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Le nuove istanze di efficienza e l’ascesa della Scuola di Chicago

ANTITRUST TEORIE A CONFRONTO

3.7 Le nuove istanze di efficienza e l’ascesa della Scuola di Chicago

Negli Stati Uniti né la Scuola austriaca né tantomeno le teorie Ordoliberali ebbero conseguenze significative sugli orientamenti applicativi dello Sherman Act adottati dai giudici, restando questi sostanzialmente legati al paradigma strutturalista fino a tutti gli anni’60. In questo periodo si registra invece lo sviluppo di un nuovo orientamento che avrà grande influsso sulla giurisprudenza americana a partire dal decennio successivo, e in seguito anche sull’azione antitrust europea, che trova le sue ragioni sia nell’evoluzione del pensiero economico e giuridico, sia nel mutamento della realtà delle imprese statunitensi e dei mercati internazionali in cui operano.

E’ necessario infatti tenere conto innanzitutto del fatto che, a partire dalla fine degli anni ’60, le imprese statunitensi comincino a perdere terreno in campo internazionale, e, contestualmente di come la progressiva estensione dei mercati al di fuori dei confini dei singoli Stati nazionali con il conseguente allargamento della concorrenza attuale e potenziale modifichi i parametri di riferimento su cui si concentra la teoria strutturalista. Questa espansione dei mercati geografici ha l’effetto di determinare l’innalzamento della soglia dimensionale delle imprese che possono competere con successo sul mercato e, contemporaneamente, nuove tecniche dell’organizzazione industriale e il rapido sviluppo delle tecnologie rendono possibili miglioramenti qualitativi, innovazioni e risparmi di costo attraverso forme di concentrazione e di integrazione che, nell’ottica strutturalista, andavano contrastate. Cresce conseguentemente l’attenzione verso le considerazioni di efficienza legate sia nei confronti dell’attività economica privata che dell’intervento regolatorio pubblico, inclusa l’applicazione della normativa antitrust.

In questo mutato contesto si innesta la nascita l’analisi economica del diritto e la sua applicazione al diritto antitrust, sviluppata in particolare dalla Scuola di Chicago, fondata da Aaron, le cui tesi segnano un’importante svolta nella scelta delle finalità e dei criteri di attuazione della legislazione a tutela della concorrenza241. L’approccio Chicagoan affronta i problemi della concorrenza partendo dalla teoria dei prezzi neoclassica, arricchita dell’evoluzione teorica, sempre basata sulla teoria dei prezzi, avvenuta in materia di teoria dell’impresa (rendimenti crescenti, costi di transazione) e fallimenti del mercato (comportamenti opportunistici, asimmetrie informative). L’impresa neoclassica, nella sua stilizzata semplicità, infatti, non era che “una caricatura dell’impresa moderna”242, non essendo rappresentative delle scelte allocative e produttive che l’imprenditore deve effettuare, anche alla luce dell’esistenza dei costi di transazione, la cui introduzione si deve al celebre opera di R. Coase243, che costituisce il fondamento teorico di tutto il movimento di analisi noto come “Law and economics”.

A porre per primo in relazione l’idea di efficienza elaborata da Coase e il diritto antitrust fu per primo Wiliamson con l’articolo Economics as an Antitrust

Defense: The Welfare Tradeoffs244, il quale partendo dal modello coasiano evidenziò come l’integrazione verticale e gli accordi tra imprese produttrici e distributrici avessero potenziali effetti positivi in termini di riduzione dei costi di transazione e controllo dei comportamenti opportunistici. Il modello dei costi di transazione offre infatti una teoria di incentivi alternativa, o meglio integrativa, a quella tradizionale che si limitava a considerare solamente gli effetti anticoncorrenziali di tali fattispecie in termini di chiusura del mercato e innalzamento di barriere all’entrata: la decisione da parte di due imprese, legate da rapporti di fornitura/clientela frequenti e quantitativamente rilevanti, di dare vita ad una fusione può invece essere motivata dall’esigenza di ridurre i significativi costi di transazione associati a tali rapporti piuttosto che a eliminare un concorrente. Così come, similmente, una restrizione

241In particolare, nel corso degli anni ’60, diversi autori appartenenti alla Scuola di Chicago, tra cui Robert Bork e Richard Posner, criticarono I criteri applicativi adottati dalle corti, fortemente influenzati non erano riNaspramente la politica adottata dalle autorità antitrust e dalle corti, sottolineando l’importanza di tenere conto dei guadagni di efficienza nelle valutazioni antitrust. 242D. Kreps, Corso di microeconomia, Bologna, 1993, p. 841.

243

R. Coase, The nature of the firm, in Economica, 1937, 4, p. 386 ss; R. Coase, The problem of social

costs, in Journal of Law and Economics, 1960, 1, p. 3.

244O. E. Williamson, Economics as an Antitrust Defense: The Welfare Tradeoffs, in American

verticale può essere finalizzata ad avvicinare le motivazioni e gli interessi delle parti coinvolte (in particolare nel caso dei contratti di distribuzione esclusiva), eliminando i fenomeni di free-riding e di altri comportamenti opportunistici, piuttosto che per impedire ad un rivale l’accesso a uno o più consumatori ovvero ad uno o più fattori della produzione. Wiliamson successivamente individuò tre fattori critici, la cui intensità è direttamente proporzionale ai guadagni di efficienza ottenibili attraverso intese restrittive nelle relazioni verticali, che possono far fronte all’inevitabile incompletezza dei contratti: l’incertezza; la frequenza con cui la transazione ricorre, l’ammontare degli investimenti in beni durevoli speicifici che una parte deve effettuare per poter entrare in relazione con l’altra245.

Questo peraltro non è l’unico fondamento dell’approccio chicagoan. Come detto la teoria dei prezzi assume l’ipotesi della completa razionalità dei comportamenti e, conseguentemente, che le imprese si comportino razionalmente perseguendo la massimizzazione dei profitti; la scuola di Chicago aggiunge a questa ipotesi quella che la massimizzazione dei profitti deve essere considerata favorevolmente ai fini della promozione della concorrenza poiché, in linea di principio, i mercati mettono in atto meccanismi autocorrettivi delle eventuali imperfezioni. Vi è quindi una fiducia quasi incondizionata nelle capacità della concorrenza, intesa come libero operare delle forze del mercato, di produrre sempre e comunque un risultato efficiente, in contrapposizione all’intervento pubblico, valutato come intrinsecamente inefficiente246. Sulla base di questa impostazione vengono formulate due linee guida per la politica antitrust247:

245O. Wiliamson, Transaction-cost economics: The governance of contractual relations, in Journal of

law and economics, 22, 1979, p.143; questo aspetto sarà esaminato più approfonditamente in seguito

(V. capitolo 5). 246

Tale visione, oltre che da argomentazioni teoriche era supportata dalla constatazione che l’intervento dello Stato portava un’effettiva incongruenza tra risultati perseguiti e obiettivi raggiunti che alcuni economisti avevano avuto modo di evidenziare a partire dagli anni ’60, quando, in molti paesi industriali, ci si rese conto che la regolazione delle attività economiche aveva ecceduto il necessario e portato altresì ad una proliferazione di norme che si erano sovrapposte nel tempo, e risultavano, di conseguenza, eccessivamente numerose e spesso confliggenti. Si giunse pertanto a parlare di “fallimento della regolazione” e vennero sviluppate diverse teorie per fornire una spiegazione economica a tale riguardo. Contestualmente vennero ricercate nuove forme di autoregolamentazione, in talune circostanze possibili, che, se in linea con gli interessi collettivi potevano rendere superflue, se non nocive, le ingerenze “dall’esterno”.

247Per una trattazione completa della ratio del diritto antitust secondo gli esponenti della Scuola di chicago si veda, per tutti R. A. Posner, Antirust law: an economic perspective, Chicago, 1976.

 le condotte finalizzate alla massimizzazione del profitto non devono essere vietate, salvo prova contraria;

 lo scopo delle norme antitrust è quello di tutelare e perseguire l’efficienza dei mercati, sia allocativa che produttiva, con la conseguenza che le valutazioni delle operazioni potenzialmente restrittive o distorsive della concorrenza devono essere basate sulla base di tale criterio.

In termini applicativi, ciò implica innanzitutto che non vi è una necessaria correlazione positiva tra struttura di mercato e potere di mercato, posto che una struttura concentrata può essere motivata da una maggiore efficienza di alcune imprese rispetto ad altre, operanti all’interno della medesima industria. E’pertanto questa maggiore efficienza che determina, grazie ad una più elevata profittabilità, un incremento della quota di mercato e quindi del grado di concentrazione dello stesso. La politica antitrust non dovrebbe quindi impedire una tale maggiore concentrazione in quanto essa rappresenta la conseguenza del pieno funzionamento della dinamica concorrenziale da cui emerge una configurazione di mercato più efficiente.

In termini di criteri di valutazione, tale approccio sposa la metodologia di analisi basata sul criterio di efficienza e sul welfare trade-off, che confronta l’ampiezza degli effetti positivi con quelli negativi in un’ottica di efficienza, sapendo che può esistere un trade-off tra effetti negativi dell’operazione in termini anticoncorrenziali e effetti positivi in termini di incremento di efficienza; in questa ipotesi se i benefici attribuibili alla maggiore efficienza compensano i potenziali effetti anticoncorrenziali dell’operazione in esame, le autorità antitrust devono astenersi dall’intervenire.

Per quanto riguarda la metodologia da adottare in sede di giudizio antitrust, la scuola di Chicago è coerentemente favorevole all’approccio caso per caso (rule of

reason), per il quale, come detto, le imprese sono tenute a provare che i

comportamenti loro contestati trovano una giustificazione in termini di razionalità economica mentre le autorità antitrust sono vincolate a dimostrarne l’anticoncorrenzialità indipendentemente dalle caratteristiche legali delle pratiche contestate.

Un altro caposaldo della Scuola di Chicago è la rilevanza attribuita al concetto di efficienza produttiva e, in parte, dinamica accanto a quella allocativa; in

particolare l’efficienza produttiva, e non la presenza di accordi collusivi e pratiche abusive, spiegherebbe in molti casi l’esistenza di mercati concentrati, con poche grandi imprese che detengano elevate quote di mercato.

Come già accennato l’efficienza produttiva si concretizza spesso in aspetti tecnico-dimensionali, associati cioè alla dimensione ottimale degli impianti per la quale la produzione avviene ad un costo minimo. La presenza di rendimenti crescenti di scala influenza evidentemente il livello di concentrazione del mercato: se, infatti, la dimensione minima dell’impresa è elevata rispetto alla domanda complessiva, allora vi è spazio per poche imprese che producono e quindi la concentrazione risulta elevata. Per questo motivo le operazioni di concentrazione rappresentano dei tipici casi in cui l’approccio chicagoan, che ha enfatizzato la rilevanza dei guadagni in termini di efficienza produttiva, sviluppando la c.d. teoria dell’efficiency-defense. Una significativa differenza in termini di curve di costo intercorrente tra le funzioni di produzione delle imprese più e meno efficienti giustificherebbe infatti anche la creazione di situazioni in cui la nuova impresa dispone di un sostanziale potere di mercato.

Strettamente collegato alla lezione della Scuola di Chicago è lo sviluppo della teoria dei mercati contestabili elaborata da Baumol all’inizio degli anni ’80248. Essa sposta l’attenzione sull’importanza della competizione potenziale in mercati monopolistici e oligopolistici caratterizzati da basse barriere all’entrata e all’uscita, nei quali la possibilità che nuove imprese entrino almeno temporaneamente sul mercato attratte dalla sua profittabilità, spiazzando così le imprese già operanti, condiziona i comportamenti di queste ultime limitandone il potere di mercato. Questo risultato è di grande impatto sulla politica della concorrenza in quanto al limite anche una struttura di mercato caratterizzata dalla presenza di un’unica impresa monopolista potrebbe non implicare alcuna perdita di benessere dato che il monopolista dovrebbe tener conto che se imponesse prezzi monopolistici vedrebbe erosi i propri profitti dalle imprese nuove entranti. Le autorità antitrust in un tale contesto sarebbero inutili; ovviamente però la restrittività delle ipotesi sottese a questa teoria fa sì che esse difficilmente siano verificate, soprattutto quella della completa recuperabilità dei costi fissi relativi all’investimento iniziale.

Le implicazioni di questo nuovo approccio hanno modificato profondamente gli orientamenti dell’autorità governativa antitrust e della giurisprudenza statunitense le quali hanno assunto, a partire dalla metà degli anni ’70, un atteggiamento più tollerante verso varie tipologie di operazioni, di accordi e di pratiche che prima venivano considerate illegali non in base ai loro effetti reali o potenziali, ma in quanto assumevano determinate caratteristiche formali. In particolare questo nuovo orientamento ha riguardato gli accordi verticali e le concentrazioni (sia orizzontali che verticali), nonché le pratiche leganti e le discriminazioni di prezzo, ora considerate più favorevolmente che in passato.

La sentenza che segna la svolta interpretativa della giurisprudenza americana in questo senso è la decisione della Corte Suprema nel caso Sylvania249, che, citando ampiamente le posizioni della Scuola di Chicago, ha ritenuto che tutte le restrizioni verticali non di prezzo devono essere valutate secondo il criterio della rule of reason. Ad essa seguì il periodo “reaganiano”, in cui le corti adottarono un approccio non interventista, nella convinzione che il mercato fosse in grado di porre in essere meccanismi di auto-correzione e nell’assunzione che i comportamenti razionali delle imprese volti a massimizzare il profitto non perseguissero scopi anticoncorrenziali, salvo prova contraria250.

Anche l’evoluzione delle linee guida elaborate dal Dipartimento di Giustizia USA e dalla Federal Trade Commission ha risentito delle conclusioni raggiunte dalla Scuola di Chicago: considerazioni di efficienza di derivazione chicagoan sono rinvenibili sia nelle Guidelines del 2000 aventi ad oggetto la collaborazione e gli accordi tra concorrenti (Horiziontal guidelines: punto 3.36), sia, soprattutto, in quelle del 1997, che succedono a quelle del 1982 e del 1984, concernenti le concentrazioni, le quali esplicitano che quando tali operazioni sono effettuate in mercati caratterizzati dall’assenza di barriere all’entrata, non creano situazioni rischiose a fini antitrust e che la valutazione deve determinare i guadagni di efficienza ottenibili attraverso

249Continental T.V. Inc. GTE Sylvania Inc., 433, U.S. 36, 1977.

250In Matsuhita Electric industrial Co. v. Zenith Radio Corporation (475, US 574, 1986) la Corte Suprema stabilì che le pratiche di prezzi predatori sono, in linea di principio irrazionali, quindi non sanzionabili, poiché l’impresa predatrice ha poche possibilità di beneficiare in futuro di una fase di monopolio sufficientemente lunga da recuperare le perdite sofferte durante il periodo di vendite sottocosto; vi sarebbero pertanto altre giusitficazioni razionali a monte della decisione di praticare prezzi inferiori al costo variabile di produzione.

l’operazione in quanto possono essere utilizzati a difesa della stessa da parte delle imprese coinvolte.

3.8 Le teorie “Post-Chicago”: la ricerca di una maggiore aderenza alla

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