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Piergiorgio Welby

1.5 Decisioni giurisprudenziali su alcuni casi celebri

1.5.1 Piergiorgio Welby

« Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita- è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più il mio… è lì squadernato davanti a medici, assistenti, parenti ». Questa citazione proviene dalla lettera

inviata da Welby al Presidente della Repubblica Napolitano ed è esemplificativa della sua condizione. Welby era, fin dalla giovanissima età, malato di una distrofia muscolare in forma progressiva la quale gli aveva, a poco a poco, impedito di compiere le più banali funzioni.

171 Tratto dal testo della sentenza Cass. sez. I, 11.15, n. 12928: « Le discussioni tuttora

esistenti sulla condivisibilità dell'eutanasia sono sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea; non ricorre, pertanto, la generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale, condizionante la qualificazione del motivo come di particolare valore morale e sociale ».

65 Welby non poteva più muoversi in autonomia, non poteva più respirare senza essere attaccato al ventilatore polmonare e, di conseguenza, non poteva più parlare. Stanco di questa vita, che a parer suo non poteva essere considerata tale, decise di agire giudizialmente per richiedere il distacco dalle cure: promosse un ricorso al giudice civile di Roma richiedendo un provvedimento cautelare atipico (700 c.p.c) che ordinasse al personale sanitario il distacco dal respiratore con contestuale sedazione profonda. Il tribunale romano172 si pronunciò

riconoscendo l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione del paziente circa la possibilità del distacco di cure, ma contestualmente negò che si potesse rinvenire un obbligo per il personale sanitario di tenere tale condotta. In particolare, venne sostenuto che l’assenza di una previsione normativa puntuale, la quale tipizzasse la possibilità di concretizzare in atto il volere dei pazienti richiedenti il distacco di cure, impedisse che potesse essere fornita alcuna tutela tipica per l’azione cautelare promossa da Welby. Detto in altre parole: pur riconoscendo l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione in ambito sanitario scaturente dal dettato costituzionale ex art. 32, II comma Cost., esso non poteva considerarsi come tutelato dall’ordinamento, essendo assente una specifica disciplina a cui fare riferimento. In sostanza, venne riconosciuto il fondamento della pretesa; essa, tuttavia, configurava quale un diritto non azionabile, precludendo al richiedente la possibilità di concretizzare quanto da lui richiesto.

Dato questo esito giudiziale, Welby decise di realizzare la sua volontà in autonomia, senza autorizzazione da parte dello stato, e per questo prese contatti con un medico (Mario Riccio); egli acconsentì ad aiutarlo, sedandolo profondamente (di modo da non accorgersi di niente) e staccando il respiratore che lo teneva in vita173. A questo punto, si aprì

172 Trib. Roma, sez. I civile, ordinanza 16 dicembre 2006 , in Giurisprudenza di Merito,

2007, p. 996

173 Cappato M., Credere disobbedire combattere, Milano 2017, p. 31, si legge una

66 la vicenda giudiziaria che portò ad un più consistente riconoscimento del diritto di rifiutare le cure, anche salvavita: l’anestetista venne indagato dalla procura di Roma per omicidio del consenziente ex articolo 579 c.p., a seguito venne chiesta l’archiviazione della notizia di reato, ma il GIP impose l’imputazione coatta, ritenendo integrato il fatto tipico del reato in questione; in particolare il Giudice per le Indagini Preliminari riteneva che il diritto sancito dall’articolo 32, II Cost. dovesse soccombere di fronte al bene vita, da ritenersi sacro, inviolabile e indisponibile.

Diversamente il GUP assolse l’imputato174, pronunciando sentenza di non luogo a procede, in quanto riconobbe che dall’articolo 32, II Cost. derivasse un diritto di rifiutare le cure, anche se già iniziate; un diritto perfetto che si concretizza direttamente nell’obbligo del sanitario di astenersi dal porre in essere trattamenti medici, qualora manchi il consenso iniziale, o venga richiesta, a posteriori, un’interruzione delle cure. A questo proposito, dal testo della sentenza175 si evince una posizione di netto contrasto del giudice penale rispetto alla pronuncia emanata dal Giudice civile, relativamente all’impossibilità di offrire una tutela per il diritto riconosciuto al ricorrente. Un diritto, infatti, è per definizione suscettibile di essere tutelato da parte dell’ordinamento: quindi, se il diritto è esistente (e lo è), deve altresì ammettersi la tutela per il suo corretto esercizio.

Ad ogni modo, riconosciuta l’esistenza del diritto soggettivo perfetto di rifiutare trattamenti sanitari, doveva comunque essere affrontata la problematicità della qualificazione giuridica della condotta posta in

morte di Welby. C. racconta che Welby aveva preso in considerazione due strade: la prima era quella di morire per insufficienza respiratoria, dovuta al distacco del respiratore, previa sedazione profonda; la seconda era stata pensata nell’ipotesi in cui l’anestesista non fosse riuscito a praticare la sedazione profonda per l’impossibilità di “trovare la vena”; in quel caso dei medici belgi (i quali erano stati previamente contattati ed erano presenti il giorno della morte di W.) avrebbero praticato l’eutanasia a W., violando apertamente sia la legge italiana che quella belga.

174 Trib. Roma, sent. 23 luglio 2007, n. 2049, imputato Riccio, rinvenibile in

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67 essere dal sanitario; vale a dire rinvenire una “soluzione giuridica” sulla quale basare la possibile assoluzione dell’imputato176. In questo senso, il giudice ritenne di non dover incriminare M. R. per omicidio del consenziente, avendo egli operato sulla base della causa di esclusione della responsabilità ex articolo 51 c.p. “esercizio di un dovere”.

La pronuncia, quindi, ha voluto assumere una posizione netta circa il dibattito dottrinale relativo alla configurazione giuridica della condotta del sanitario; dibattito il quale vedeva contrapposti coloro che sostenevano che la condotta del medico (il quale praticasse il distacco di cure) dovesse considerarsi attiva, rispetto a coloro i quali la reputavano omissiva (riferendosi alla teoria della commissione mediante omissione) 177. Nel testo, infatti, si legge che178: « è ravvisabile nell’atto del distacco del respiratore una innegabile condotta interventista, che non può essere assimilata, e non solo dal punto di vista naturalistico, alla condotta, essa sì, omissiva del medico che si limiti a non iniziare una terapia non voluta dal paziente»179.

Altro snodo fondamentale della pronuncia che merita di essere rammentato è la presa di posizione assunta dal giudice circa il soggetto attivo, al quale si attribuisca la facoltà di eseguire le volontà dei malati di interrompere trattamenti sanitari. Come sopra sostenuto, infatti, ogni individuo ha il diritto soggettivo perfetto di rifiutare trattamenti sanitari, per cui anche di interrompere cure già attive. Data questa affermazione, non può che sollevarsi l’interrogativo circa chi sia il soggetto il quale possa assecondare tali volontà; in particolare, ci si chiede se il solo sanitario, o anche il comune individuo possano dar esecuzione alle richieste del paziente. A questo proposito, il GUP ha affermato che solo

176 Cfr. Cupelli C., Il “diritto” del paziente di (rifiutare) e il “dovere” del medico (di

non perseverare), in Cass. pen. fasc. 5, 2008, p. 1807, nota a Ufficio Indagini

preliminari Roma, 17 ottobre 2007, n.2049, sez. V

177 Supra, cap. 1, par.1.2.2

178 Trib. Roma, sent. N. 2049/07, p. 49

179 Ricordiamo posizioni opposte in dottrina le quali ritengono che la condotta del

medico debba configurarsi quale un’omissione, piuttosto che una commissione, Cupelli, Il diritto del paziente (di rifiutare), cit., p. 1828

68 il medico (in virtù della sua qualificazione e professione) possa concretizzare le volontà del malato; l’oggetto del rifiuto, infatti, ha come contenuto competenze di carattere sanitario.

Oltre a ciò, il Giudice si è preoccupato di precisare quali siano i requisiti necessari affinché un rifiuto possa dirsi validamente prestato: esso, infatti, deve essere personale; consapevole; autentico; non condizionato da motivi irrazionali; volontario (quindi non condizionato da pressioni esterne); collegato alle concrete situazioni personali del malato; attuale, ed espresso in forma chiara180.

Con questa pronuncia si cristallizzò un diritto che la giurisprudenza aveva già riconosciuto, ma che faticava a trovare applicazione nei singoli casi concreti; in particolare, fino a quel momento si era riconosciuto un diritto all’autodeterminazione in ambito medico dal quale conseguiva il diritto di decidere di non sottoporsi a trattamenti sanitari; nel caso di specie però, la problematica era attinente ad un trattamento medico inizialmente eseguito, del quale si chiedeva a posteriori la cessazione. Non essendoci alcuna disposizione legislativa che chiaramente disciplinasse simili fattispecie, i medici tendevano a non assecondare le volontà dei pazienti, temendo di venir incriminati per omicidio del consenziente.