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Pala d’Oro (Fig 15) PROVENIENZA: Costantinopol

MATERIALE: oro, argento, smalti cloisonné, gemme, perle STATO DI CONSERVAZIONE:

DATAZIONE: 976 prima menzione sui documenti

BIBLIOGRAFIA: Sugli smalti si veda: J. Schülz, Der byzantinische Zellenschmelz, Francoforte s.M. 1890, Kondakov, Histoire et monuments des émaux bizantins, Francoforte s.M., 1892, W. Burger, Abendländische Schmelzarbeiten, Berlino 1930, J. Rauch, Die Limburger Staurotek, Das Münster, 8, 1955, pp. 201-18, J. Beckwith, The Art of Costantinople, Londra 1961, D.T. Rice, Art of the Byzantine Era, Londra 1962.

Sulla Pala d’Oro: Pasini 1885-86 (Veludo, La Pala d’Oro, p.141 e ss., Ebersolt, Les Arts

somptuaires de Byzance, Parigi 1923, p. 94, Bucher, Die Zellenschmelze der Pala d’Oro zu S. Marco in Venedig, Eine Studie zue Geschichte dieses Kunstwerkes auf technischer Grundlage,

Breslavia 1933, Bettini, La Pala d’Oro, “Illustrazione Vaticana”, VIII, 1937, p. 1077 e ss., Pallucchini, La pittura veneziana del Trecento, Venezia-Roma 1964, p. 69 e ss., Demus, The

Church of San Marco in Venice, “Dumbarton Oaks Studies”,6, 1960, pp. 23, 27, 52, 75, 139,

Hahnloser 1965, La Pala d’oro, vol. I in Il Tesoro di San Marco, opera diretta da H. R. Hahnloser (Testi di Volbach, Petrusi, Bischoff e Hahnloser), Bettini 1986, Venezia, la Pala

d’Oro e Costantinopoli in Il Tesoro di San Marco, Polacco 1991, La Pala d’Oro in San Marco: la Basilica d’Oro, Polacco, Considerazioni e osservazioni sulla Pala d’Oro di San Marco,

estratto da Studi in memoria di Giuseppe Bovini, II, Lorenzoni, La Pala d’Oro di San Marco, Taburet-Delahaye, Gli arricchimenti apportati alla Pala d’Oro nel 1342-1345 e le oreficerie di

confronto e Polacco, La Pala d’Oro di San Marco dalla sua edizione bizantina a quella gotica,

in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi, a cura di R. Polacco, 1997, Polacco 2001, pp. 300-303, D. Valenti, Le immagini multiple dell’altare: dagli antependium ai polittici. Tipologie compositive dall’Alto Medioevo all’età gotica, Padova, Il Poligrafo, 2012.

La Pala d’Oro è l’opera maggiore del tesoro di San Marco e consiste in un grande paliotto d’altare in oro, argento, smalti e gioelli187.

Vennero individuate quattro fasi per la formazione di questa preziosa pala d’altare. Una

prima menzione nei documenti188 risale al dogado di Pietro I Orseolo (976-978), che

ordinò l’esecuzione a proprie spese189 di un primo antependium d’argento, di

dimensioni minori rispetto a quelle attuali, a Costantinopoli nel 976190. Stando alle descrizioni sembra si tratti di lastre d’argento dorato simili alle più tarde pale di                                                                                                                          

187  Perocco,  1986,  p.  4  

188  Ioh.  Diac.,  Chron.,  p.  143,  1-­‐2  (ed.  G.  Monticolo,  in  FSI,  Cronache  veneziane  antichissime,  I,  Roma   1890.  

189  “De  suis  quidem  facultatibus”,  Joannis  Diaconi  Chronicon  venetum,  a  cura  di  G.H.  Pertz,  Hannover   1846  

Torcello e di Caorle191. Sebbene non si parli esplicitamente di smalti, Bettini192 avanza l’ipotesi che una piccola parte degli smalti attuali possa aver fatto parte di questa prima

pala d’oro, ipotesi respinta dal Volbach193.

La seconda fase di formazione risale al 1105, quando il doge Ordelaffo Falier fece rinnovare completamente la tavola, facendola eseguire interamente in oro e arricchire di

pietre preziose e smalti194. Ciò riguarda la parte inferiore della tavola, come dimostrano

i ritratti a smalto del doge e dell’imperatrice Irene. Tali smalti sono certamente di fattura

bizantina, come conferma Andrea Dandolo 195 , ma anche artigiani veneziani

collaborarono all’inserimento di alcune aggiunte.

Durante il dogado di Pietro Ziani (1205-1229), la pala fu ulteriormente ampliata e dotata della parte superiore, che pervenne assieme al bottino della quarta crociata. Bettini ritiene che fu in questa occasione che la pala ricevette la maggior parte dei grandi smalti oggi visibili. La notizia del rinnovo del 1209 è narrata dalla Cronaca di Andrea Dandolo, il quale riporta che il Procuratore Angelo Falier “tabulam altaris

Sancti Marci, addis gemis et perlis, Ducis iussu, reparavit”196. Volbach, Bettini e

Veludo197 concordano tutti con la testimonianza dello Sguropulos198, il quale riporta che

nel 1438 il patriarca di Costantinopoli Giuseppe giunse a Venezia assieme all’imperatore Giovanni Paleologo e visitando San Marco riconobbe che quegli smalti derivavano dalla chiesa del Pantocrator di Costantinopoli, oggi distrutta.

L’ultima fase di completamento della Pala d’Oro avvenne nel 1345 sotto il doge Andrea Dandolo, quando essa acquistò le sembianze attuali. In questa circostanza si montò tutta

l’impalcatura gotica, si incastonarono gemme e pietre preziose e si aggiunsero smalti199.

Tale operazione riuscì a rendere un perfetto connubio fra gli smalti bizantini e

l’intelaiatura, capolavoro dell’oreficeria gotica200. Il retro della tavola è firmato

dall’orefice esecutore veneziano Bonensegna, che riporta anche la data del restauro:                                                                                                                          

191  Volbach,  1971,  p.  3   192  Bettini,  1986,  p.  47   193  Volbach,  1971,  p.  3   194  Bettini,  1986,  p.  47  

195  “Tabulam   auream   gemis   et   perlis   mirifice   Constantinopolim   fabricatam…   super   eius   altare  

deposuit”,  Andr.  Dand.,  Chron.,  p.  225,  10-­‐12  (ed.  E.  Pastorello,  in  RIS,  XII,  1,  Bologna  1938-­‐1958)  

196  Andr.  Dand.,  Chron.,  p.  284,  26-­‐27,  ed.cit.    

197  Veludo  in  A.  Pasini,  Il  Tesoro  di  San  Marco  in  Venezia,  Venezia  1885-­‐86,  p.  152  

198  Historia  Concilii  Florentini  graeca  scripta  per  Sylverstrum  Sgruropulum  (Transtulit  in  sermonem  

latinum  Robertus  Creygton),  L’Aia  1660,  p.  87  

199  Bettini,  1986,  p.  52   200  Polacco,  1991b,  p.  155  

1342201. Tuttavia Hahnloser202 è del parere che il lavoro di quest’orafo si limiti alla parte superiore della Pala e che accanto a lui lavorò un altro maestro, che si occupò della parte inferiore seguendo uno stile più moderno. Bettini ritiene che in occasione di questo restauro delle placchette smaltate vennero cambiate di posto secondo un gusto che si avvicinava più all’iconografia occidentale che bizantina, integrando inoltre qualche placchetta di smalto di coeva fattura veneziana. L’ultimo restauro fu eseguito nel 1836-47 da Lorenzo e Pietro Favro e portò all’aggiunta di pietre preziose ma non di smalti; venne poi saldamente fissata la parte superiore della pala con quella inferiore, che inizialmente si ripiegava su quella sottostante, dal momento che la Pala d’Oro era esposta solo in occasione di eventi importanti, e di solito era coperta dalla Pala Feriale di Paolo Veneziano203.

Il programma iconografico della Pala d’Oro si rifà alla Città Celeste e si ricollega al significato dato alla luce intesa come elevazione verso Dio, secondo l’ideologia dell’abate Sugerio di Saint-Denis nella prima metà del XII secolo. Anche la sua struttura nasce da questo presupposto: non solo la luce si riflette su smalti e gemme in suggestivi bagliori colorati, ma anche le edicole in cui sono inserite le placchette smaltate, essendo tutte appuntite, suggeriscono dei messaggi di elevazione. Gli smalti stessi contribuiscono ad accentuare notevolmente l’effetto luminoso finale poiché ricevono luce dal metallo retrostante. È la luce l’elemento di unione tra gli smalti bizantini e il telaio gotico della Pala fatto di oro e gemme, il quale contribuisce a

rendere armonico e coerente l’effetto finale204.

Bettini parla di quattro momenti nella cronologia degli smalti che ornano la Pala D’Oro: fine X secolo (i trentotto medaglioncini di smalti minori disseminati intorno alla cornice, da lui ritenuti di fattura bizantina), inizio XII secolo (gli smalti con gli Evangelisti e quelli dibattuti con il doge Ordelaffo e l’imperatrice Irene, di fattura bizantina e veneto-bizantina), ultimi decenni del XII secolo (smalti bizantini pervenuti a Venezia con la IV crociata: le Feste del battente superiore, l’arcangelo Michele, il Pantocrator, gli angeli, gli apostoli e i profeti) e XIV secolo (i rifacimenti e gli adattamenti veneziani che questi ultimi smalti hanno subito una volta aggiunti alla                                                                                                                          

201  Volbach,  1965,  p.  4   202  Hahnloser,  1965,  p.  89   203  Bettini,  1986,  p.  52   204  Polacco,  1991b,  p.  151  

Pala)205. Secondo Demus invece, le fasi sono: X secolo, inizi del XII secolo e inizi del XIII secolo206, partizione offerta anche dagli scritti cronachistici207. Il programma iconografico di detti smalti vede al centro del battente superiore l’arcangelo Michele e due Cherubini entro un medaglione quadrilobo, con ai lati rappresentate in sei formelle le grandi feste della Chiesa, tre per parte. Partendo da sinistra vediamo raffigurate, dentro a delle placchette centinate accompagnate da iscrizione: l’Entrata a Gerusalemme, la Discesa al Limbo, la Crocifissione, l’Ascensione, la Pentecoste e la Dormitio Virginis. Durante un restauro furono scambiate di posto le placchette con la Crocifissione e la Discesa al Limbo208. Sul fondo di queste raffigurazioni si trovano altri smalti minori inseriti in tondi. Il battente inferiore rappresenta al centro la figura del Pantocrator in trono affiancato dai quattro evangelisti dentro un clipeo, sopra al Cristo v’è il trono dell’Etimasia affiancato da un tetramorfo e da un angelo per parte; sotto, in corrispondenza di Cristo, si trova la Vergine orante accompagnata dagli smalti

di Ordelaffo Falier a sinistra e da Irene Dukas a destra209. Accanto a essi si trovano due

tavole dorate con iscrizioni in maiuscole gotiche, databili intorno alla metà del XIV secolo, che furono aggiunte presumibilmente in occasione del restauro del 1345. Volbach ha ipotizzato che occupassero il posto dei precedenti ritratti di Giovanni

Comneno e dell’originario doge Ordelaffo Falier210. Tali placchette riassumono la storia

della Pala stessa211. A proposito degli smalti di questi personaggi, gli studiosi hanno proposto varie ipotesi, dovute al fatto che lo smalto del doge appare rimaneggiato, se non del tutto rifatto212. Polacco ritiene che l’unica opinione accettabile sia quella che prevede un rifacimento del trittico originario, composto da Vergine orante, Irene a destra e Alessio I Comneno a sinistra: “non solo è visibile la sostituzione della testa del

basileus con quella del doge veneziano, ma è pure evidente da una serie di graffi sulla

superficie aurea l’eliminazione del nome del sovrano bizantino e la conseguente

sovrapposizione di quello di Ordelaffo Falier”213. La datazione da lui proposta per

                                                                                                                          205  Bettini,  1986,  p.  52   206  Demus,  1960,  p.  24   207  Bettini,  1986,  p.  52   208  Volbach,  1971,  p.  42   209  Bettini,  1986,  p.  52   210  Volbach,  1971,  p.  10   211  Polacco,  1991b,  p.  155   212  Bettini,  1986,  p.  56   213  Polacco,  1991b,  p.  156  

questi smalti è fine XI secolo-inizio XII secolo per iconografia ed elementi paleografici,

e la raffinata esecuzione è probabilmente opera di un atelier orientale214.

Volbach nota delle affinità stilistiche fra gli smalti del Pantocrator e dell’imperatrice Irene con l’Etimasia e i Cherubini e con le figure della Vergine, degli Arcangeli e degli Apostoli. Ritiene il Pantocrator di sicura attribuzione bizantina, mentre fa notare la differenza con gli smalti degli Evangelisti, i quali “hanno colori più stridenti, filetti più

spessi e furono eseguiti forse da un aiuto veneziano”215, opinione condivisa da Bettini

ma non da Polacco216. Il programma iconografico del battente inferiore della Pala, a esclusione di questo nucleo centrale, vede tre file sovrapposte di smalti, disposti sei per ogni parte della scena al centro, dove ogni personaggio è racchiuso entro un’arcatella cuspidata, il tutto incorniciato per tre lati da altre placchette istoriate. La prima fila rappresenta gli Arcangeli, la “milizia celeste”, i quali avanzano verso l’Etimasia e guardano verso il Cristo. Essi si inchinano sempre di più all’avvicinarsi alla scena centrale. Le iscrizioni che accompagnano gli arcangeli, in greco, chiariscono soltanto i nomi dei quattro arcangeli principali vicini al Pantocrator: Michele, Gabriele, Euriele e Raffaele217. Gli altri sono affiancati dalla semplice iscrizione “l’arcangelo”218. La fila mediana rappresenta i dodici Apostoli, tutti raffigurati nella medesima posa che guardano verso il Pantocrator. Portano la mano destra sul petto e con la sinistra reggono

un libro (eccetto Pietro che regge un rotulo)219. La loro tunica, il mantello e il volto sono

raffigurati secondo l’iconografia propria dell’arte comnena220, che rappresentò uno dei

punti stilisticamente più alti della storia dell’arte bizantina, in particolare durante il

regno di Manuele I Comneno (1143-80)221. Tale raffinatezza è caratterizzata da smalti

dai cloisons estremamente sottili e da uno strato di impasto che vede uno spessore

minimo, che consente di ottenere effetti di trasparenza222. Le iscrizioni che affiancano

gli apostoli specificano solamente S. Pietro, S. Paolo, S. Simone e S. Andrea. La fila inferiore rappresenta i Profeti, in posizione frontale, accompagnati da iscrizioni greche e latine che identificano, a partire da sinistra: Isaia, Nahum, Geremia, Daniele, Mosè,                                                                                                                           214  Polacco,  1991b,  p.  156   215  Volbach,  1965,  p.  12   216  Polacco,  1991b,  p.  158   217  Volbach,  1971,  p.  17   218  Pertusi,  1971,  pp.  75-­‐77   219  Volbach,  1971,  pp.  18-­‐19   220  Polacco,  1991b,  p.  158   221  Bettini,  1986,  p.  62   222  Ibid.,  p.  46  

Ezechiele, e dall’altra parte Davide, Elia, Zaccaria, Abacuc, Malachia e Salomone223. Ventisette pannelli incorniciano questi personaggi e rappresentano scene evangeliche ed episodi della vita di San Marco224. Le undici placchette centrali della fila superiore rappresentano le grandi feste della Chiesa e scene della vita di Gesù, precedute da sei santi diaconi, tre per parte (da sinistra: S. Lorenzo, S. Eleuterio e S. Vincenzo, dall’altra parte S. Pietro Alessandrino, S. Stefano e S. Fortunato). Esse sono: Annunciazione, Natività, Presentazione al Tempio, Battesimo di Cristo, Ultima Cena, Discesa al Limbo, le Pie donne al sepolcro, Incredulità di Tommaso, Ascensione e Pentecoste; sono riordinate nel testo secondo il Vangelo e sono accompagnate da iscrizioni in esametri in caratteri bianchi su fondo blu collocate nel bordo superiore. Lo stile di questi smalti è quello di un artista veneziano225. Le restanti dieci placchette si trovano in ordine verticale, cinque per parte, e narrano episodi della vita di San Marco, anche se ora non sono più nella loro posizione originale. Stilisticamente questi smalti sono affini a quelli delle placchette narranti le scene cristologiche e i santi diaconi e sono ritenuti di fattura veneziana226.

Le scene rappresentate, a cominciare dall’alto a sinistra, sono: San Marco battezza Sant’Aniano, distruzione di un idolo, Guarigione di Sant’Aniano, San Marco presenta Sant’Ermagora a San Pietro e San Pietro conferisce la dignità vescovile a San Marco; a destra, sempre a partire dall’alto: apparizione di Cristo a San Marco, San Marco è trascinato in carcere, trafugamento del corpo di San Marco ad Alessandria, traslazione

del corpo di San Marco a Venezia e trasporto del corpo di San Marco nella Basilica227.

La Pala d’Oro è poi racchiusa dentro una cornice, all’interno della quale sono disseminati moltissimi altri tondi a smalto con dentro delle figure. Essi risalgono a

epoche diverse, ma sembrano avere tutti provenienza bizantina228.

Ad incorniciare le scene o ad accompagnare i personaggi si trovano iscrizioni sia greche che latine, a testimonianza del fatto che la Pala d’Oro è stata prodotta a Costantinopoli, in cui il latino non era in uso da secoli229. Di fatto, le epigrafi latine collocate nelle formelle cristologiche e negli episodi della vita di San Marco sono ritenute di mano                                                                                                                           223  Volbach,  1971,  p.  20   224  Bettini,  1986,  p.  52   225  Volbach,  1971,  p.  26   226  Ibid.,  pp.  32-­‐33   227  Volbach,  1971,  pp.  33-­‐37   228  Ibid.,  p.  44   229  Polacco,  1991b,  p.  159  

greca per l’irregolarità del tratto e l’incertezza esecutiva230. La Pala d’Oro stessa riunisce in sé smalti bizantini, orientali, in un’intelaiatura gotica, prodotto dell’arte occidentale, e nonostante questo connubio di gusti artistici divergenti, l’opera d’arte

finale risulta omogenea e armoniosa231.

                                                                                                                          230  Bischoff,  1971,  p.  78  

2.3. Sezione occidentale

L’oreficeria occidentale ebbe modo di svilupparsi a Venezia grazie al fatto che qui giunsero molte delle ricchezze provenienti dalla capitale d’Oriente dopo il sacco di Costantinopoli, ricchezze che vennero integrate poi al tesoro marciano. Gli inventari del tesoro di San Marco indicano che dopo l’incendio del 1231, il quale bruciò moltissimi oggetti del tesoro, la raccolta si ampliò notevolmente, in particolare tra XIII e XIV secolo. Per necessità di restauro o conservazione, si recuperarono molti vasi bizantini

tramite l’aggiunta di montature elaborate proprio a Venezia232, e fu ciò che diede

sviluppo alle botteghe orafe veneziane. Nel XIII secolo in particolare, gli artigiani veneziani si specializzarono nella tecnica delle montature in filigrana. Si tratta di una raffinata tecnica di oreficeria che consiste nell’elaborazione di fili metallici che, lavorati singolarmente o riuniti in un fascio, vengono fissati alla base dell’oggetto, componendo

una trama233. La filigrana occidentale ha raggiunto nel corso dei secoli una grande

varietà di forme, ma nei documenti e negli inventari dei principi europei234 fino al XIV

secolo essa veniva sempre indicata come opus veneciarum, opus veneticum o venetum

ad filum o ancora de opere venetico ad filum, espressioni che stanno tutte a significare

“opera veneziana”, a dimostrazione del primato che gli artigiani veneziani avevano raggiunto nella lavorazione di tale tecnica235. La sua nascita tuttavia ha altre radici: l’opus venetum ad filum non è di origini veneziane, bensì si tratta in realtà di una perfetta imitazione della filigrana renano-mosana. Inoltre, intorno al 1300 si svilupperà a Venezia un altro artigianato di lusso, sempre ispirato ad un’industria renano-mosana: quello dell’intaglio del cristallo. Entrambe queste attività artigianali fanno di Venezia la città fornitrice degli oggetti in cristallo e metalli preziosi236. L’emancipazione degli artigiani veneziani si deduce anche dalla lettura dei “Capitolari”, ossia la raccolta delle

                                                                                                                          232  Wixon,  1986,  p.  239  

233  Gaborit-­‐Chopin,  1986,  p.  241  

234  L’inventario   del   tesoro   della   Santa   Sede   sotto   Bonifacio   VIII   del   1295   parla   di   alcuni   pezzi   de  

opere  venetico;  l’inventario  del  1296  di  Carlo  II  d’Angiò  descrive  un  reliquiario  e  due  candelabri  in   cristallo  di  rocca  e  argento  dorato  della  cattedrale  di  S.  Nicola  di  Bari  de  opere  veneciarum.  Anche  gli   inventari   della   Santa   Sede   redatti   sotto   Clemente   V   sembrano   riprendere   alcune   espressioni   dell’inventario   di   Bonifacio   VIII,   ma   non   si   cita   mai   esplicitamente   l’attributo   veneticum.  Gaborit-­‐ Chopin,  1986,  p.  241  

235  Gaborit-­‐Chopin,  1986,  p.  241   236  Hahnloser,  1971,  p.  131  

leggi che regolano le attività orafe della città, di cui il primo risale al 1233; nonché dalla

successiva creazione di una prima corporazione di Cristallai nel 1283237.

L’origine dell’arte orafa a Venezia non ha quindi esclusivamente origini bizantine: anche la Pala d’Oro si può dire che venne sì lavorata a Bisanzio, ma seguendo un programma occidentale: oltre al fatto che a Costantinopoli l’antependium come oggetto di arredo d’altare era sconosciuto238, le sue iscrizioni passano dal greco ad un latino

incerto e talvolta scorretto, e infine si aggiungono formelle specificamente veneziane239,

narranti le storie di San Marco240.

Lo stile dei lavori in filigrana del tesoro marciano deriva dalla regione renano-mosana, in particolare a partire dal XIII secolo i veneziani ne copiano i modelli, dato che in queste regioni del nord costituivano una tecnica di oreficeria già caduta in disuso241. L’arte della lavorazione della filigrana comunque non fu un appannaggio esclusivo né veneziano, né delle regioni renano-mosane: anche gli orafi irlandesi di VII e VIII secolo hanno contribuito ad affermare questa tecnica. La “filigrana a palline” si trova in tutta l’arte occidentale tra XII e XIII secolo, e non era sconosciuta in Italia nelle regioni

meridionali e nelle botteghe toscane242. Pertanto sarebbe riduttivo affermare che la

produzione veneziana di questa tecnica ebbe influenza soltanto renano-mosana. Si può considerare la filigrana un’arte di oreficeria tra le più antiche: se ne trovano esempi

anche nell’arte popolare araba, oltre che nei Balcani e in Russia243. La si ritrova anche

in altre culture, dagli Etruschi ai Romani, da Bisanzio a Venezia fino al 1350 e si evolve poi con l’aggiunta di inserti a smalto (“smalto su fili”) dall’Adriatico all’Oriente. In età

barocca ritorna in area centro-europea sotto la forma di filigrana d’argento244.

                                                                                                                         

237  Hahnloser,  1956,  Scola  et  artes  cristellariorum,  p.  157  

238  “La   pala   dipinta   e   in   particolare   il   polittico   vanno   intesi   come   un   prodotto   europeo   e,   nello   specifico,  italiano”.  Valenti,  2012,  p.  221    

239  “Il   conservatorismo   veneziano   sviluppò   un   filone   autonomo   rispetto   alla   contemporanea   produzione   dei   polittici   lignei   dipinti,   su   ispirazione   del   modello   prestigioso   della   Pala   d’Oro   che   costituì  comunque  un  riferimento  anche  per  taluni  polittici  gotici  […].  Il  contesto  veneziano  si  rivela   anche  un  interessante  laboratorio  nel  dialogo  tra  la  forma  metallica  e  quella  dipinta,  ove  la  seconda   (pala  feriale)  è  la  coperta  della  prima  (pala  festiva).  Ibid.,  p.  104    

240  Hahnloser,  1971,  p.  133   241  Ibid.  

242  Gaborit-­‐Chopin,  1986,  pp.  242-­‐243   243  Hahnloser,  1971,  p.  134  

L’inventario di Bonifacio VIII del 1295245 distingue tre gradi di filigrana, Hahnloser ne distingue quattro, in base alla complessità raggiunta nella lavorazione dei fili metallici. Nel primo si parla di “semplice filigrana (a palla)”, “combinazione di filigrana con foglie e frutta” e di “combinazione di filigrana con rincei cesellati laboratum ad

bolinum”. Hahnloser246 distingue la “semplice filigrana a palline”, “laboratum ad filum

de opere Venetico”, tecnica che designa la lavorazione del filo di metallo in spirali e che

vede al centro di esse delle sferette che si creano normalmente nel processo di fusione del metallo (nel tesoro marciano questo tipo di filigrana si trova nei seguenti oggetti: anfora di vetro, piede del calice bizantino con smalti, ampolla di onice, navicella di vetro rubino e icona con lapislazzuli); “filigrana a foglie e fiori”, “laboratum de opere

Venetico “duplici” ad folia”, che vede inseriti, all’interno della trama filigranata, degli

elementi fitomorfici costituiti da mezze palmette, foglie o rosette (anfora in cristallo, inv. Tesoro n. 99); “filigrana con frutta”, “de opere ad vites et folia cum rosulis,

laborate per totum ad vites de filo elevato et rotas”, a cui alla filigrana del II grado sono

stati aggiunti dei frutti di metallo intrecciato, dalle sembianze di pigne o grappoli d’uva (icona di S. Michele, inv. Tesoro n. 46, vaso a boccia di cristallo, brocca di alabastro con manico); e infine il “lavoro a traforo con bestie e ornamenti vegetali, senza filo di