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Nomina nuda tenemos

Nel documento Raccontare la storia al tempo delle crisi (pagine 67-77)

2. La logica culturale del tardo capitalismo

3.3 Nomina nuda tenemos

Enrico Deaglio identifica il 1978 come l'anno di svolta a partire dalla quale si apre una nuova fase della storia italiana. In particolare si riferisce ai giorni del sequestro di Aldo Moro, scrivendo che «alcuni sostengono che l'Italia, intesa come Stato con tutto quello

119Carvalhão Buescu, Experiência do incomum e boa vizinhança. Literatura Comparada e Literatura- Mundo, Porto Editora, Porto, 2013, p. 55.

che ne consegue, abbia cessato di esistere durante 33 giorni del sequestro di Aldo Moro»120. Si tratta quindi di un evento investito di valore simbolico, una cesura che marca la fine di una stagione di tensioni rivoluzionarie e che cambia volto al Paese. Gli anni Ottanta coincidono così con una diminuzione della tensione sociale, durante i quali la rilettura del decennio appena trascorso è minima, se non addirittura in esistente. Rimane il fatto, simbolico anch'esso, che dei tre contesti analizzati l'Italia è l'unico caso in cui, alla fine di un periodo di violenze e tensione rivoluzionaria, non viene promulgata alcuna legge di amnistia. Prendendo in prestito l'immagine da un libro di Nanni Balestrini, è possibile dire che il dibattito sull'epoca di tensione appena conclusa non viene dimenticato, bensì diventa invisibile.

Come nel caso spagnolo questo contesto è assolutamente leggibile (seppur in controluce) nel dibattito sul postmoderno. Monica Jansen restituisce la complessità di un dibattito, iniziato alla metà degli anni Ottanta, attraverso i fitti riferimenti alle riviste specializzate. Una delle prerogative del contesto italiano è che esso si articola attraverso gli interventi di figure che sono riprese anche nel dibattito internazionale: oltre al già citato Remo Ceserani è il caso di Gianni Vattimo e Umberto Eco.

Secondo Alberto Casadei, proprio Umberto Eco rappresenta, insieme a Pier Vittorio Tondelli, il superamento di una stagione letteraria che si realizza nel rifiuto dei modelli dell'avanguardia e entra pienamente nel contesto della produzione culturale di massa121. Laddove Tondelli prende come riferimento la società in cui vive, Eco utilizza la sua conoscenza enciclopedica per riarticolare in chiave parodistica la forma del romanzo storico, in un meccanismo di double-coding che consente diversi livelli di lettura a seconda del lettore. Umberto Eco scrive così quello che Ceserani definisce la «prima, consapevole produzione di un romanzo postmoderno»122, Il nome della rosa, un'opera tutt'altro che immune rispetto ai processi di chiusura e di rimozione della storia fin qui analizzati nel contesto italiano: nella prima edizione la quarta di copertina reca una dicitura che divide in tre categorie i possibili lettori del romanzo:

la prima tipologia di lettori sarà avvinta dalla trama e dai colpi di scena e accetterà anche le lunghe discussioni libresche, i dialoghi filosofici, perché avvertirà che proprio in quelle

120Enrico Deaglio, Patria 1978-2008, Il Saggiatore, Milano, 2009, p. 19.

121Alberto Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna, 2007. 122Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, p. 181.

pagine svagate si annidano i segni, le tracce, i sintomi rivelatori. La seconda categoria si appassionerà al dibattito di idee e tenterà connessioni (che l’autore si rifiuta di autorizzare) con la nostra attualità. La terza si renderà conto che questo è un tessuto di altri testi, un ‘giallo’ di citazioni, un libro fatto di altri libri. [corsivo mio]

Il riferimento alla seconda categoria di lettori sembra in realtà uno dei paradossi di Umberto Eco, che ha sempre sottolineato la libera interpretazione dei testi letterari (anche all'interno di I limiti dell'interpretazione, 1990) e che si dimostra comunque consapevole che il proprio romanzo possa essere interpretato alla luce di un riferimento alle vicende degli anni Settanta. Lo stesso autore ammette peraltro di aver iniziato a scrivere il romanzo in risposta allo shock causatogli dal rapimento di Moro. Nonostante i ripetuti parallelismi123 con quanto avvenuto nel decennio appena concluso, la decisione di “non autorizzare” un'interpretazione che sottolinei questo tipo di riferimenti rimane il segno di una rimozione e di un necessario ridimensionamento nel modo intendere politicamente la scrittura letteraria nell'epoca della cultura di massa.

Nelle Postille a Il nome della rosa, Eco insiste sul legame tra l'ironia e la narrazione postmoderna. Il gioco ironico è esemplificato attraverso il riferimento ai romanzi della collana rosa Liala:

penso all'atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle "ti amo disperatamente", perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una soluzione. Potrà dire: "Come direbbe Liala, ti amo disperatamente". […] Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell'ironia... Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d'amore.124

Eco utilizza le fonti più disparate, da Wittgenstein a Conan Doyle, per costruire la trama di un'investigazione poliziesca in una vicenda ambientata in epoca medievale. È attraverso questo gioco di riferimenti che costruisce un giallo che, utilizzando le parole dello stesso autore, è “piacevole” e al contempo problematizza il rapporto mimetico della scrittura della storia. È in questo modo che diventa possibile «trovare elementi di rottura e contestazione in opere che apparentemente si prestano ad un facile consumo,

123Francesca Bausi, I due medioevi del Nome della rosa, in “Semicerchio”, 2011, n. 1.

ed accorgersi al contrario che certe opere, che appaiono come provocatorie e fanno ancora saltare sulla sedia il pubblico, non contestano nulla».

Sul piano accademico il contesto è differente: laddove in letteratura è evidente una frattura rispetto alla stagione precedente, le discussioni a livello teorico mostrano cambiamenti molto meno netti. Nonostante la levatura internazionale di alcuni studiosi, le riflessioni sul postmoderno sono infatti sottoposte a blocchi in parte dovuti alla rigida struttura dell'accademia italiana. Come nel dibattito spagnolo anche nell'accademia italiana le tematiche del postmoderno sono spesso viste con sospetto, anche in riferimento al ruolo giocato dai mass media, assoluti protagonisti della società dello spettacolo e dei consumi.

Questo legame tra postmoderno e società dello spettacolo può essere letto secondo due linee differenti che Jansen individua a proposito delle teorie di Vattimo. Quest'ultimo legge nel postmoderno una crisi di legittimazione dei modelli interpretativi e dei miti della modernità. In particolar modo una crisi dell'idea di “verità” e di “progresso” che ha origine nell'opera di Nietzsche. A partire da questa lettura Vattimo individua una possibilità nella rottura del concetto delle categorie moderne. A differenza di Jameson, che vede nell'esplosione e nella varietà della produzione un sistema comunque regolato all'interno di una totalità rappresentata dal tardo capitalismo, Vattimo individua nel contesto postmoderno una “liberazione delle differenze” che si pone come base di una una possibilità emancipativa. In questo senso, il postmoderno non ha nulla del carattere omologante che Adorno riscontra nella cultura di massa. Al contrario si assiste ad un passaggio dall'utopia unitaria all'eterotopia, ossia una «presa di parola da parte di molti sistemi di riconoscimento comunitario, di molteplici comunità che si manifestano, esprimono, riconoscono in modelli formali e miti differenti»125. Secondo questa lettura i

media assumono un ruolo, per quanto ambiguo, decisivo:

è vero che, da un lato, i mass media tendono a creare omologazione e uniformità nella cultura collettiva, ma è visibile chiaramente anche il fenomeno opposto: proprio nella società in cui è più alto ed esteso il potere pervasivo dei media, minoranze e subculture di ogni tipo acquistano visibilità, fosse pure soltanto per corrispondere alle esigenze del mercato, che ha continuamente bisogno di contenuti inediti, di novità.126

125Giorgio Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano, 1989, p. 92

Tuttavia nell'analisi di Vattimo questa possibilità emancipativa appare fin troppo alla portata di mano: ancora una volta la critica si divide infatti attorno al nodo della conflittualità rispetto al sistema di dominio. Seguendo e riarticolando le categorie individuate da Eco, Monica Jansen propone di etichettare Remo Ceserani un “integrato critico”, Giulio Ferroni un “apocalittico” e Romano Luperini un “apocalittico critico”. Mentre Ceserani propone infatti un atteggiamento di critica, ma al tempo stesso di consapevolezza del cambiamento storico, Giulio Ferroni rifiuta invece il pensiero postmoderno in quanto ritenuto vincolato ad una società che assorbe ogni tipo di contraddizione127. Una critica simile a quella di Ferroni proviene da Romano Luperini che considera il postmodernismo l'ideologia dominante del presente128. Di fronte ad un'ipotesi di fine delle avanguardie, come quella prospettata da Ceserani sulla scia di Jameson, Luperini mette invece in rilievo la spinta critica che il modernismo ha prodotto nei confronti del capitalismo nato dalla rivoluzione industriale. Il tentativo di Luperini è dunque quello di ripensare la storia della letteratura in base ai cambiamenti economici, come nel caso di Il Novecento. Tuttavia l'analisi in esso contenuta mette in evidenza delle questioni irrisolte: innanzitutto, l'analisi di Luperini prende atto dei cambiamenti economici, ma non li applica ad un'analisi dei meccanismi di mercato della letteratura; in secondo luogo, come sottolinea Jansen, l'analisi di Luperini rischia di risultare teleologica in quanto, reputando il postmoderno come una fase, entra in un'ottica di fine del postmoderno, tanto da spingere Jansen a chiedersi: «non celerà questa continua ricerca di nuove svolte storiche comunque un compulsivo bisogno di ritorno a una concezione progressiva della storia, anche se liberata dalla sua dimensione dialettica?»129.

L'analisi di Luperini, in misura maggiore di quella di Ferroni, è destinata a lasciare segni di un rifiuto del postmoderno, che diventano ancor più evidenti in La Fine del

Postmoderno, laddove questa non è intesa come la fine di un periodo o di un sistema,

ma di un modo di pensare la società. Gli attentati dell'11 settembre 2001 sono qui letti

Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano, 2003, p. 28.

127Monica Jansen, Il dibattito sul postmoderno in Italia. In bilico tra dialettica e ambiguità, Franco Cesati Editore, Firenze, 2002, p. 170.

128Ivi., p. 178.

come un evento che simboleggia un violento “ritorno alla realtà”, dopo una fase di “ilare nichilismo”. Un mutamento che tuttavia non è registrato all'interno della letteratura italiana. Questa lettura non è però priva di contraddizioni: uno degli elementi individuati da Luperini in merito all'urgenza di una risposta etica al «degrado di civiltà che stiamo vivendo»130 è l'emergere di movimenti “noglobal”. Tuttavia lo stesso Luperini, denuncia che:

di quello che sta succedendo nel mondo o in Italia nella produzione letteraria non c'è quasi traccia. Gli esordienti che ogni anno si presentano a “Ricercare” si dilettano in racconti ginecologici e ombelicali, a base di cazzo e di vomito; gli scrittori di mezza età si attardano in uno stanco postmodernismo manieristico.131

Luperini non accenna tuttavia al collettivo Wu Ming che non solo ha svolto il compito di “narrare” l'emergere di una protesta globale, ma, sebbene per un breve periodo, ha assunto una posizione di particolare rilievo all'interno dei movimenti. D'altronde è lo stesso Luperini a vedere nello stile narrativo di Wu Ming un ricorso ai temi della storia e della politica «un modo per conquistare un posto sul mercato»132.

Pochi anni dopo Luperini registra tuttavia dei mutamenti, sottolineando un ritorno all'etica che se su un piano internazionale rimanda alle opere di Philip Roth e Don DeLillo, in Italia trova riscontro nelle opere di Roberto Saviano, Nicola Lagioia, Silvia Ballestra. Luperini sostiene così che la letteratura rechi il segno e sia a sua volta portatrice di un nuovo cambiamento storico:

un semplice restauro di forme desuete sarebbe solo un artificio rassicurante: di quelli che da sempre richiede l'industria culturale. Se parliamo di "ritorno alla realtà" è perché si affacciano nuove realtà che non possono essere rappresentate con strumenti legati a momenti storici così diversi dal nostro.133

130Romano Luperini, La fine del postmoderno, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2005, p. 20. 131Ivi., p. 126.

132Romano Luperini, “Commento a 54”, Giap!, 08/05/2002, disponibile all’indirizzo: http://www.wumingfoundation.com.

133Estratto da un'intervista di Andrea Cortellessa a Romano Luperini, “Scrittori con i piedi per terra. Dialogo sul neo-neorealismo dopo il trionfo di Gomorra a Cannes”, La Stampa, 30\05\2008.

È dunque attraverso questo ritorno alla realtà che si può nuovamente parlare di impegno e superare l'impasse nata con la fine delle avanguardie. Si tratta di una posizione che viene argomentata anche all'interno della rivista Allegoria, in un numero dedicato al “Ritorno alla realtà”.

Su questa stessa rivista che si sviluppa l'ultima polemica italiana sul postmoderno, attraverso uno scambio di articoli tra Remo Ceserani e Raffaele Donnarumma. Il dibattito si articola questa volta attorno al concetto di “ipermodernità”, un termine ripreso dalle analisi Gilles Lipovetsky e riarticolato da Donnarumma134 alla luce di una lettura di un'ipotesi di fine del postmoderno e delle possibili interpretazioni emancipative che esso supponeva: «il prefisso iper- depone così ogni possibile sfumatura celebrativa, e rivela il suo carico ansiogeno e intimidatorio»135. Come Donnarumma stesso scrive nel suo recente libro Ipermodernità. Dove va la narrativa

contemporanea (2014):

parlare di ipermodernità vuol dire svelare che il proclama postmoderno dell'uscita dalla logica moderna del nuovo è stato solo un desiderio o una velleità: a smentirlo, c'è un'inflazione di rincorse alla novità e al suo valore differenziale in molti ambiti dalla scienza al marketing, dalla moda alle arti, soprattutto figurative.136

Questa impostazione consente dunque di recuperare la possibilità di porsi in maniera conflittuale rispetto ai meccanismi di potere, ora finalmente emersi con tutta la loro brutalità. E infatti il fondo di questa opzione è ancora una volta l'idea che il postmoderno rappresenti un disincanto nei confronti del potere e il riassorbimento di qualunque possibilità critica. Al contrario, «l'altra faccia del disagio ipermoderno […] è

134«Non condivido in nulla l’orientamento liberal-ottimistico di Lipovetski [...] anzitutto perché rischia di falsare l’analisi. Quando si è trattato di battezzare il post-postmoderno, avevo bisogno di un nome che insistesse sulla persistenza della modernità e che insieme mi permettesse di collegarlo alla questione del realismo. Non c’erano moltissime alternative», Raffaele Donnarumma, La fatica dei concetti. Ipermodernità, postmoderno, realismo, in “In Between”, 2014, vol. IV, n. 8, p. 1-2.

135Raffaele Donnarumma, Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno, in “Allegoria”, 2001, n. 64, p. 8.

136Raffaele Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 103.

una volontà etica che si muove con categoria meno sfuggenti di quelle postmoderne»137. In questo modo, nelle opere analizzate, la “volontà etica” diventa l'elemento da prendere come punto di riferimento.

All'epoca dell'articolo su Allegoria, Ceserani critica l'analisi di Donnarumma prima di tutto nella scelta delle date di riferimento, proponendo dei criteri molto più “liquidi”, che consentono di ampliare l'orizzonte geografico dell'analisi e sottolineando come i processi che la critica postmoderna si siano sviluppati secondo diverse modalità e diverse intensità in tutto il globo. L'allargamento della mappa (non solo “cognitiva”, ma geografica) consente a Ceserani di mettere in evidenza alcuni fenomeni di resistenza o di impegno che vengono derubricati da Donnarumma:

per poter liquidare gran parte della produzione culturale, letteraria e cinematografica di quelli che ormai sono tre o quattro decenni, egli deve applicare una strategia riduttiva e semplificatoria, mettere da parte scrittori, registi, uomini di teatro che in America, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda, in India, in Giappone, nei Caraibi, in Sudamerica hanno cercato di rappresentare, con i mezzi più vari, con successo e insuccesso, con cedimenti alle mode e alle regole del mercato e nonostante le regole del mercato, le esperienze, i drammi, le frustrazioni derivanti dalla nuova condizione di vita.138

Ceserani è anche autore, insieme a Giuliana Benvenuti, di La letteratura nell'età globale (2012)139, laddove il termine “globale” è utilizzato in tutte le sue sfaccettature, facendo riferimento tanto al sistema del mercato, quanto alla Weltliteratur. L'analisi della letteratura nell'età globale presuppone infatti il superamento degli schemi classici dello studio della letteratura postulando dei confini delle letterature nazionali quanto la messa in crisi delle discipline tradizionali. La fruizione, l'attenzione alle lingue “minori”, l'eurocentrismo, i processi di standardizzazione all'interno del mercato e soprattutto la letteratura come strumento di egemonia sono problemi che vengono individuati come questioni centrali all'interno di questa nuova prospettiva. Il libro è quindi una ricognizione di come la letteratura è immaginata, fruita, tradotta, divulgata e studiata

137Raffaele Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 106.

138Remo Ceserani, La Maledizione degli “Ismi”, in “Allegoria”, 2012, n. 65-66, p. 211. 139Giuliana Benvenuti, Remo Ceserani, La letteratura nell'età globale.

nella società globalizzata, rispondendo così alla necessità posta da Jameson di individuare altre mappe cognitive che rendano possibile una nuova forma di critica e una nuova forma di lotta all'interno del tardo capitalismo.

Un ultima voce che definisce il contesto italiano, è l'intervento di Wu Ming 1 che nel suo Memorandum sul New Italian Epic140 propone una prima ampia panoramica sulla letteratura italiana contemporanea, battendo così sul tempo i critici letterari. Anche da parte di Wu Ming 1 è enunciato un superamento del postmoderno simboleggiato dall'attacco al World Trade Center del 2001 che ha di fatto messo in crisi l'illusione di un occidente pacificato che ha superato le proprie contraddizioni e i propri conflitti. L'evento dimostra il fatto che la guerra (in tutta la sua materialità) è stata sempre presente non è mai terminata e che l'occidente ha solo solo allontanato temporaneamente il fronte dai propri confini. Riprendendo la poesia iniziale del romanzo 54, Wu Ming 1 sostiene che:

a conti fatti, l'impulso che sta alla base di tutti i libri di cui ho parlato può leggersi in questa frase: "Gli stolti chiamavano pace il semplice allontanarsi del fronte".

Non fingiamo che il fronte di questa guerra sia lontano. Non chiamiamo questa finzione "pace".

Noi non siamo in pace.

La letteratura non deve, non deve mai, non deve mai credersi in pace.141

Secondo Wu Ming 1, dunque, in molti autori è possibile riscontrare una fiducia nel ruolo della parola dopo il suo svuotamento in epoca postmoderna. Il recupero di una funzione della parola può essere riassunto facendo ancora una volta riferimento alle

Postille a Il Nome della Rosa e alla citazione sopra riportata:

oggi la via d'uscita è sostituire la premessa e spostare l'accento su quel che importa davvero: "Nonostante Liala, ti amo disperatamente". Il cliché è evocato e subito messo da

140Il saggio viene pubblicato in tre versioni: la prima di questa appare sul sito di Carmilla, www.carmillaonline.com, il 24 aprile del 2008. L'ultima versione è pubblicata per Einaudi nel 2009 ed è firmata a nome di tutto il collettivo.

141Wu Ming, NEW ITALIAN EPIC. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino, 2009, p. 60.

parte, la dichiarazione d'amore inizia a ricaricarsi di senso.142

Questa dichiarazione di fiducia nei confronti della parola non è una leggerezza: essa proviene proprio da parte di chi (pochi mesi dopo lo stesso Memorandum) più di altri ha messo in discussione il proprio ruolo di narratori, sottolineando il pericolo di un uso del mito e riconoscendo gli errori commessi nel percorso che condusse alle drammatiche vicende di Genova nel 2001143. La responsabilità di una presa di parola è dunque connotata da rischi di cui gli stessi autori devono prendere coscienza.

Tuttavia il Memorandum presenta numerose contraddizioni, a partire dal fatto che molte delle caratteristiche dei testi del New Italian Epic descritte sono in realtà assolutamente riconducibili alle pratiche postmoderne. L'impressione è che, più che postulare un superamento del postmoderno, Wu Ming metta in discussione un'intera stagione della letteratura italiana degli anni Novanta e un'attitudine politica di cui la letteratura (soprattutto quella italiana) è ed è stata partecipe. Da questo punto di vista, paradossalmente, le riflessioni di Luperini e Wu Ming coincidono. Tuttavia nel

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