato di favoreggiamento personale, per verificare la sussumibilità in astratto della condotta di Caia sotto tale fattispecie delittuosa; in secondo luogo, si dovrà esaminare l’applicabilità anche ai conviventi di fatto, quale è Caia rispetto a Tizio, della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1 c.p..
Quanto alla fattispecie di favoreggiamento personale, l’art. 378 c.p. punisce chiunque, dopo che sia stato commesso un delitto e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuti taluno ad eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche.
Inserito nel titolo del codice penale dedicato ai reati contro l’amministrazione della giustizia, il delitto di favoreggiamento personale, in quanto reato di pericolo, deve ritenersi integrato da qualsiasi comportamento idoneo, sia pure in astratto, ad intralciare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale nel momento dell’accertamento e della repressione dei reati.
Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il reato in parola consiste nel turbamento della funzione giudiziaria e non richiede che le investigazioni dell’autorità siano effettivamente fuorviate, risultando sufficiente, ai fini della sua configurabilità, che la condotta del soggetto agente abbia l’attitudine e possa conseguire lo scopo di aiutare l’autore del delitto presupposto ad eludere le investigazioni in corso, per effetto anche di un mero sviamento delle stesse.
In particolare, costituisce aiuto punibile, in presenza degli altri presupposti, ai sensi dell’art. 378 c.p., qualsiasi atteggiamento, commissivo od omissivo, che favorisca l’elusione delle investigazioni; pertanto, il comportamento del favoreggiatore, secondo costante giurisprudenza, può concretizzarsi anche nelle mendaci dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, così come nel silenzio, nella reticenza o nel rifiuto di fornire notizie (Cass. 31436/2004; Cass. 37757/2010).
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Presupposto indispensabile per l’esistenza del reato di favoreggiamento è che sia stato precedentemente commesso un reato da soggetto diverso dal favoreggiatore (c.d. favorito). Nel caso di specie, dunque, presupposto per la sussumibilità della condotta di Caia sotto la fattispecie di cui all’art. 378 c.p. è la commissione di un fatto di reato da parte di Tizio (c.d. reato presupposto), che la donna prova a sottrarre all’arresto da parte delle Forze dell’Ordine.
Analizzando la condotta di Tizio appaiono sussistenti tutti gli elementi della fattispecie della rapina aggravata dall’uso di armi, di cui all’art. 628, comma 2, n. 1 c.p..
Quanto, poi, all’espressa clausola di riserva “fuori dei casi di concorso” contenuta nell’art. 378 c.p., dalla stessa discende che la fattispecie in esame ricorra nei soli casi in cui il soggetto favoreggiatore non sia stato coinvolto nella commissione del reato presupposto, né oggettivamente mediante un apporto causale materiale, né tantomeno soggettivamente, attraverso la manifestazione di disponibilità a fornire all’autore del reato un rilevante aiuto ai fini della sua consumazione (Cass. 33450/2001).
Per valutare la configurabilità in capo a Caia del reato di favoreggiamento, occorre dunque verificare se la stessa abbia con la sua condotta contribuito alla consumazione della rapina impropria o se il suo apporto sia stato esclusivamente diretto ad aiutare Tizio ad eludere le investigazioni dell’Autorità successivamente alla realizzazione del reato.
La giurisprudenza unanime ritiene, infatti, che la differenza tra concorso nel reato e favoreggiamento vada individuata con riferimento all’elemento psicologico “dimodoché è ravvisabile il concorso nel reato presupposto se l’agente non si limiti ad aiutare taluno a eludere le investigazioni dell’autorità ma partecipi con animus socii all’attività concorsuale del reato, adoperandosi in funzione essenziale, o comunque apprezzabile, in rapporto di causalità con l’evento.” (ex multis Cass., n. 1325/1998).
Le circostanze per cui Caia veniva a conoscenza della commissione della rapina da parte di Tizio solo dopo la consumazione della stessa, quando il convivente tornava a casa per nascondersi dalle Forze dell’Ordine, e si determinava ad aiutarlo al solo fine di evitare il suo arresto, impediscono di ravvisare nella sua condotta un contributo concorsuale alla realizzazione della rapina. Risulta integrato, dunque, anche il presupposto della assenza di concorso nel reato presupposto.
Quanto all’elemento soggettivo del reato di favoreggiamento, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che per la sussistenza del delitto in questione sia sufficiente il dolo generico, ovverosia la volontà cosciente di aiutare una persona a sottrarsi alle investigazioni o alle ricerche dell’autorità, nonché la ragionevole consapevolezza dell’apprezzabilità del suo contributo di aiuto al detto soggetto, conoscendone il reato presupposto (Cass. 24035/2011).
Orbene, nel caso di specie, nel momento in cui Caia ha escluso la presenza di Tizio all’interno della loro abitazione, riferendo alle Forze dell’Ordine intervenute di non sapere dove fosse, ha posto coscientemente in essere una condotta idonea a configurare l’ipotesi di reato in parola, rendendo dichiarazioni mendaci al solo scopo di consentire al convivente Tizio di eludere le
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investigazioni dell’autorità a suo carico in seguito alla commissione della rapina, così intralciando le ricerche in corso.
Nel caso “de quo”, dunque, sembrerebbe che la configurabilità di tale reato in capo a Caia non incontri alcun ostacolo, ricorrendone tutti i presupposti.
Alcun rilievo ha, poi, al riguardo, il fatto che le Forze dell’Ordine siano comunque riuscite a trarre in arresto Tizio, nonostante le false dichiarazioni rese da Caia proprio al fine di evitare tale circostanza. Come precedentemente rilevato, infatti, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario ritiene che il reato in esame sia integrato anche quando l’aiuto prestato dal favoreggiatore si sia arrestato alla semplice potenzialità ed attitudine a conseguire detto scopo, senza tuttavia raggiungerlo realmente.
Orbene, verificata la sussumibilità della condotta di Caia sotto la fattispecie di cui all’art. 378 c.p., occorre ora valutare l’applicabilità nei suoi confronti della causa di non punibilità prevista dall’art.
384, comma 1 c.p., avuto riguardo alla sua qualità di convivente “more uxorio” del favorito.
La norma in questione esclude la punibilità in relazione a determinate fattispecie criminose, quando il fatto sia stato commesso dall’autore poiché costretto dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento alla libertà e all’onore.
Ciò detto, per valutare l’applicabilità a Caia della suddetta causa di non punibilità occorre soffermarsi sul significato da attribuire all’espressione “prossimo congiunto” contenuta nel primo comma dell’art. 384 c.p..
Definizione generale di prossimo congiunto in ambito penale è fornita dall’art. 307, comma 4 c.p., alla stregua del quale “Agli effetti della legge penale, s'intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorchè sia morto il coniuge e non vi sia prole”.
La norma in esame non ricomprende, dunque, nella nozione di prossimo congiunto il convivente
“more uxorio”. Il combinato disposto degli artt. 307, comma 4 e 384, comma 1 c.p. sembrerebbe escludere, allora, l’applicabilità della causa di non punibilità in questione al convivente di fatto.
Occorre interrogarsi, quindi, sulla possibilità di un’interpretazione analogica della disposizione in relazione alla sua natura giuridica: l’eventuale inquadramento dell’art. 384 c.p. quale norma eccezionale attiverebbe infatti il divieto di analogia di cui agli artt. 12 e 14 delle Preleggi.
In proposito, sebbene parte della dottrina e della giurisprudenza la inquadrino quale causa di giustificazione (l’esimente in questione troverebbe il suo fondamento nello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., del quale costituirebbe una “species”) oppure quale causa di esclusione della colpevolezza, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti la ritengono causa speciale di non punibilità e, dunque, avente natura “eccezionale”.
Tale inquadramento ha indotto per molto tempo la giurisprudenza di legittimità ad escludere la
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possibilità di estendere in via analogica la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1 c.p.
al convivente “more uxorio”. In particolare, proprio con riferimento alla fattispecie di favoreggiamento personale, la Corte di Cassazione ha sostenuto la non applicabilità di detta esimente “operante per il coniuge, al convivente di fatto resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma 1 c.p. e 307, ultimo comma c.p.” (Cass. 35967/2006).
Tale arresto giurisprudenziale ha preso le mosse da quanto in precedenza affermato in materia dalla Corte Costituzionale; questa, in particolare, con sentenza n. 140/2009 ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 384, comma 1 c.p., censurato in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., evidenziando la differenza tra convivenza “more uxorio” e vincolo coniugale, sull’assunto che “si tratterebbe di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare dall’altro, ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso a seconda che si tratti di famiglia di fatto e della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità. Ciò legittima nel settore dell’ordinamento penale soluzioni legislative differenziate” (Corte Cost. n. 140/2009).
Deve tuttavia evidenziarsi che recentemente la stessa Corte di Cassazione, spinta dall’esigenza di dare conto dell’importante mutamento del concetto di famiglia intervenuto nell’attuale contesto sociale, ricorrendo ad un’interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata del medesimo concetto di famiglia, ha radicalmente mutato il proprio orientamento, ammettendo nel novero dei
“prossimi congiunti” anche il convivente “more uxorio”.
In particolare con la sentenza n. 34147 del 4 agosto 2015 la Suprema Corte ha chiarito che “la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 comma primo c.p. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente more uxorio” sul presupposto che “oggi, famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello che veniva loro attribuito all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale ancora vigente e la stabilità del rapporto, con il venir meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio”.
Successivamente, tale ridefinizione del concetto di famiglia è stata altresì avallata dalla c.d. Legge Cirinnà (L. 76 del 2016) che, oltre a regolamentare l’unione civile delle persone dello stesso sesso, ha introdotto anche una disciplina delle convivenze di fatto.
Sotto il profilo penalistico, poi, il D.l.vo n. 6 del 2017 ha modificato proprio l’art. 307, comma 4, c.p. inserendo nel novero dei “prossimi congiunti” la categoria “la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
Anche alla luce di tali novità normative che, sebbene non incidenti in maniera diretta sulla questione della estensione dell’art. 384 c.p. alle convivenze di fatto, hanno notevolmente ampliato
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la nozione di famiglia (ad esempio equiparando al matrimonio l’unione civile tra persone dello stesso sesso) si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n.11476 del 2019 secondo cui “La causa di non punibilità prevista dall'art. 384 c.p. è applicabile anche nei confronti dei componenti di una famiglia di fatto e dei loro prossimi congiunti, dovendosi recepire un'interpretazione "in bonam partem" che consenta la parificazione, sul piano penale, della convivenza "more uxorio" alla famiglia fondata sul matrimonio. (In motivazione, la Corte ha precisato che l'equiparazione ai coniugi dei soli componenti di un'unione civile, prevista dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, non esclude l'estensione della causa di non punibilità ai conviventi
"more uxorio", trattandosi di soluzione già consentita dal preesistente quadro normativo, oltre che dalla nozione di famiglia desumibile dall'art. 8 Cedu, ricomprendente anche i rapporti di fatto)”.
Alla luce di quanto detto, si deve ritenere che, nel caso di specie, come è emerso dai fatti narrati, Caia e Tizio sono conviventi da oltre sedici anni, circostanza questa che, nel sottolineare la stabilità della relazione di fatto, depone a favore dell’applicabilità a Caia della causa di non punibilità in questione.
In conclusione, impiegando gli enunciati principi al caso in esame, è possibile prospettare a Caia l’opportunità di impugnare la sentenza del Tribunale di Brindisi dinanzi alla Corte d’Appello di Lecce in quanto, nonostante il suo comportamento potesse configurare il delitto di favoreggiamento personale, il giudice di prime cure avrebbe dovuto comunque assolverla con formula “perché il fatto non costituisce reato”, stante l’applicabilità alla stessa della causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma primo, c.p..
107 TRACCIA PARERE N. 24
Ritenendo di aver subito dei comportamenti scorretti da parte delle Autorità competenti in relazione ad un procedimento in cui era indagato per calunnia, Tizio presentava un esposto-denuncia nei confronti di alcuni magistrati del Tribunale di Bari e nei confronti degli agenti di polizia del commissariato di Monopoli.
A seguito di tale denuncia il Pubblico Ministero competente emetteva un “atto di rintraccio” nei confronti di Tizio per sentirlo come persona informata sui fatti.
Mentre si trovava sul treno che dal luogo di lavoro lo riportava a casa, veniva correttamente identificato da alcuni agenti della Polfer che lo invitavano a recarsi quanto prima al Commissariato di Monopoli per ricevere la notifica di un (non meglio precisato) atto giudiziario.
Tizio ringraziava gli agenti ed assicurava che, una volta sceso dal treno, si sarebbe recato subito in Commissariato.
Sceso dal treno, però, Tizio veniva immediatamente intercettato e bloccato da una pattuglia della Polizia del locale Commissariato. I poliziotti, nonostante lo conoscessero personalmente e fossero stati avvisati da Tizio in merito alla precedente identificazione, lo invitavano più volte a fornire le sue generalità o a esibire un documento di riconoscimento, ma senza esito.
A fronte di tale condotta omissiva, i Poliziotti lo invitavano a seguirli in Commissariato a bordo della loro macchina di servizio.
Non conoscendo assolutamente quale tipologia di atto dovesse essergli notificata e convincendosi di essere oggetto di una persecuzione e/o ritorsione da parte delle forze dell’ordine per la denuncia presentata, si opponeva con forza al loro tentativo di farlo salire in macchina e ingaggiava una colluttazione nel corso della quale uno degli agenti riportava lesioni personali (una distorsione del polso guaribile in 50 giorni).
Sopraggiunta sul posto un’altra pattuglia, Tizio veniva definitivamente bloccato e condotto in commissariato.
Per i fatti accaduti, Tizio veniva imputato e poi condannato dal Tribunale di primo grado per i reati previsti e puniti dagli artt. 337, 582, 583, comma 1 n.1. c.p., ritenuta non configurabile nella vicenda in esame la "causa di non punibilità" prevista dall'art. 393-bis c.p., stante la assoluta regolarità e legittimità dell’attività di identificazione svolta dai poliziotti.
Il candidato, assunte le vesti di legale di Tizio, premessi brevi cenni sugli istituti giuridici sottesi, rediga parere motivato sulla possibilità di impugnare favorevolmente la sentenza del Tribunale di primo grado.
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SOLUZIONE PARERE 24: L'ISTITUTO DELLA “REAZIONE LEGITTIMA AD ATTI ARBITRARI” DI CUI ALL'ART. 393-BIS C.P..
Viene richiesto parere legale da parte di Tizio in merito alla possibilità di impugnare vittoriosamente la sentenza con cui è stato condannato in primo grado per i reati previsti e puniti dagli artt. 337, 582, 583, comma 1 n.1. c.p..
In particolare, tale condanna derivava dalla reazione violenta avuta da Tizio rispetto al tentativo delle forze dell’ordine di condurlo in Commissariato, a bordo della loro macchina di servizio, al fine di identificarlo e, poi, eseguire una semplice notifica di un atto giudiziario.
Nello specifico, Tizio dava luogo alla suddetta colluttazione con le forze dell’ordine nella convinzione di essere vittima di un sopruso, discendente dalla denuncia presentata, qualche tempo prima, nei confronti di alcuni magistrati del Tribunale di Bari e nei confronti degli agenti di polizia del commissariato di Monopoli.
Tale convinzione maturava nell’uomo anche e soprattutto in virtù del fatto che, poco prima di essere fermato dai poliziotti (che tra l’altro lo conoscevano personalmente), era stato già identificato dalla Polfer a bordo del treno che lo aveva condotto nel paese di residenza e con la quale aveva collaborato tranquillamente.
La questioni giuridiche da affrontare, per fornire una risposta alla richiesta di parere formulata da Tizio, attengono alla natura della “causa di non punibilità” di cui all’art. 393 bis c.p.
(espressamente esclusa dalla sentenza di primo grado) e alla sua applicabilità anche nelle ipotesi di cui all’art. 59, comma 4, c.p..
La necessità di interrogarsi in merito all’applicabilità dell’art. 393 bis c.p. deriva dalla possibile configurabilità, nella condotta tenuta da Tizio, di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi delle fattispecie di reato contestate.
Con riferimento infatti al reato di Resistenza a pubblico Ufficiale, per la sua sussistenza è sufficiente qualsiasi condotta, di violenza o di minaccia, idonea ad impedire o turbare l’attività del pubblico ufficiale nell’atto di compiere un atto d’ufficio.
Sotto il profilo soggettivo, rileva invece il dolo specifico, consistente nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia al fine di opporsi al pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.
Nel caso di specie, la condotta di Tizio di opposizione con forza all’invito della Polizia di salire a bordo dell’auto di servizio per effettuare l’identificazione in Commissariato, sembra configurare entrambi gli elementi, oggettivo e soggettivo, della fattispecie di cui all’art. 337 c.p..
Anche in relazione al delitto di lesioni gravi, di cui al combinato disposto dagli artt. 582 e 583, comma 1 n. 1, c.p., la volontarietà della colluttazione avviata con gli agenti e la cagionata distorsione del polso guaribile in 50 giorni in danno del poliziotto, non sembrano lasciare ampi margini per contrastare tale imputazione. A tal riguardo la fattispecie criminosa richiede, infatti, la realizzazione di una qualsiasi condotta atta a cagionare una malattia ed il dolo generico di colpire
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qualcuno con violenza fisica, con la consapevolezza che da tale condotta possano derivare danni fisici alla vittima.
Ciò detto, non resta che approfondire la natura della “causa di non punibilità” di cui all’art. 393 bis c.p., derivando, dal suo inquadramento come “causa di giustificazione” ovvero come “causa di non punibilità in senso stretto”, importanti conseguenze ai fini della sua applicabilità nella forma putativa, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 59 c.p..
Con l’art. 393 bis il codice esclude invero l'applicazione di una serie di disposizioni, volte ad incriminare condotte commesse dal privato nei confronti di qualificati soggetti pubblici (artt.
336,337,338,339,339-bis, 341-bis, 342 e 343 c.p.) allorquando "il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto (....) eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni".
Sulla natura di questa figura si sono prospettate da tempo variegate soluzioni esegetiche, che al di là del corretto inquadramento sistematico dell'istituto, hanno assunto particolare rilevanza con riferimento alla possibilità dell'applicazione dell'art. 59 c.p., ultimo comma, riservato, secondo un orientamento largamente dominante, alle sole cause di giustificazione o scriminanti del reato.
A fronte di un orientamento minoritario che la inquadra come una causa di esclusione della pena in “senso stretto”, la quale rende non punibile un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, la
A fronte di un orientamento minoritario che la inquadra come una causa di esclusione della pena in “senso stretto”, la quale rende non punibile un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, la