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P ROGRAMMI DI RIQUALIFICAZIONE URBANA (PR I U)

3. I programmi complessi: la prima generazione

3.3 P ROGRAMMI DI RIQUALIFICAZIONE URBANA (PR I U)

I programmi di riqualificazione urbana ci avvicinano maggiormente alla rigenerazione urbana, se non altro perché si parla apertamente di riqualificazione.

Disposti con Decreto Ministeriale del 21/12/1994, colmano in parte il vuoto dei programmi di recupero urbano, andando a coinvolgere anche finalità e ambiti non residenziali.

Infatti, la differenza fondamentale tra Pru e PRiu sta nell’oggetto più ampio. Nella definizione che è data all’art. 2, si dice che “i programmi di

riqualificazione urbana si propongono di avviare il recupero edilizio e funzionale di ambiti urbani specificatamente identificati attraverso proposte unitarie che riguardano:

a) parti significative delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;

120 Si tratta del PRU di Via Artom a Torino e dei PRU di Venaria Reale, Grugliasco e Novi Ligure. L’iter amministrativo è iniziato nel 1995 ed è terminato quattro anni dopo a livello regionale. Considerando ad esempio il PRU di Torino, l’iter iniziato nel 1995 è proseguito significativamente fino al 2002. Così è riportato nella cronologia degli interventi: http://www.sistemapiemonte.it/eXoRisorse/dwd/servizi/Urban/cronologia_1.pdf

I PROGRAMMI COMPLESSI: LA PRIMA GENERAZIONE

b) interventi di edilizia non residenziale che contribuiscono al miglioramento della qualità della vita nell'ambito considerato;

c) interventi di edilizia residenziale che inneschino processi di riqualificazione fisica dell'ambito considerato.”

Come appare evidente, la norma non definisce la riqualificazione di per sé, ma utilizza una perifrasi, passando attraverso il recupero edilizio, che, è appena il caso di ricordare, rappresenta un concetto più ristretto rispetto al recupero urbano, che invece è oggetto del PRU.

Tralasciando il recupero edilizio di parti significative delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, la parte più interessante di questa norma (e più caratterizzante l’istituto) è quella relativa alle lettere b) e c).

Per quanto concerne la lettera b), si introducono interventi che hanno come oggetto l’edilizia non residenziale, con l’obiettivo - si badi - del miglioramento della qualità della vita in quell’ambito: ambito, si ribadisce, non residenziale. Già questa lettera introduce un nuovo tassello nell’ordinamento: la riqualificazione ha, tra i suoi obiettivi, quello del miglioramento della qualità della vita. Non era mai stato esplicitato in un testo di legge questo apparentemente banale ma in realtà decisivo elemento, che cioè l’urbanistica deve tendere al miglioramento della vita di chi abita lo spazio urbano.

Rilevante - ma non innovativo - è anche quanto precisato nella lettera c) a proposito della riqualificazione nelle aree residenziali. L’obiettivo è quello della riqualificazione fisica, così evidentemente distinguendo la riqualificazione urbana dalla riqualificazione fisica, cioè (quanto meno) non urbana (cfr. supra,

cap 1, par. 6.4).

Il senso della riqualificazione urbana si compendia nel termine “interventi”. Interventi sulle aree non residenziali per migliorare la qualità della vita, e interventi sulle aree residenziali per avviare la riqualificazione fisica di esse. L’intervento, però, coinvolge la materia urbanistica ed è, quindi, un intervento urbanistico. Infatti l’art. 4 del decreto, rubricato “ambiti di

intervento”, descrive appunto la procedura attraverso la quale il Comune è chiamato a intervenire.

La prima operazione che il Comune è chiamato a fare è frutto di una imperitura esigenza preliminare dell’urbanistica italiana: la delimitazione dell’ambito di intervento. Come un chirurgo scopre solo la zona da operare e la disinfetta, così l’urbanista non può fare a meno di isolare la zona che sarà cambiata dal resto della città che invece non cambierà.

Il decreto offre numerosi esempi di declinazione del concetto di “degrado” e per ciascuno offre una esemplificazione concreta.

Degrado edilizio: ossia, fatiscenza degli edifici.

Degrado urbanistico: ossia carenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e dei servizi pubblici.

Degrado ambientale: ossia fatiscenza di spazi pubblici, arredo urbano e aree verdi.

Degrado economico: ossia impianti produttivi dismessi, carenza di attività produttive, artigianali, commerciali, di servizio, gravi problemi occupazionali.

Degrado sociale: emarginazione delle periferie.

Degrado edilizio, urbanistico, ambientale, economico e sociale sono quindi tuti esempi di degrado la cui ampiezza e consistenza deve essere valutata e servire appunto a quell’opera preliminare che è la delimitazione dell’ambito.

Oltre al degrado, contribuiscono a determinare l’ampiezza dell’ambito territoriale oggetto del programma anche altri due fattori.

Il primo è il raggio di influenza delle urbanizzazioni primarie e secondarie oggetto del programma. Ossia si chiede di tener conto delle opere di urbanizzazione previste e di quali zone, degradate o meno, siano interessate da esse. Questo perché un programma potrebbe così includere anche zone che non hanno un degrado urbanistico, ma che, per evidenti ragioni di sviluppo integrato delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, è preferibile includere nell’ambito di operazione.

I PROGRAMMI COMPLESSI: LA PRIMA GENERAZIONE

Infine, rileva anche il ruolo strategico del programma rispetto al contesto urbano e metropolitano: un programma infatti può essere più o meno importante, più o meno marginale nella strategia complessiva di intervento, e - anche - in base a questo si può ampliare, o restringere, l’ambito di intervento.

Benché il rinvio alla necessaria delimitazione dell’area sembri - e sia - un ennesimo ritorno al tradizionale modo di fare urbanistica, non bisogna sottovalutare il fatto che le aree vengono delimitate non seguendo la classificazione tradizionale in zone. Le aree sono infatti delimitate in base a elementi di significato, di scopo, ma non di tipologia. Nonostante ciò, il decreto sente l’esigenza di tradurre tutto questo sul piano urbanistico tradizionale, ossia alla suddivisione tra aree edificate ed aree edificabili o non edificabili.

Riguardo a questo, il decreto chiarisce che il programma si riferisce in prima battuta alle aree edificate in tutto in parte, aprendo tuttavia anche ad “interventi esterni a tali zone” (art. 4, comma 2). Non avendo parlato di aree edificabili/non edificabili, lascia aperto il dubbio se si riferisca, con “zone esterne”, ad aree edificabili ma non edificate oppure aree attualmente non edificabili121.

Fin qui gli obiettivi. Il decreto però definisce anche e più compiutamente quelli che sono gli strumenti in mano al Comune, ovverosia le singole azioni di cui il programma può essere composto, i framework di questo algoritmo.

Si parla di acquisizione di beni immobili da destinare a urbanizzazione primaria o secondaria e il completamento delle suddette opere di urbanizzazione; interventi più spiccatamente edilizi, come il risanamento di parti comuni di edifici a scopo residenziale, manutenzione ordinaria e straordinaria, realizzazione o ampliamento di fabbricati residenziali; ed infine, la ristrutturazione urbanistica. Come si vede, non è una panoplia particolarmente ricca né innovativa. In particolare, manca totalmente uno strumentario

121Così testualmente il comma 2 dell’art. 4: «L’ambito di intervento, in relazione alla finalità della legge,

ricade all'interno di zone in tutto o in parte già edificate. Non può peraltro escludersi la possibilità che il programma di riqualificazione richieda interventi esterni a tali zone. In tal caso deve già esistere una connessione funzionale che giustifichi l'unitarietà della proposta ovvero tale connessione, nella sua interezza, è oggetto del programma stesso.»

amministrativo adeguato: cosa chiaramente inevitabile, trattandosi di norma non primaria. Purtuttavia, una esemplificazione dei poteri che il Comune può attivare in materia sarebbe stato auspicabile.

Il programma di riqualificazione urbana descritto dal decreto del 1994 è però estremamente attento alla fase di realizzazione di questi programmi. Si cura infatti non solo di citare le fonti di possibile finanziamento, ma anche e soprattutto di descrivere come possono avvenire i contatti con i privati, intendendo sia i privati proponenti il programma, sia i privati incaricati di realizzare i lavori necessari.

I proponenti privati devono essere necessariamente proprietari degli immobili interessati dal programma, oppure mandatari da parte degli stessi, o, infine, enti pubblici terzi interessati ad ottenere la proprietà di quegli stessi immobili.

Invece i privati incaricati dei lavori possono essere tali tramite appalto con gara pubblica che tramite concessione di lavori pubblici (non va dimenticato che vigeva all’epoca un’altra normativa quanto ai contratti pubblici) che tramite convenzione, nel caso di opere con il finanziamento pubblico inferiore al 50% del costo

dell'intervento ovvero di opere pubbliche realizzate esclusivamente con risorse private. È anche

possibile la convenzione nel caso ci si limiti a parlare delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria realizzate a scomputo degli oneri previsti: nulla di più di quanto già prevede la legge n.10/1977.

La procedura si svolge attraverso la trasmissione, da parte dei comuni, al Segretariato del CER, il quale seleziona le proposte da approvare al finanziamento (art. 12).

3.4 I PROGRAMMI DI RIQUALIFICAZIONE URBANA E SVILUPPO