La questione sottoposta all’attenzione ha ad oggetto il reato di lesioni personali previsto dall’art.
582 c.p., con tutte le problematiche connesse all’elemento soggettivo che deve sottendere l’azione del reo.
In particolare, Caio, operaio metalmeccanico con un bassissimo livello di istruzione, scopriva di aver contratto il virus dell’HIV. Dopo un lungo ricovero in ospedale, gli veniva prescritta una cura che attenuasse gli sviluppi cronici della malattia e gli venivano fornite tutte le informazioni relative alle modalità di trasmissione del virus.
Successivamente, la circostanza per cui la moglie Mevia non aveva contratto il virus, pur avendo con il marito rapporti non protetti, unitariamente alla sottoposizione al trattamento farmacologico, che aveva migliorato il suo stato di salute, facevano maturare in Caio la convinzione di non correre più alcun rischio di trasmettere la malattia.
In virtù di questa convinzione, quando, qualche anno dopo, conosceva Tizia, non la informava nè del proprio stato di salute nè del rischio di trasmetterle la malattia attraverso rapporti sessuali non protetti, che intratteneva abitualmente anche con lei.
Tizia, tuttavia, scopriva di aver contratto il virus dell’HIV, trasmessole proprio da Caio; in seguito a tale scoperta, ella decideva di rivolgersi alle autorità competenti.
Risulta pertanto necessario valutare le conseguenze penali della condotta tenuta da Caio, facendo particolare attenzione all’elemento soggettivo del reato. A tal fine, occorre procedere ad un preliminare inquadramento normativo degli istituti di riferimento, iniziando dalla disciplina del reato di lesioni personali.
Il delitto di lesioni personali è previsto dall’art. 582 c.p. ed è collocato tra i delitti contro la persona.
La condotta tipica consiste in qualsiasi azione od omissione che comporti l’insorgere di una malattia nel corpo o nella mente. Per giurisprudenza consolidata, per malattia si intende qualsiasi alterazione dell’organismo, ancorchè localizzata o circoscritta, da cui derivi eziologicamente un processo patologico ovvero un’apprezzabile compromissione delle funzioni fisiche o mentali. Da ciò discende che il bene giuridico protetto dal reato è l’incolumità psicofisica individuale.
A seconda della gravità della patologia cagionata, il Legislatore ha poi previsto degli aggravamenti di pena: ai sensi dell’art. 583 c.p. la pena è infatti aumentata se la lesione è grave o gravissima. Per quel che rileva in questa sede, la lesione è ritenuta gravissima se dal fatto deriva una malattia certamente o probabilmente insanabile (art. 583 comma 2 n. 1 c.p.).
Stante la rilevanza del bene giuridico protetto, il Legislatore ha previsto la punibilità delle lesioni anche a titolo di colpa. L’art. 590 c.p. punisce infatti la medesima condotta anche quando l’evento lesivo non è volontariamente causato dall’agente, ma è conseguenza di negligenza, imperizia, imprudenza ovvero di inosservanza di legge, regolamenti, ordini e discipline.
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Tanto premesso, è opportuno analizzare l’elemento soggettivo del reato, con particolare riguardo al dolo eventuale e alla colpa cosciente.
L’art. 42, secondo comma, c.p. stabilisce il principio per cui, ai fini della punibilità, è necessario che il fatto compiuto sia, oltre che tipico e antigiuridico, anche colpevole, ossia riconducibile psicologicamente all’agente, La norma è espressione del fondamentale principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 della Costituzione, il quale impone di attribuire rilevanza solo ai fatti compiuti personalmente dall’individuo con dolo, ovvero, ove previsto, con colpa.
La regola base è che i delitti sono sempre punibili a titolo di dolo, salvo i casi, espressi, in cui la legge ne consente la punibilità anche a titolo di colpa o di preterintenzione.
L’art. 43 c.p., occupandosi più da vicino dei singoli criteri di imputazione soggettiva del reato, fornisce una precisa definizione sia di dolo che di colpa.
Il delitto è doloso quando avviene “secondo l’intenzione”, ossia quando l’evento dannoso è previsto e voluto dall’agente come conseguenza della propria condotta. Il dolo consta dunque di due elementi indefettibili: la rappresentazione e la volontà di realizzare il fatto tipico.
A seconda della maggiore o minore intensità di questi elementi, la giurisprudenza ha ricostruito varie forme di dolo. In tal senso si distingue: il dolo intenzionale, qualora il soggetto abbia di mira proprio la realizzazione della condotta criminosa ovvero la causazione dell’evento; il dolo diretto, configurabile allorquando la realizzazione del reato non è l’obiettivo che dà causa alla condotta ma rappresenta solamente un mezzo necessario affinché l’agente raggiunga lo scopo perseguito;
ed infine il dolo c.d. eventuale.
Quest’ultima forma di dolo è caratterizzata da un depotenziamento dell’elemento volitivo, in quanto il soggetto, pur agendo per scopi estranei al reato, si rappresenta l’evento delittuoso come possibile conseguenza “collaterale” della condotta, ed agisce accettando tale eventualità.
Il delitto colposo, di contro, è connotato da una assoluta involontarietà dell’evento lesivo, il quale si verifica come conseguenza di una condotta contraria a regole cautelari generiche o specifiche.
Per quel che rileva, l’art. 43 c.p. prevede espressamente la possibilità che vi sia una previsione dell’evento anche nel delitto colposo: si tratta della cd. colpa con previsione o cosciente.
Quanto esposto evidenzia chiaramente come vi sia un piano di sovrapposizione tra dolo eventuale e colpa cosciente sotto il profilo rappresentativo, ferma restando l’assoluta divergenza sotto il profilo volontaristico, sempre assente nella colpa.
Ricostruito il quadro normativo di riferimento, occorre ora chiedersi alla luce di quali criteri sia possibile tracciare la linea di demarcazione tra le due figure soggettive in esame.
Al riguardo è possibile osservare come la volontà rappresenti l’unico elemento di distinzione.
Tuttavia, posto che nel dolo eventuale l’agente non ha di mira l’evento del reato, bensì uno scopo diverso, si pone il problema di appurare in che modo la voluntas si declina in tale ipotesi.
Sul punto, la giurisprudenza ha affermato che “sussiste il dolo eventuale e non la colpa cosciente, quando l’agente si sia rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento e si
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sia determinato ad agire comunque, anche a costo di cagionarlo come sviluppo collaterale o accidentale, ma comunque preventivamente accettato, della propria azione, in modo tale che, sul piano del giudizio controfattuale possa concludersi che egli non si sarebbe trattenuto dal porre in essere la condotta illecita, neppure se avesse avuto la contezza della sicura verificazione dell’evento medesimo” (Cass. Pen., 11 febbraio 2015, n. 8561).
Di contro, si configurerebbe la colpa cosciente quando il soggetto si rappresenta solo in astratto la possibilità di cagionare l’evento, ma agisce facendo affidamento sul fatto che, in concreto, lo stesso non si verificherà, perchè, ad esempio, sottovaluta le circostanze del caso. In tale ipotesi egli non aderisce psicologicamente all’evento.
E’ questa la teoria della c.d. accettazione del rischio, già rivisitata dalla Suprema Corte nel 2014 nella sentenza sul caso Thyssenkrupp (Cass. Pen. 38343/2014). In tale circostanza, le Sezioni Unite hanno posto l’accento sul profilo volontaristico, stabilendo che in tanto può parlarsi di effettiva accettazione del rischio, in quanto l’agente abbia proceduto ad un reale bilanciamento di tutti gli interessi in gioco, in seguito al quale abbia poi consapevolmente deciso di sacrificare il bene giuridico offeso dal reato. Ciò sta a significare, in sostanza, che il soggetto deve aver fatto seriamente i conti con la possibilità di provocare il reato e si sia comunque determinato ad agire, valutando i pro e i contro.
Ricorre invece la colpa cosciente quando l’agente pur avendo presente la connessione causale tra la violazione della regola cautelare e l’evento illecito, si è astenuto dall’agire doveroso per trascuratezza, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo (Cass. Pen., 9 gennaio 2015, n. 19547).
Ai fini dell’accertamento probatorio del dolo, la Suprema Corte ha da ultimo affermato che “la configurabilità del dolo eventuale in luogo della colpa cosciente richiede un puntuale confronto con gli indici rivelatori desumibili dal fatto e dalla vicenda nella quale si inserisce” (Cass. Pen.
23 febbraio 2015, n. 23992).
Orbene, dall’esame del caso di specie può dunque escludersi la sussistenza di un dolo di tipo intenzionale o diretto: è palese infatti che Caio abbia agito senza avere avuto di mira la trasmissione della propria patologia.
D’altro canto, tuttavia, dai fatti emerge come Caio abbia agito con previsione dell’evento illecito, posto che egli era ben consapevole della modalità di trasmissione del virus HIV tramite rapporti sessuali non protetti.
Dunque, al fine di accertare se egli abbia agito con dolo eventuale ovvero con colpa cosciente è necessario valorizzare, come richiesto dalla più recente giurisprudenza, le circostanze di fatto che possono fungere da “indicatori” del dolo (ad esempio: la personalità e le pregresse esperienze dell’agente, il fine della condotta e la sua compatibilità con le conseguenze collaterali, le eventuali conseguenze negative per l’autore nel caso di verificazione dell’evento, ecc.).
In tal prospettiva assumono certamente rilievo la personalità e le pregresse esperienze dell’uomo:
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va tenuto in conto, infatti, che Caio ha un basso livello di scolarizzazione e che per anni aveva intrattenuto rapporti sessuali con la moglie senza, tuttavia, contagiarla. Queste due circostanze avevano ingenerato in lui il convincimento, per quanto irragionevole, di non poter contagiare, in concreto, le compagne. Ciò induce a pensare che Caio non ha realmente considerato l’eventualità di contagiare Tizia e che tale evento, seppur previsto in astratto sia quindi avvenuto per grave trascuratezza ed imprudenza.
Tale conclusione sembrerebbe poi avvalorata dall’ulteriore circostanza per cui l’evento del contagio sarebbe stato certamente negativo per Caio, e da lui non voluto, se avesse avuto la certezza della usa realizzazione, per l’ovvia ragione che egli non poteva volere il male della donna di cui era innamorato.
Alla luce di quanto sopra esposto, rilevata l’assenza di intenzionalità nella condotta realizzata da Caio, ma la possibile previsione dell’evento illecito, derivante dalla consapevolezza della malattia e delle sue modalità di trasmissione, deve concludersi, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali consolidati, che Caio potrebbe essere chiamato a rispondere per il reato di lesioni personali colpose, ai sensi dell’art. 590 c.p., aggravate dalla previsione dell’evento ex art. 61, comma 1, n. 3 c.p..
47 TRACCIA PARERE N. 11
Tizio, per regolare una questione personale con il vecchio socio in affari Mevio, decideva di gambizzarlo dinanzi all’uscita di un locale della zona. Appostatosi in un luogo buio, quando vide uscire la sagoma di Mevio sparò nei suoi confronti due colpi di pistola uno dei quali raggiungeva effettivamente al polpaccio il bersaglio, mentre l'altro lo mancava e colpiva al collo il passante Sempronio, ferendolo senza provocarne la morte.
Tizio al momento di fuggire vide che in realtà Mevio stava uscendo in quel momento dal locale e che il soggetto colpito per primo era una persona differente, simile a Mevio solo per corporatura fisica.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, prestando particolare attenzione all’elemento soggettivo dei reati, analizzi le fattispecie configurabili e le possibili difese in giudizio.
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