Per affrontare le possibili conseguenze della condotta ascrivibile a Tizio, è necessario analizzare le fattispecie del reato di peculato (art.314 c.p.), di abuso d’ufficio (art.323 c.p.) e in ultimo di corruzione (art.319 c.p.).
In particolare, Tizio, agente di Polizia Municipale, al di fuori dei turni di servizio ha ripetutamente consegnato a privati appartenenti a ditte di rimorchio gli apparecchi radio destinati alle comunicazioni di servizio affinchè, ascoltandole, questi potessero intervenire tempestivamente sul posto aggiudicandosi il servizio di trasporto. In cambio Tizio, insieme al collega Caio, percepivano un introito settimanale.
La condotta di Tizio, prima facie, si presta ad essere riconducibile a più ipotesi di reato.
Innanzitutto, sembra venire in rilievo il delitto di peculato, ai sensi dell’art. 314 c.p., il quale, per la parte qui di interesse, punisce il pubblico ufficiale che, avendo per ragioni del proprio ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria.
Tizio è infatti un pubblico ufficiale che, trovandosi nella disponibilità materiale dell’apparecchio radio per le comunicazioni di servizio, ha tenuto rispetto a tale bene una condotta del tutto incompatibile con il titolo per il quale lo possiede, cedendolo a terzi per fini esclusivamente privatistici.
Secondo parte della giurisprudenza, non assumendo alcun rilievo la breve durata della sottrazione e l’intenzione di restituire il bene de quo, tale condotta di sottrazione sarebbe sufficiente ad integrare l’elemento dell’appropriazione. E’ sufficiente, infatti, che l’agente si rapporti al bene “uti dominus”, disponendone come fosse cosa propria (cfr. Cass.n.11425/2012).
Tuttavia, deve darsi atto di un diverso orientamento, il quale non ricollega tout court alla disposizione di un bene “non secundum lege” la fattispecie del peculato, bensì configura il meno grave reato dell’abuso di ufficio, ex art. 323 c.p. quando la condotta non comporti la perdita del bene e la conseguente lesione patrimoniale a danno dell’avente diritto (cfr. Cass.n.18160/2010).
Malgrado una recente sentenza si sia espressa a favore del primo e più rigido orientamento, ravvisando una condotta appropriativa anche nel comportamento del pubblico ufficiale che ceda la cosa provvisoriamente a terzi estranei alla pubblica amministrazione per un uso al di fuori del controllo della pubblica amministrazione (Cfr. Cass.n.16381/2013), sembrano sussistere buoni argomenti per tentare un rovesciamento dell’approdo giurisprudenziale affermatosi.
Entrambe le fattispecie, peculato e abuso d’ufficio, tutelano l’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione insieme all’integralità patrimoniale dell’ente pubblico. Tuttavia, mentre nel peculato la violazione del dovere d’ufficio risiede nella modalità della condotta, ovvero l’appropriazione della cosa di cui il pubblico ufficiale ha il possesso per i fini del suo ufficio, nell’abuso d’ufficio la condotta si identifica con l’abuso funzionale, cioè con l’uso dei mezzi
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inerenti ad una funzione pubblica per finalità diverse da quelle pubbliche (Cfr. Cass.n.
34157/2008).
Nel caso di specie, Tizio e Caio, cedendo momentaneamente l’apparecchio radio ai privati al di fuori dei turni di servizio, non si sono appropriati di un bene violando le regole del loro ufficio, in quanto al momento dell’appropriazione questi non si trovavano ad esercitare pubbliche funzioni.
Piuttosto, gli agenti hanno distratto dal fine pubblico e per proprio profitto il bene di cui disponevano. In merito è stato ritenuto che integrasse la figura dell’abuso d’ufficio, e non quella di peculato, “l’appropriazione a proprio profitto e per finalità diverse da quelle d’ufficio di un bene di esiguo valore economico rientrante nella sfera pubblica” (Cfr. Cass. n.1905/2002).
Dunque, dopo la soppressione della fattispecie del peculato per distrazione, tutte le corrispondenti ipotesi sono assorbite nel reato di abuso d’ufficio (Cfr. Cass.n.23066/2009).
Sebbene l’art 323 c.p. si apra con una clausola di sussidiarietà a favore di altro eventuale reato più grave, sembra possibile escludere anche il delitto di corruzione propria ex art. 319 c.p..
La norma, infatti, richiede che il pubblico ufficiale per omettere ovvero per compiere o ritardare un atto contrario ai doveri d’ufficio riceva per sé o per un terzo denaro o altra utilità.
Nel caso di specie, pur sussistendo un mercimonio, esso ha ad oggetto l’uso di un bene pubblico, non “un atto d’ufficio”, il quale pur comprendendo una vasta gamma di comportamenti umani, deve rientrare tra quelli effettivamente o quanto meno potenzialmente riconducibili all’incarico di pubblico ufficiale (Cfr. Cass.n.38698/2007).
Pertanto, tenendo conto di tutte le ipotesi e soluzioni prospettate dalla giurisprudenza, si conclude nel senso che la condotta di Tizio potrebbe astrattamente ricondursi al concorso con Caio nel delitto di peculato ovvero a quello meno grave di abuso d’ufficio.
Attesa la “ripetizione” della condotta tenuta dai concorrenti, con ogni probabilità verrà ravvisata la continuazione nel reato ai sensi dell’art. 81 c.p. con applicazione della pena prevista per il reato ascritto aumentata fino al triplo.
In ultimo, si prospetta la possibilità di far valere l’attenuante comune di cui all’art. 62, n.4, c.p., dal momento che la “distrazione” del bene pubblico dalle finalità dell’ufficio è avvenuta al di fuori dell’orario di servizio, dunque in ossequio al principio di offensività di cui all’art. 27 Cost., può ritenersi che non vi sia stato un rilevante danno al buon andamento della pubblica amministrazione, né tanto meno un danno patrimoniale.
59 TRACCIA PARERE N. 14
Tizio, esperto autotrasportatore, di ritorno da un lungo viaggio si fermava a cenare a Salerno in attesa dell’orario di apertura della strada per Minori, suo paese di residenza sulla costiera amalfitana. Al termine della cena, durante la quale aveva bevuto più del consentito, decideva di anticipare la partenza (ore 22:30), nonostante fosse conscio che, per impedire intasamenti sulla stretta strada della costiera, vigeva il divieto di circolazione per gli autoarticolati fino alle ore 24:00. Durante il tragitto, l’autoarticolato urtava il manubrio di un motociclo che viaggiava in senso opposto, determinandone la caduta. Uno dei due passeggeri del ciclomotore, Caio, trovava la morte a seguito del rovinoso impatto.
Sottoposto immediatamente all’alcool test, Tizio risultava aver superato i limiti di legge per l’assunzione di alcool. Dagli accertamenti svolti dalla Polizia stradale sul luogo dell’incidente, però, emergeva in maniera incontrovertibile che al momento dello scontro Tizio procedeva in maniera corretta nella sua corsia di marcia e rispettava i limiti di velocità vigenti sulla strada.
Al termine del processo penale a suo carico, Tizio veniva condannato dal Tribunale penale di Salerno alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’art. 589 c.p. commi 1 e 2, mentre il reato di guida in stato di ebbrezza veniva dichiarato estinto per prescrizione. Dopo la pronuncia del Tribunale, Tizio si rivolge al vostro studio legale.
Premessi brevi cenni sulla nozione di rischio nei reati colposi, il candidato rediga un parere legale sull’opportunità da parte di Tizio di proporre appello avverso la suddetta sentenza.
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