E qUALITà DI ACCUDImENTO Antonio Imbasciati, Francesca Dabrass
6.1. PERCEzIONE O EFFETTO SOmATICO DI UNA EmOzIONE?
Antonio Imbasciati, Francesca Dabrassi
Un esempio perspicuo di come l’area ostetrica sia stata arena per il dibattito sugli effetti delle cure materne e il delinearsi di una Psico- logia Clinica Perinatale quale ricerca per l’attuazione di un’assisten- za migliore per prevenire rischi di future psicopatologie e garantire al meglio lo sviluppo psichico e psicosomatico del bimbo, è sta- ta la questione dell’utilità o del disturbo che il dolore da parto reca alla madre nei confronti dell’accudimento primario che ella potrà avere per il neonato. Poiché la qualità dell’accudimento è matri- ce dello sviluppo del bambino e questo del futuro individuo, logi- co e di rilievo è interrogarsi se e come le vicende del parto possa- no condizionarli: dibattito particolare verte sull’esperienza dolorosa del parto e su come questa possa condizionare la puerpera nell’ac- cudimento del piccolo.
Da quando il parto è stato medicalizzato si è discusso su quan- to e quando e come alleviare il dolore della donna. Il dibattito può essere collocato lungo un continuum: a un estremo i sostenitori della «naturalità» del dolore e quindi dell’opportunità di non som- ministrare analgesici o comunque di limitarli, dall’altro estremo i sostenitori dell’utilità e quindi dell’opportunità di ogni pratica anal- gesica. In tale dibattito si è inserita la questione dell’epidurale e del cesareo, centro quest’ultimo di attenzione sociale, dato che l’Ita- lia è qui in testa a tutti i paesi europei come numero di cesarei (Im- basciati, Dabrassi, Cena 2007). In questo dibattito si mischiano pro- pensioni ideologiche: da un lato una tradizione che si appoggia alle camuffate trasformazioni del detto biblico «partorirai con do-
lore», nonché al fatto, reale, che alcune donne possono partorire con estrema facilità e con un dolore sopportabilissimo (soprattut- to in passato nelle nostre campagne e attualmente in paesi extra- europei), e che quindi il dolore nel parto è questione «psicologi- ca», come tale da molti ritenuta trascurabile e comunque creduta sopportabile da tutte le donne, visto che per alcune il dolore appa- re modesto, dall’altro una posizione scientista, medicalista a oltran- za, che si appoggia sul fatto, reale, che molte donne hanno com- plicanze ostetriche imputabili al dolore, spesso molto temuto, che scompiglia il loro adattamento all’evento e le stesse funzioni fisio- logiche.
Una base della dibattuta questione riguarda la valutazione, pos- sibilmente obiettiva, del dolore e la sua genesi psicofisiologica: è il dolore una percezione, in senso proprio, sensoriale, implicante un’obiettività misurabile in base allo stimolo, oppure esso è effetto elaborato soltanto a livello centrale (psichico) a seguito di un even- to neurale di natura emozionale?
Il dolore viene di solito considerato una percezione: si parla di nocicezione, come dispositivo naturale per difenderci da agenti le- sivi sul nostro corpo e si parla di «stimolo» doloroso, così come si considera stimolo per le altre percezioni l’evento fisico particolare che specificamente «stimola», cioè mette in attività, uno specifico apparato recettore. Abbiamo così stimoli luminosi per la retina, sti- moli sonori per la coclea, stimoli vestibolari (movimento e posizio- ne nello spazio) per il relativo apparato labirintico e ancora stimoli tattili, propriocettivi, motori, termici, olfattivi, gustativi. Il nostro or- ganismo possiede apparati recettori periferici specificamente strut- turati sì da raccogliere ognuno determinate variazioni fisico-chimi- che che «stimolano», cioè innescano nel recettore treni di impulsi neurali che verranno poi elaborati, per vie afferenti altrettanto spe- cifiche, a successive stazioni neurali, fino a giungere alla corteccia, dove si può verificare quella elaborazione che ci dà la percezione cosciente di quella specifica sensorialità. Per ogni tipo di percezio- ne la corrispondenza tra l’entità dello stimolo e l’effetto percetti- vo ha una minima variabilità interindividuale, cosicché di fronte a un disco rosso, e per un certo suono o rumore tutti lo sentono in modo pressoché uguale, o con minime variazioni interindividuali. Per alcune percezioni, come quella olfattiva e gustativa, la variabili- tà interindividuale aumenta. Per il dolore è massima.
Infatti lo stesso stimolo può provocare in alcune persone un do- lore lieve, sopportabile, per altri un dolore più intenso. Ciò è do-
vuto al fatto che, pur esistendo recettori periferici (fibre libere, di- spositivi spinali) considerati specifici, le stazioni neurali elaborative sono cospicue e soprattutto è maggiore l’elaborazione che le af- ferenze subiscono a livello centrale: questa avviene interessando soprattutto le zone cerebrali che altrimenti elaborano le emozioni. Ciò ha fatto sorgere l’interrogativo su quanto il dolore sia da consi- derarsi percezione, in senso stretto, e quanto coscienza percettiva (o similpercettiva) di emozione, o effetto somatico di una emozio- ne, con relativa percezione secondaria.
Questo interrogativo diventa pregnante quando il dolore per- cepito non riguarda la superficie del corpo, ma il suo interno, so- prattutto i visceri. Ancor più la domanda si presenta per il dolore da parto che, a seconda della donna e anche nella stessa donna a seconda delle circostanze, non solo ostetriche, ma affettivo-so- ciali-ambientali, può essere lievissimo (in qualche caso), o comun- que sopportabile, e in altre invece di grossa intensità. Alcuni auto- ri considerano pertanto il dolore nel parto come l’effetto somatico di un insieme di emozioni (De Benedittis 2000; Imbasciati, Dabras- si 2009, 2010a, b). In ogni caso la pregnanza del dolore nella mag- gioranza dei parti, nonché le sue possibili conseguenze, ostetriche e psichiche, ne ha imposto una valutazione.
Si dice che «si percepisce» dolore, e comunemente si attribui- sce tale percezione a uno qualche stimolo esterno, detto appun- to dolorifico. L’evento però non è semplice, come invece potreb- be essere per altre situazioni di percezione, per esempio visiva o auditiva. Come evento percettivo il dolore dovrebbe poter esse- re inquadrato nei dati che la ricerca psicologica sperimentale da tempo ci ha dato a conoscere nello studio di quell’evento menta- le elementare e primario chiamato percezione. La percettologia, tuttavia, se ha dato i risultati chiari e ormai concordi per gli innu- merevoli studi sulla percezione visiva, su quella auditiva e, in minor misura, su quella vestibolare e quella tattile-pressoria-propriocetti- va, su altre sensorialità ha lasciato, per ora, interrogativi: per esem- pio per quella olfattiva, quella gustativa e ancor più per quella do- lorifica. Questa, in quanto segnale biologico di pericolo, anche se solo previsto, desta allarme, e pertanto innesca un lavoro cerebrale di portata globale, cosicché oltre che parlare di percezione in sen- so stretto, occorre considerare quanto possiamo chiamare «va- lutazione cognitiva», sia quando una nocicezione sia in atto, sia quando sia prevista, o anche solo temuta. Tutto ciò significa coin- volgimento del cervello pressoché in toto, cosicché difficile è indi-
viduare una percezione «pura» anche quando si tratti di un’afferen- za di stimoli nocicettivi.
Sappiamo inoltre come un’elaborazione cerebrale possa dare origine a una percezione dolorosa somatica, anche localizza- ta, in assenza di qualunque stimolo, come per esempio nelle ma- nifestazioni ipocondriache. Un risultato similpercettivo si ha dun- que anche quando ci sono soltanto processi immaginativi, o anche processi comunque di tipo emotivo senza che vi sia coscienza di essi. L’ipocondriaco sente davvero dolore: e soltanto dolore e non consapevolezza di altri suoi processi mentali. Si potrebbe pertan- to rianimare, per il dolore, la diatriba che negli anni Sessanta con- trappose percettologi innatisti (gestaltisti) a percettologi empiri- sti (transazionalisti) circa la possibilità di separare una percezione «pura» da «processi associativi» dovuti all’esperienza (Musatti 1958; Kanisza 1961). Si può dunque affermare che non è possibile iso- lare una percezione dolorosa da altri concomitanti e convergen- ti processi di pensiero che la determinano. In realtà per qualunque percezione, anche per quelle più classicamente studiate, seppur in misura minore rispetto a quella del dolore, non è possibile isola- re una «percezione pura» da altri processi associati, o «associati- vi», cioè da altri processi mentali (Imbasciati 1986). La stessa perce- zione è un processo mentale a pieno titolo (Ancona 1970), recante comunque un significato che riflette l’esperienza. La percezione «pura» sarebbe un artefatto di laboratorio (Musatti 1964).
Se dunque tale indissolubilità tra pensiero e percezione viene considerata anche per percezioni, per esempio quelle visive, che appaiono dipendere solo dalla fisicità di quanto percepito e dalla struttura biologica dell’apparato recettore, cioè secondo un sem- plice schema stimolo-risposta, a maggior ragione tutto ciò dob- biamo considerare per il dolore. Anche nel senso comune è noto come il dolore sia percepito più o meno intensamente a secon- da della soggettività di un individuo. Il coinvolgimento delle strut- ture elaborative centrali sulle afferenze rende il risultato percetti- vo, quale compare nella coscienza, soggetto a innumerevoli fattori psichici globali, strutturali, relativi a tutto l’insieme degli stimoli cir- costanziali che in quel momento l’individuo riceve. Per le perce- zioni relative ai telerecettori classici (vista, udito), lo scarto tra pre- visione percettiva in base alla configurazione di stimoli e risultato percettivo nella coscienza del soggetto è minimo. Per altre perce- zioni sensoriali questo scarto aumenta, come per esempio nell’ol- fatto: massimamente dobbiamo dunque considerare questo scarto
per la percezione dolorifica. Ciò è appunto in relazione alla pro- gressivamente maggiore elaborazione centrale (dunque psichica) sulle afferenze. Ne consegue un’enorme difficoltà a misurare il do- lore con un grado di attendibilità pari o simile a quello che si può avere per altri eventi mentali.