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Una possibile alternativa metodologica: il criterio di efficienza nella cultura orientale

L’EFFICIENZA DAL PUNTO DI VISTA GIURIDICO: L’EFFICIENZA PUBBLICA NELL’ATTIVITÀ DELLE AUTORITÀ ANTITRUST.

2.6 Una possibile alternativa metodologica: il criterio di efficienza nella cultura orientale

Vale la pena al termine di questa prima parte del presente lavoro, interrogarsi brevemente circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l’unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un’applicazione in “salsa cinese” del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il

futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione.

Quanto finora detto circa il criterio di efficienza, seppure nella diversità degli orientamenti espressi dalla dottrina, si fonda, infatti, su una nozione terminologica che deriva da una tendenza alla modellizzazione della realtà tipica della cultura occidentale, tendenza che trova a sua volta la propria origine nel pensiero filosofico sviluppatosi nell’antica Grecia: esso ci ha trasmesso un approccio alla realtà nelle sue molteplici situazioni basata su modelli teorici, che porta a valutare i comportamenti e l’azione umana sulla base della loro capacità a conseguire obiettivi e fini predeterminati. Da ciò ne deriva una nozione di efficienza (e di efficacia) concepita in funzione del rapporto mezzi –fine: una volta determinato il modello, ossia il fine, si devono individuare i mezzi più economici, tra quelli disponibili, che conducano a tale fine (efficienza) e, una volta che tali mezzi vengono acquisiti, occorrerà agire al meglio per realizzare lo scopo predeterminato (efficacia). Il processo di conseguimento del fine avverrà, con tutta probabilità, attraverso la modifica della situazione (inefficiente) di partenza, affinchè essa si conformi al modello elaborato; questo perché nel pensiero occidentale l’applicazione alla realtà di una costruzione teorica implica sempre un certo grado di forzatura della stessa185.

Presupposto di una tale impostazione è che l’uomo abbia il diritto di plasmare le cose eventualmente anche contro la loro natura, mettendole al servizio dei suoi obiettivi. Ed infatti questo diritto è stato storicamente riconosciuto dal pensiero occidentale, filosofico e religioso: il cristianesimo, fin dalla Genesi attribuisce all’uomo il potere di modificare lo stato delle cose, e successivamente, nei Vangeli, incarna Dio in un essere umano, Cristo, il quale è da questa condizione che agisce sulla realtà, modificandola repentinamente attraverso la crocifissione.

Profondamente diversa è la concezione sviluppata dalla cultura cinese per esprimere l’efficacia e l’efficienza dei comportamenti umani. Diversamente da quello occidentale, infatti, il pensiero filosofico e religioso cinese, ma non solo (il Sud-est asiatico presenta una cultura similare, in quanto fondata sul buddismo), si fonda sul principio dell’armonia: nell’universo, che costituisce il macrocosmo; nell’uomo, interiormente; nella società umana, che rappresenta il soggetto

intermediario tra il cosmo e l’uomo186. Si tratta quindi di un processo di adeguamento dell’uomo al macrocosmo mediante la società.

Nel Tao in particolare troviamo l’idea di un mondo regolato dalle alternanze coordinate di Yin (Vuoto) e Yang (Pienezza), i due principi, tra loro contrari, alla base dell’universo; da questi due concetti-base nasce la Forma, che costituisce a sua volta l’adeguarsi di Vuoto e Pienezza alla realtà; l’esempio è l’acqua che prende la forma del letto del ruscello. La cultura cinese non ha pertanto sviluppato il pensiero di un modello ideale, che presuppone una potenziale alterazione del cosmo, non elaborando nemmeno la nozione di un mezzo che possa condurre a esso, ma si è invece concentrata sul concetto di interesse e di vantaggio, i quali si ottengono sfruttando al meglio la situazione esistente, assecondando il potenziale che essa esprime.

Si abbandona così il binomio mezzo-fine passando alla relazione condizione- conseguenza, nella cui ottica l’efficacia non rappresenta più la capacità di azione di un soggetto o di un organo, bensì la sua idoneità a condizionare e trasformare una situazione a proprio favore ottenendo una conseguenza “vantaggiosa” rispetto al potenziale che la situazione iniziale esprimeva. Non più quindi predeterminazione dei fini, individuazione dei mezzi idonei a conseguirli, azione ed eventuale forzatura della realtà volta alla massimizzazione del suddetto obiettivo quali indicatori di efficienza ed efficacia; al contrario, nel pensiero cinese una condotta efficace sussisterà in presenza di un pieno sfruttamento delle condizioni esistenti che ne permetta di coglierne a pieno il potenziale che la situazione esprime; potenziale che si esprimerà come naturale conseguenza della situazione di partenza, senza che occorrano di forzature.

L’efficienza perde l’elemento di capacità di “innesco”, ossia la predisposizione dei mezzi necessari a conseguire il fine desiderato, e diventa invece massima in presenza di “fluidità e continuità del processo”, poiché essa rappresenta l’immanenza sottostante alla situazione in cui si agisce, esprimente a sua volta la condizione di trasformazione continua nella quale il soggetto o l’organo dovrà saper far emergere la conseguenza a lui più vantaggiosa. L’azione non può invece essere

efficace poiché è isolata ed esterna alla realtà delle cose; conseguentemente non potrà mai essere in linea con questa187.

Allo stesso modo la questione dell’inquadramento delle autorità competenti ad applicare la disciplina antitrust e di quale configurazione istituzionale sia più efficiente ai fini del perseguimento dell’interesse pubblico troverà probabilmente in Cina nuove ed originali soluzioni. Valga a supporto di questa affermazione la constatazione che il modello statuale cinese non prevede la tripartizione dei poteri di derivazione liberale; in Cina, infatti, i poteri sono cinque: oltre ai tre poteri tradizionali viene individuato un potere di controllo e uno di reclutamento del personale (i mandarini). Evidentemente, sebbene la legge antitrust cinese recentemente approvata e in procinto di entrare in vigore188 ricalchi nei suoi contenuti il modello occidentale e in particolare statunitense, la sua effettiva applicazione da parte dell’Autorità Anti-Monopolio e i rapporti tra questa e il governo risentiranno di questo diverso approccio alla questione.

L’interessante definizione di efficienza fornita dalla cultura cinese, unita alla diversa ripartizione dei poteri all’interno dello Stato è, in conclusione, potenzialmente gravida di implicazioni. Viviamo infatti in un tempo in cui la Cina sta evolvendo sempre più da soggetto passivo propenso a recepire la cultura occidentale con il suo portato teorico in ambito economico e giuridico a soggetto “esportatore” di cultura e di pensiero, non solo di merci, con la conseguenza che in un prossimo futuro i nostri criteri interpretativi della realtà economica e giuridica, quale quello di efficienza potrebbero subire profondi mutamenti per l’influenza della diversa concezione del termine elaborata dal pensiero cinese.

187F. Julien, op. cit., p.141 ss.

188La “Legge anti-monopolio della Repubblica Popolare Cinese” è stata definitivamente approvata dal Congresso Nazionale del Popolo il 30 agosto 2007 ed entrerà in vigore l’1 agosto 2008.

CAPITOLO 3

LA NASCITA DELLA NORMATIVA ANTITRUST NEGLI STATI UNITI E

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