ANTITRUST TEORIE A CONFRONTO
3.4 La teoria strutturalista Il concetto di “workable competition” e il paradigma Structure-Conduct-Performance.
La ragione della mancata applicazione delle teorie economche neoclassiche nel primo dopoguerra da parte della giurisprudenza risiedeva probabilmente anche nell’inadeguatezza delle teorie stesse: il modello della concorrenza perfetta non era applicabile alla realtà economica; anche in quei settori che venivano definiti come “concorrenziali” le deviazioni rispetto alle ipotesi formulate dalla scuola neoclassica erano significative.
Né perseguire una tale struttura di mercato sembrava desiderabile: le grandi imprese, dotate di elevato potere di mercato, che la teoria neoclassica della concorrenza permetteva non ammetteva, erano state il motore dello sviluppo economico statunitense, in particolare nei settori caratterizzati da un elevato tasso di innovazione
212W. E. Kovacic and C. Shapiro, op. cit., p. 47. Questa decisione può infatti essere compresa solo se considerata nella prospettiva storica della Grande Depressione. Essa, infatti, aveva avuto pesanti conseguenze su molte industrie, ed una di quelle che avevano maggiormente sofferto della crisi era l’industria mineraria del carbone: di fronte ad una consistente riduzione della domanda e per evitare ulteriori perdite,137 produttori localizzati nella regione dei monti Appalachi formarono una società per praticare il migliore prezzo e allocare la produzione tra i suoi membri.
tenologica e da rilevanti economie di scala (si pensi al settore dell’acciaio e al comparto automobilistico) dominati da poche grandi entità, spesso vicine al potere politico. La dimensione delle imprese così come la loro concentrazione era costantemente cresciuta tra il 1870 e il 1930, in particolare nei due periodi in cui fusioni e incorporazioni furono più intense, il primo tra il 1896 e il 1901, il secondo durante gli anni ’20, delineando così un sistema economico americano basato sulle grandi società per azioni, molte delle quali costituiscono ancora oggi delle vere e proprie istituzioni214.
Si comprendeva così che di tali entità l’economia americana non poteva fare a meno, ma, al contempo si criticava il laissez-faire del primo dopoguerra che non aveva impedito il verificarsi della crisi del 1929, né attenutato le sue conseguenze sull’economia, anzi rivelandosi impotente di fronte alle enormi questioni sollevate dalla Grande Depressione. Con il New Deal Roosveltiano e con il ritorno in auge delle ragioni dell’intervento pubblico dell’economia, si creò nuovo spazio anche per una nuova stagione di intervento antitrust, il quale tuttavia, per quanto appena detto non poteva più basarsi sul tradizionale modello della concorrenza perfetta. Si rendeva necessario, pertanto, elaborare un obiettivo più realistico cui collegare una nuova fase di attuazione del diritto antitrust.
In questo contesto si colloca l’elaborazione della teoria strutturalista o costruttivista. Essa si sviluppa a partire dalla metà degli anni ’30, nota anche come “Scuola di Harvard”, i cui principali esponenti furono Chamberlin, Robinson, Bain e Clark.
I primi due svilupparono modelli di mercati competitivi applicati in situazioni di concorrenza non perfetta (oligopolio e concorrenza monopolistica), maggiormente orientati, quindi, verso situazioni di mercato più vicine alla realtà pratica215 continuando tuttavia ad assumere come obiettivo della politica della concorrenza il raggiungimento o, quantomeno l’avvicinamento, ad una condizione di concorrenza perfetta.
Clark aveva invece un avversione per i modelli matematici basati su equilibri statici, e, influenzato da Schumpeter, affermò che la dinamica descritta dalla
214V. Valli, Il sistema economico Americano 1945/1977, Milano, 1979, p. 38-40.
215J. Robinson, The economics of imperfect competition, London, 1933; E. H. Chamberlin, The theory
concorrenza perfetta non poteva esistere; conseguentemente tale modello non può costituire un punto di arrivo e non tutte le imperfezioni del mercato possono e devono essere elininate dall’applicazione del diritto antitrust; in particolare devono essere mantenute quelle imperfezioni che possono annullarsi tra loro (per esempio l’imformazione imperfetta può prevenire la collusione in mercati oligopolistici). La politica della concorrenza, pertanto, deve perseguire non il raggiungimento di condizioni concorrenziali ideali, bensì formulare criteri per il mantenimento o il ripristino di una situazione di c.d. workable competition216. Per la determinazione di tali criteri la Scuola di Harvard sviluppò una filosofia interpretativa che individuava nella struttura del mercato la variabile determinante sugli effetti, positivi o negativi, in termini di efficienza del mercato.
Con il termine struttura ci si riferisce innanzitutto al maggiore o minore grado di concentrazione, espresso in termini di numerosità e dimensione delle imprese operanti sul mercato preso in considerazione ai fini dell’analisi concorrenziale; devono essere poi considerati gli aspetti legati al ciclo di vita del prodotto e alle caratteristica domanda. In generale le variabili che definiscono la struttura del mercato sono identificabili: nel numero di produttori e di acquirenti; nel grado di differenziazione dei prodotti; nelle barriere all’entrata; nella struttura dei costi; nell’integrazione verticale; nel grado di differenziazione produttiva delle singole imprese217.
La struttura del mercato, così intesa, influisce, secondo una relazione causa- effetto, sulla profittabilità delle imprese e sulla probabilità di comportamenti collusivi. A determinate forme della struttura dei mercati vengono quindi automaticamente associate presunzioni di comportamenti suscettibili di produrre restrizioni sostanziali e durature della concorrenza: strutture di mercato concentrate, presentanti elevate barriere all’entrata, a bassa differenziazione, con le imprese operanti che sostengono costi tra loro similari favoriscono la collusione e la monopolizzazione, portando a livelli di prezzo più elevati di quelli concorrenziali; viceversa caratteristiche opposte diminuiscono la possibilità di creare e mantenere comportamenti collusivi ovvero di detenere posizioni dominanti.
216J. M. Clark, Towards a concept of workable competition, in American Economic Review, 30, 1940, p. 241ss.
L’analisi del mercato a fini antitrust viene così formalizzata sulla base del noto paradigma S-C-P (Structure-Conduct-Performance): i citati elementi strutturali di un mercato, attraverso la loro influenza sulla condotta (politiche di prezzo, investimenti, ecc.) determinano la performance del mercato stesso, che a loro volta si traduce nel risultato (Performance) in termini di output e prezzo. La struttura di mercato costituisce quindi la leva principale su cui agire per ottenere i risultati di efficienza tipici dei mercati concorrenziali.
Nell’ottica strutturalista la concorrenza, nei limiti della sua workability, deve essere garantita sempre e comunque in modo che le condizioni di mercato minime, necessarie per il raggiungimento dell’ottimo economico relativo siano soddisfatte. Conseguentemente la politica antitrust deve essere tesa a favorire il più possibile l’esistenza e la permanenza di strutture di mercato caratterizzate da un elevato numero di attori, ostacolando le pratiche di monopolizzazione e la creazione di barriere all’entrata, smembrando se necessario le imprese esistenti, qualora esse costituissero la prima causa di strutture di mercato eccessivamente concentrate. Ciò, a sua volta, implica perseguire “un’interazione senza vincoli delle forze concorrenziali” in quanto in grado di generare sempre “la migliore allocazione delle risorse economiche, i prezzi più bassi e il massimo sviluppo economico, allo stesso tempo assicurando un ambiente favorevole alla tutela delle istituzioni politiche e sociali”218
L’implicazione di tale impostazione consiste nella valutazione negativa del potere di mercato in quanto tale, che porta a ritenere alcuni accordi e pratiche pericolose di per sé (per se rule) poiché, a prescindere dal loro effetto concreto, è il loro intento ad essere inevitabilmente anticoncorrenziale; essi pertanto devono essere considerati illeciti, a prescindere dai loro effetti legati alla fattispecie concreta presa in esame. In un’ottica di monopolizzazione la condanna per se può riguardare fenomeni di gigantismo aziendale e di concentrazione tra imprese detenenti entrambe elevate quote di mercato, sanzionabili in quanto tali. Per quanto riguarda gli accordi vietati, lo sono per se, ad esempio quelli aventi per oggetto la fissazione di prezzi comuni, la fissazione dei prezzi di rivendita e la limitazione della quantità prodotta.
Nonostante il riconoscimento del valore dell’efficienza, di tipo allocativo, come uno dei principali obiettivi dell’applicazione del diritto antitrust, l’approccio Harvardiano include anche obiettivi di tipo non economico, tra cui la prescrizione di regole di condotta per una fair competition e la limitazione alla crescita dimensionale delle imprese al fine di mantenere un elevato numero di operatori sul mercato219. Il concetto di fair competition peraltro può assumere più significati: può voler dire un trattamento similare per le imprese nelle medesime circostanze ovvero limitare l’uso (e l’abuso) del potere di mercato da parte delle imprese in posizione dominante in modo che esse conseguano profitti non eccessivi. L’attuazione concreta dell’approcco harvardiano ha sposato la seconda interpretazione portando i giudici a focalizzarsi sul contenimento del potere delle grandi imprese.
L’influenza dell’approccio Harvardiano in sede applicativa è stata significativa negli Stati Uniti come in Europa. Negli Stati Uniti tale influsso è stato dominante in particolare negli anni ’50 e ’60 e fino ai primi anni ’70. La decisione
International Salt (1947) stabilì uno standard di proibizione per se per le vendite
abbinate, ossia quelle situazioni in cui un produttore vende un dato bene (o servizio) solo se il consumatore ne acquista un altro (pratica abusiva c.d. di tying). Nel caso
Alcoa220 il “Circuit Court of Appeals” ritenne Alcoa colpevole della monopolizzazione del mercato dei lingotti di alluminio sebbene non vi fosse evidenza di propositi in tal senso, la prova essendo costituita dal fatto che l’impresa detenesse il 90% di mercato e intraprendesse azioni per aumentare la propria la capacità produttiva e quindi in prospettiva incrementando tale quota di mercato. Nel caso Brown Shoe221la Corte Suprema annullò una fusione che avrebbe conferito alle parti interessate una quota di mercato del 5% ed effetti verticali di chiusura del mercato inferiori al 2%, stabilendo che tra gli obiettivi della legislazione antitrust rientra anche la protezione delle piccole imprese, anche se ciò, occasionalmente, può dare luogo a maggiori costi e prezzi più elevati.
E’ altresì vero che gli organi giudicanti mancavano del background che permettesse loro di riconoscere l’esisitenza di guadagni di efficienza diversi derivanti
219C. Kaysen and D. F. Turner, Antitrust policy, an economic and legal analysis, Boston, 1959. 220United States v. Aluminium Co. of America, 148, F 2d 416, 1945
da fusioni e integrazioni dalle economie di scala222: la capacità di generare economie di rete (network effects) o di densità, ovvero la capacità di risolvere i problemi informativi dei tying arrangements, non venivano infatti prese in considerazione dale corti: le pratiche di tying, ad esempio venivano condannati per se in quanto “difficilmente hanno uno scopo diverso da quello dell’eliminazione della concorrenza”223; in altri casi le potenziali ragioni di efficienza alla base degli accordi di distribuzione esclusiva su determinati territori non venne preso in considerazione224.
3.5 La concorrenza come processo dinamico: la teoria evoluzionista e la “Scuola