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SOLUZIONE PARERE 21: RAPPORTI TRA IL REATO DI INDEBITA PERCEZIONE DI EROGAZIONI PUBBLICHE, TRUFFA E FALSO

Nel documento MODELLI DI PARERE DIRITTO PENALE (pagine 91-102)

Viene richiesto parere legale da parte di Tizio in merito alla possibile strategia difensiva da mettere in atto per contrastare l’ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari disposta nei suoi confronti dal G.I.P., in quanto indagato per i reati di cui agli artt. 483 e 640, comma 2, c.p..

In particolare, gli viene contestato di avere autocertificato, con dichiarazione falsa resa all'impiegato addetto all'ufficio ticket dell'ospedale di Alfa, di percepire redditi non superiori a quelli previsti dalla legge per l'attribuzione del diritto alla fruizione delle prestazioni mediche in regime di esenzione contributiva, così procurandosi l'ingiusto profitto costituito dal risparmio di euro 1.500,00 sulla quota di partecipazione alla spesa con correlato danno per l'ente pubblico.

In considerazione del fatto che, nel caso di specie, il procedimento di esenzione del ticket non presupponeva l’effettivo accertamento da parte dell’ente pubblico dei relativi presupposti, fondandosi invece sulla mera dichiarazione del beneficiario, per fornire una completa risposta alla richiesta di parere ed elaborare una valida strategia difensiva, bisogna approfondire le questioni giuridiche inerenti ai rapporti tra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche e quello di truffa e all’eventuale assorbimento del reato di falso ex art. 483 c.p. in quello di cui all’art. 316 ter c.p..

Nell’analizzare la condotta materiale messa in atto di Tizio, consistita nel dichiarare falsamente all'impiegato addetto all'ufficio ticket dell'ospedale di percepire redditi non superiori a quelli previsti per godere dell’esenzione, risulta innanzitutto doveroso e preliminare interrogarsi sulla sussistenza dei presupposti per sussumerla sotto l’art. 483 c.p., non avendo la dichiarazione stessa assunto il valore di atto di notorietà, vista la mancata allegazione del documento di identità.

Ai sensi dell’art. 483 c.p., infatti, affinchè si possa parlare di falsità ideologica del privato in atto pubblico, è necessario appunto che la contestata falsa attestazione sia contenuta in un atto pubblico o in una autocertificazione che possegga tutti i requisiti per provare legalmente i fatti descritti dal dichiarante al pubblico ufficiale.

Nel caso in esame, non essendo stata presentata la contestata dichiarazione unitamente a copia fotostatica di un documento di identità e non essendo pertanto idonea ad assumere valore di atto di notorietà, appare più corretto inquadrare il comportamento di Tizio nella depenalizzata fattispecie di falsità in atto privato, di cui all’art. 485 c.p..

Altresì dubbia, come detto, è la sussunzione della descritta condotta nel delitto di truffa aggravata di cui all’art. 640, comma 2, c.p., configurabile qualora l’induzione in errore del terzo, propria della truffa, venga commessa in danno dello Stato o di altro ente pubblico.

Come noto, il delitto di truffa di cui all’art. 640 c.p. è una fattispecie a cooperazione artificiosa, nella quale la vittima pone in essere l’azione dispositiva dannosa per il patrimonio a seguito

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dell’errore provocato dalla condotta ingannevole del soggetto attivo; trattasi, pertanto, di fattispecie in cui gli artifici e raggiri, lo stato di errore, l’atto di disposizione patrimoniale, il danno e il profitto, costituiscono una complessiva serie causale.

Là dove la necessaria cooperazione della vittima o uno qualsiasi dei suddetti elementi non sia riscontrabile nel caso concreto, facendo venir meno la descritta sequenza "artificio/induzione in errore/profitto", non si potrà configurare il delitto in questione.

Quanto alla definizione di artifizi e raggiri, giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere che l'artificio corrisponde a quella condotta dell'agente tale da far apparire come vera una situazione che è invece ingannevole, mentre con il raggiro egli si avvale di affermazioni mendaci dette in modo da convincere e sorprendere l'altrui buona fede.

Specialmente nella truffa contrattuale, poi, la giurisprudenza ha dilatato la suddetta nozione di di artifizi o i raggiri, ravvisandone la configurabilità anche nel semplice silenzio maliziosamente serbato su circostanze fondamentali (ad esempio ai fini della conclusione di un contratto), da chi abbia l'obbligo, anche in forza di una norma extrapenale, di farle conoscere in quanto il comportamento dell'agente in tal caso non può ritenersi meramente passivo, ma artificiosamente preordinato a perpetrare l'inganno e a non consentire alla persona offesa di autodeterminarsi liberamente.

A prescindere dall’interpretazione estensiva o restrittiva di tali concetti, però, ciò che determina, sempre e comunque, la rilevanza degli artifici e raggiri ai fini della configurabilità del reato di truffa è indiscutibillmente il loro effetto: l’induzione in errore della vittima.

Proprio tale ultimo requisito della truffa la distingue dalla differente fattispecie di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316 ter c.p. che, alla luce dello sviluppo fattuale della condotta contestata a Tizio, potrebbe configurarsi nel caso di specie.

Ai sensi di tale articolo, infatti, viene punito “chiunque mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l'omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee”.

Attesa la possibile sussumibilità del comportamento di Tizio anche sotto tale fattispecie, occorre interrogarsi sugli elementi distintivi tra la fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p. e quelle di truffa di cui agli artt. 640 e 640 bis c.p..

In proposito, proprio con riferimento agli episodi di falsa rappresentazione dei requisiti necessari ad ottenere l’esenzione del ticket per prestazioni sanitarie, si è sviluppato un annoso contrasto giurisprudenziale, da qualche anno oramai attestatosi nel ritenere che “la linea di discrimine tra il reato di indebita percezione di pubbliche erogazioni e quello di truffa aggravata finalizzata al conseguimento delle stesse va ravvisata nella mancata inclusione tra gli elementi costitutivi del primo reato della induzione in errore del soggetto passivo. Pertanto qualora l’erogazione

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consegua alla mera presentazione di una dichiarazione mendace senza costituire l’effetto della induzione in errore dell’ente erogante circa i presupposti che la legittimano, ricorre la fattispecie prevista dall’art. 316 ter c.p. e non quella dell’art. 640 bis c.p..” (Cassazione, sez. VI, 24 luglio 2007, n. 30155).

Nell’indagine suggerita dalle illustrate direttive ermenutiche, è doveroso constatare come il procedimento di esenzione del ticket non presupponeva, nel caso in esame, l’effettivo accertamento da parte dell’ente pubblico dei relativi presupposti: il riconoscimento dell’esenzione in favore di Tizio si è fondato, almeno in via provvisoria, sulla mera dichiarazione del soggetto interessato, riservando eventualmente a una fase successiva le opportune verifiche.

Risulta conseguentemente evidente che in questo caso l’erogazione non dipendeva da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’erogatore, che in realtà si rappresentava correttamente solo l’esistenza della formale dichiarazione del richiedente, ma l’erogazione del contributo avveniva automaticamente, senza alcuna preventiva verifica (e salva la possibilità di un controllo successivo) sulla veridicità di quanto dichiarato dall’istante.

Alla luce di tali considerazioni non si può non rilevare come la condotta di Tizio sia stata erroneamente ricondotta dal G.I.P. nel reato di cui all’art. 640, comma 2, c.p., dovendo al contrario essere inquadrata nella meno grave fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., essendo totalmente assente l’elemento dell’induzione in errore del soggetto passivo, richiesto per la truffa.

Attesa, dunque, la riqualificazione della condotta di Tizio ai sensi dell’art. 316 ter c.p., si deve altresì constatare che nel caso in analisi dovrà applicarsi il secondo comma della norma “de qua”, dal momento che il beneficio economico conseguito da Tizio è inferiore alla soglia di punibilità previsto dalla norma (Euro 3.999,96), essendo pari a 1.500,00 Euro: nei suoi confronti troverà applicazione la solo sanzione amministrativa.

A prescindere, poi, dalla possibile configurabilità della fattispecie di falso di cui all’art. 485 c.p.

anziche di quella di cui all’483 c.p., tale ultimo reato si deve comunque ritenere assorbito nel reato di cui all’art. 316 ter c.p., considerato che, come affermato costantemente dalla giurisprudenza di legittimità, “il reato di cui all'art. 316 ter c.p. assorbe quello di falso previsto dall'art. 483 dello stesso codice in tutti i casi in cui l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscono elementi essenziali per la sua configurazione. La fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di altri enti pubblici, infatti, si configura come fattispecie complessa, ex art. 84 c.p., che contiene tutti gli elementi costitutivi del reato di falso ideologico.

Né può attribuirsi rilevo alla diversità del bene giuridico tutelato dalle due norme, considerato che in ogni reato complesso si ha, per definizione, pluralità di beni giuridici protetti, a prescindere dalla collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice. L'assorbimento del falso ideologico nel delitto di cui all'art. 316 ter c.p. si realizza anche quando la somma indebitamente percepita o non pagata dal privato, non superando la soglia minima dell'erogazione (Euro 3.999,96), integri la mera violazione amministrativa di cui al comma 2 dello stesso art. 316 ter. Rientra, infatti, nelle

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valutazioni discrezionali del legislatore la scelta della natura e qualità delle risposte sanzionatorie a condotte antigiuridiche, e quindi l'assoggettabilità dell'autore, in una determinata fattispecie, a sanzioni amministrative, pure se frammenti di queste condotte, ove non sussistesse la fattispecie complessa, sarebbero sanzionabili con autonomo titolo di reato (alla luce di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto che la falsa attestazione del privato di trovarsi nelle condizioni di reddito per fruire, a termini di legge, delle prestazioni del servizio sanitario pubblico senza il versamento del ticket integri il reato previsto e punito dall'art. 316 ter)” (Cassazione penale, sez. un., 16/12/2010, n. 7537).

La complessiva riqualificazione dei fatti contestati ai sensi dell’art. 316 ter , comma 2, c.p. e la conseguente applicazione della sola sanzione pecuniaria fa venire meno, oltre ai gravi indizi di colpevolezza in relazione ai reati contestati, anche i presupposti di applicazione degli arresti domiciliari previsti dall’art. 280 c.p.p., secondo cui “le misure previste in questo capo possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni”.

In virtù di quanto detto, si suggerisce a Tizio di proporre richiesta di riesame avverso l’ordinanza di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari, potendosi sostenere la errata qualificazione giuridica del fatto contestato e, di conseguenza, l’insussistenza delle condizioni di applicabilità della misura.

95 TRACCIA PARERE N. 22

Mevio, “consigliere politico” del Ministro dell’Interno, in occasione di una visita a Roma nel marzo 2018, incontrava Tizio, presidente della Cooperativa Alfa, impegnata nella gestione di alcuni Centri di accoglienza. Durante il suddetto incontro, su esplicita richiesta di Tizio, Mevio lasciava intendere che avrebbe potuto sollecitare il suo amico Ministro sullo stanziamento di finanziamenti statali per l’ampliamento dei suddetti Centri di Accoglienza e che tutta l’operazione avrebbe avuto il “costo” di 70.000,00 euro. Effettivamente, dopo pochi mesi dal pagamento della suddetta somma in contanti presso un Hotel di Roma, pur senza coinvolgere minimamente il Ministro, ma attraverso i contatti avuti con alcuni funzionari del Ministero, Mevio riusciva a far stanziare 5.000.000 di euro per ampliare le strutture di accoglienza sul territorio romano.

A seguito di un’approfondita indagine della Procura di Roma, nel maggio 2018 Mevio veniva imputato e rinviato a giudizio per i reati di cui agli artt. 319 c.p. e 346 c.p.

Con sentenza del 18 settembre 2019, il Tribunale di Roma lo condannava per entrambe le fattispecie di reato contestategli.

Assunte le vesti del legale di Mevio, il candidato rediga parere motivato sulla vicenda, suggerendo la possibile linea difensiva per il cliente.

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SOLUZIONE TRACCIA N. 22: RAPPORTI TRA IL REATO DI TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE E L’ABROGATA FATTISPECIE DI MILLANTATO CREDITO.

Viene richiesto parere motivato sulla vicenda di seguito descritta.

Mevio, “consigliere politico” del Ministro dell’Interno, durante un incontro con Tizio, faceva sorgere il dubbio a quest’ultimo di poter influire positivamente sulle decisioni del Ministro circa lo stanziamento di finanziamenti statali per ampliare i Centri di Accoglienza sul territorio romano.

Mevio chiariva a Tizio che, a tal fine, avrebbe dovuto pagare una somma di 70.000 €.

Dopo aver ricevuto la somma pattuita, Mevio riusciva a far stanziare 5.000.000 € per ampliare le strutture di accoglienza: finanziamenti che lo stesso arrivava ad ottenere solo ed esclusivamente in virtù dei propri contatti con taluni funzionari del Ministero, senza alcun genere di coinvolgimento nella suddetta attività da parte del Ministro.

A fronte di tali fatti, verificatisi nel 2018, Mevio veniva condannato dal Tribunale di Roma in data 18 settembre 2019, essendo riconosciuto penalmente responsabile per i reati di “corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio”, di cui all’art. 319 c.p, e di “Millantato credito”, di cui all’art.

346 c.p..

Per stabilire la correttezza della pronuncia di condanna le questioni giuridiche da affrontare attengono, in primis, alla riconducibilità o meno della qualifica rivestita da Mevio nel novero della nozione di pubblico ufficiale ai fini della configurabilità del delitto di corruzione, ed in secundis alla sussumibilità della sua condotta sotto la fattispecie di cui all’art. 346 bis c.p. in considerazione dell’abrogazione dell’art. 346 c.p. ad opera della L. 09.01.2019, n. 3.

Quanto alla qualificazione della sua condotta ai sensi dell’art. 319 c.p., si deve ricordare come tale fattispecie punisca con la pena della reclusione da sei a dieci anni “il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per se o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa”.

Com’è facilmente intuibile dalla lettura della norma, il reato de quo appartiene alla categoria dei cd. reati propri, atteso che soggetto attivo del reato non può essere il quisque de populo, bensì unicamente il pubblico ufficiale.

Questione del tutto preliminare, ai fini della nostra analisi, è valutare la riconducibilità della qualifica rivestita da Mevio (“consigliere politico” del Ministro) nel novero della nozione di

“pubblico ufficiale”, con lo specifico riferimento all’art. 357 c.p., ai sensi del quale “agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali, coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa”.

Recente giurisprudenza, interrogatasi sul punto, ha ritenuto che non possa riconoscersi la qualifica di pubblico ufficiale a colui il quale sia stato designato dal Ministro “consigliere personale su temi inerenti la politica”, soltanto in ragione del rapporto di fiducia intercorrente tra gli stessi. Più

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specificatamente, con la sentenza n. 51688 del 2014, la Suprema Corte ha chiarito che “il consigliere politico non ricopre un incarico istituzionalizzato e la somministrazione fiduciaria di consigli politici non è riconducibile all’esercizio di alcuna delle funzioni tipizzate dall’art. 357, primo comma, c.p.”

Motivo per cui, dunque, non si può attribuire la veste di pubblico ufficiale a Mevio e, conseguentemente, non può ritenersi integrato il reato di cui all’art. 319 c.p.

Ma anche laddove si volesse dar seguito alla differente interpretazione che rinviene nel

“consigliere politico” un pubblico ufficiale, non potrebbe, comunque, ritenersi configurato il reato di corruzione ex art. 319 c.p. in virtù della considerazione che siffatta fattispecie di reato appartiene alla categoria dei reati cd. “propri funzionali”. Trattasi di quei reati che si caratterizzano per il fatto che il soggetto agente non solo deve ricoprire la qualifica di pubblico ufficiale ma, altresì, deve sfruttare o comunque strumentalizzare funzioni o poteri connessi all’esercizio cui appartiene per ricevere denaro o altra utilità non dovuti. In altre parole, è necessario che l’intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell’accordo illecito sia espressione della pubblica funzione dallo stesso esercitata.

Cosicchè, in conformità a quanto chiarito dalla giurisprudenza maggioritaria, non può ritenersi configurato il delitto di corruzione ex art. 319 c.p. allorquando l’intervento del pubblico ufficiale

“non comporti l’attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia in qualche modo a questi ricollegabile, e invece sia destinato ad incidere nella sfera di attribuzione di pubblici ufficiali terzi rispetto ai quali il soggetto agente è assolutamente carente di potere istituzionale”:

in tal senso si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza del 04 maggio 2006, n. 33435.

Se ben si analizza il caso sottoposto alla nostra attenzione, risulta evidente come, effettivamente, Mevio sia riuscito a dar attuazione al proprio accordo illecito con Tizio attraverso l’influenza che lo stesso ha esercitato su taluni funzionari del Ministero, i quali sono soggetti terzi non facenti parte dell’ufficio cui Mevio appartiene; né risulta che, nonostante l’iniziale promessa, Mevio abbia mai sollecitato il Ministro dell’Interno circa l’erogazione della ingente somma di denaro, dovendosi escludere, al contrario, un eventuale coinvolgimento dello stesso nella vicenda illecita.

Alla luce di quanto esposto sinora, deve dunque concludersi per l’insussistenza di tutti quegli elementi necessari ai fini della possibile configurazione del delitto di corruzione.

Resta, adesso, da comprendere se il comportamento tenuto nell’occasione da Mevio possa essere sussunto sotto l’ulteriore fattispecie contestata di cui all’art. 346 c.p..

Si accennava, nella ricostruzione dei fatti, alla somma di 70.000 euro, versata da Tizio in favore di Mevio, quale compenso per la attività di sollecito svolta nei confronti del proprio amico Ministro. Evidente peraltro che, facendo apparire il Ministro dell’Interno quale “suo amico”, Mevio generava in Tizio il dubbio di poter influire positivamente sulle decisioni del Ministro stesso.

La condotta di Mevio, così descritta, sembrerebbe potersi inquadrare nella specifica fattispecie del

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“millantato credito” ex art. 346 c.p., atteso che la condotta penalmente rilevante consiste, appunto, nel millantare credito, ossia nell’ostentare la possibilità di influire sul pubblico ufficiale per farsi dare da un privato denaro o qualsivoglia altro genere di utilità come prezzo della mediazione verso il pubblico ufficiale stesso.

Nonostante l’astratta configurabilità nella specie del reato di “millantato credito”, non può farsi a meno di rilevare che l’art. 346 c.p. al momento della sentenza era stato già abrogato dalla L. n. 3 del 2019, la quale aveva allo stesso tempo modificato, riformulandolo, anche il successivo art. 346 bis c.p..

Occorre dunque definire il rapporto tra le due fattispecie al fine di valutarne la continuità normativa o meno, e stabilire se Mevio debba essere assolto dall’art. 346 oppure se possa semplicemente chiedere la riqualificazione della sua condotta ai sensi dell’art. 346 bis, con conseguente rideterminazione della pena.

Nella Relazione introduttiva al Disegno di legge poi diventato L. n. 3 del 2019, si evidenzia come uno degli scopi principali dell'intervento legislativo sia quello di adeguare la normativa interna agli obblighi convenzionali imposti al nostro Paese dalla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d'Europa, firmata a Strasburgo il 27 gennaio 1999 e, in particolare, all'Addenda al Second Compliance Report sull'Italia approvato il 18 giugno 2018.

Recependo tali indicazioni, il legislatore ha dunque riscritto la formulazione del delitto di traffico di influenze illecite previsto dall'art. 346-bis c.p. e vi ha inglobato la condotta già sanzionata sotto forma di millantato credito nella disposizione precedente.

In particolare, la "nuova" ipotesi di traffico di influenze illecite punisce anche la condotta del soggetto che si sia fatto dare o promettere da un privato vantaggi personali - di natura economica o meno -, rappresentandogli la possibilità di intercedere a suo vantaggio presso un pubblico funzionario, a prescindere dall'esistenza o meno di una relazione con quest'ultimo. Ciò a condizione - fatta oggetto di un'espressa clausola di riserva ("fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'art. 322-bis") - che l'agente non eserciti effettivamente un'influenza sul pubblico ufficiale o sul soggetto equiparato e non vi sia mercimonio della pubblica funzione, dandosi, altrimenti, luogo a taluna delle ipotesi di corruzione previste da detti articoli.

La norma equipara, dunque, sul piano penale la mera vanteria di una relazione o di credito con un pubblico funzionario soltanto asserita ed in effetti insussistente (dunque la relazione solo millantata) alla rappresentazione di una relazione realmente esistente con il pubblico ufficiale da piegare a vantaggio del privato. Risultano dunque superate le difficoltà, spesso riscontrate nella prassi giudiziaria, nel tracciare in concreto il discrimen fra il delitto di millantato credito previsto dall'art. 346 c.p. e quello di traffico di influenze, di cui all'art. 346-bis c.p., scaturenti dalla

La norma equipara, dunque, sul piano penale la mera vanteria di una relazione o di credito con un pubblico funzionario soltanto asserita ed in effetti insussistente (dunque la relazione solo millantata) alla rappresentazione di una relazione realmente esistente con il pubblico ufficiale da piegare a vantaggio del privato. Risultano dunque superate le difficoltà, spesso riscontrate nella prassi giudiziaria, nel tracciare in concreto il discrimen fra il delitto di millantato credito previsto dall'art. 346 c.p. e quello di traffico di influenze, di cui all'art. 346-bis c.p., scaturenti dalla

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