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La politica d’assistenza sociale nel contesto del welfare italiano

Si parte dal presupposto, secondo la sociologa Chiara Saraceno, che il processo di costruzione sociale della povertà e dei poveri sia anche collegato alle politiche nazionali, ai sistemi e alle pratiche locali. Tale processo inizia prima che vengano realizzate misure specifiche rivolte ai suddetti poveri e può avvenire in tre modi:

In primo luogo, questo processo è strettamente legato a come funziona il sistema di protezione sociale in un dato paese: il livello, il grado e la durata di copertura della disoccupazione, la presenza o meno di una pensione di vecchiaia di base a carattere universale, il grado e le forme di riconoscimento del costo dei figli, il grado di riconoscimento del lavoro familiare non pagato e così via. Là dove esistono, e a seconda del livello di generosità, queste forme di protezione possono prevenire la caduta in povertà di individui e famiglie, che perciò non appaiono tra i “poveri”, nonostante la temporanea mancanza di lavoro, o un reddito da lavoro insufficiente, o una storia contributiva insufficiente, o forti obbligazioni familiari legate al genere.230

Anche il «modo in cui un sistema nazionale di protezione sociale incanala gli individui e le famiglie entro i diversi “pacchetti” di protezione disponibili»231e il cattivo funzionamento dei sistemi di protezione sociale potrebbero «portare una responsabilità per il tipo di persone che entrano nel settore assistenziale».232

Inoltre il terzo elemento che contribuisce al processo di costruzione sociale dei poveri, come segnala la sociologa, è proprio il modo in cui la povertà è valutata o misurata, ossia, «l‟individuazione delle soglie, delle scale di equivalenza utilizzate per eguagliare famiglie di diversa ampiezza, […] dell‟utilizzo della media piuttosto che della mediana, del reddito piuttosto che del consumo e così via».233Non è solo una questione di scelte tecniche, ma di modalità di discorso pubblico sulla povertà, che dal canto proprio interagiscono con le politiche.

In questo senso, lo studio sulle forme di contrasto alla povertà nel contesto nazionale richiede l‟analisi dei riferiti sistemi nazionali e locali, delle loro organizzazioni

230 C. SARACENO, Le dinamiche assistenziali in Europa. Sistemi nazionali e locali di contrasto alla

povertà, Il Mulino, Bologna 2004, p.10.

231 Ivi, p.11.

232 Ibidem.

e di come essi selezionano e definiscono i bisogni da soddisfare e conseguentemente i beneficiari.

Perciò, il fenomeno della povertà può essere collegato non solo al livello di reddito di un determinato paese, ma anche al modo in cui le politiche sociali sono state sviluppate per favorire i diversi bisogni delle popolazioni. Ciò implica il riconoscimento della necessità delle implementazioni da parte di un complesso di politiche sociali indirizzate al contrasto delle differenti situazioni di disagio e al raggiungimento del benessere sociale.

Da qui si arriva al concetto di politica sociale, che secondo Maurizio Ferrera, esprime un sottoinsieme di azioni, avviate dai sistemi politici, per risolvere obiettivi di natura collettiva, tenendo conto del benessere dei cittadini. Si potrebbe affermare anche che le politiche sociali sono risposte ai diversi processi di lotta di gruppi e classi sociali che cercano di rispondere ai diversi bisogni delle singole persone in ogni società.

Il sistema relativamente integrato di politiche sociali è stato spesso chiamato “Stato del benessere” o welfare state; lo Stato assume un rilevante ruolo nella sua offerta di garanzie ed erogazioni. Connesso al processo di modernizzazione (processo di trasformazioni economiche, sociali e politico-istituzionali), iniziato a partire dal XIX secolo, il welfare era inizialmente caratterizzato per il consolidamento dell‟assicurazione obbligatoria; essa ribaltava quasi completamente l‟impostazione fondata sulle misure di «assistenza ai poveri (poor relief), basata su interventi occasionali, residuali e discrezionali, con erogazione di prestazioni assistenziali secondo modalità istituzionali indifferenziate e su base prevalentemente locale».234

Tale “nuova” impostazione fu stabilita principalmente per prestazioni standardizzate, fondate su previsti diritti individuali e secondo modalità istituzionali specializzate, su base prevalentemente nazionale; «delegando l‟amministrazione degli schemi assicurativi a organi bipartiti o tripartiti (datori di lavoro e lavoratori, con o senza lo Stato), l‟assicurazione obbligatoria inaugurò forse la prima forma di collaborazione tra le due forze antagoniste dello sviluppo capitalistico».235

Il sistema fu consolidato e generalizzato nei diversi paesi nel trentennio tra il 1945 e la metà degli anni „70.

Il contesto politico-istituzionale fu dunque un importante fattore per strutturare gli schemi di assicurazione:

234

M. FERRERA, Le politiche sociali, Il Mulino, Bologna 2012, p.33. 235 Ivi, p.23.

Nei regimi monarchico-autoritari […] la costituzione di un partito operaio segnò un campanello di allarme per le élite conservatrici al governo e le spronò a concedere l‟assicurazione obbligatoria ai fini di controllo sociale e di autolegittimazione. In tali paesi […] l‟assicurazione obbligatoria fu inaugurata in epoca relativamente precoce e a livelli di modernizzazione piuttosto arretrati. […]. Nei paesi parlamentari […] l‟assicurazione obbligatoria dovette aspettare che il partito operaio la includesse nelproprio programma politico.236

Secondo Ferrera, oggi il principale criterio di distinzione fra i modelli di welfare è quello del “formato di copertura”. Il welfare consolidato nei paesi angloscandinavi, ispirato al Rapporto Beveridge, è chiamato modello beveridgeano o universalistico; esso è imperniato su schemi di protezione sociale per tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro posizione lavorativa; è inoltre relativamente solidale, basato su principi egualitari e ha creato «un unico grande bacino di solidarietà e redistribuzione».237

Un altro modello a cui si è ispirato il “formato di copertura”, nello specifico, nella maggioranza dei paesi dell‟Europa continentale era il welfare basato su una pluralità di sistemi professionali, con schemi di protezione sociale rivolti ai lavoratori, regole e formule di prestazione diverse.

Tale schema si avvicinava alle riforme del cancelliere Bismarck, e per questo, dunque, fu chiamato “modello occupazionale” o bismarckiano. Va altresì notato che nei paesi in cui esso si è sviluppato, si osservano delle tradizionali demarcazioni tra i settori produttivi.

La struttura del welfare ha interagito con le diverse esperienze di Stato e società civile, ad esempio nei paesi dell‟Europa meridionale (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna). Il welfare meridionale ha avuto come base una struttura di mercato del lavoro attraversato da profonde divisioni settoriali e territoriali, in un‟economia sommersa, con un modello di famiglia caratterizzato da relazioni solidali molto strette fra i propri membri, talvolta incline a funzionare come “ammortizzatore sociale”.

Ancora oggi è un modello di solidarietà familiare e parentale, «fondato sull‟assunto che il sistema familiare funzioni in base all‟esistenza di forti relazioni intergenerazionali e di parentele lungo tuttol‟arco della vita».238

In tal senso, Ferrera attesta che il welfare state dell‟Europa meridionale assume una configurazione sui generis, caratterizzato da un “elevato particolarismo”, ossia, un sistema di protezione polarizzato e dualistico, con picchi di elevata solidarietà per alcune categorie e vere e proprie lacune di protezione per altre.

236 Ivi, p.25. 237

Ivi, p.39. 238 Ivi, p.43.

Insomma, il welfare state dei paesi sud europei è caratterizzato da un sistema assicurativo disuguale e tendenzialmente debole nell‟ambito della protezione sociale universale dei cittadini, e soprattutto in Italia, fino agli anni „80, non esisteva una rete di sicurezza di base contro il rischio di povertà.

Rispetto alle esperienze nazionali, la cornice del welfare italiano segnala una distorsione sia funzionale sia distributiva. La prima si manifesta in una «iperprotezione del rischio “vecchiaia e superstiti”, a prescindere da altri rischi e bisogni collegati ad altre fasi del ciclo di vita»,239 ad esempio il disagio abitativo, la povertà, i servizi all‟interno della famiglia, la presenza di figli, ecc.

La seconda si esprime proprio nella formazione di diversi gruppi ritenuti assicurati oppure no, che comprendono:

1. «Il gruppo dei garantiti, composto dai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche e delle grandi imprese. La loro protezione è molto elevata nel caso delle pensioni ed è più o meno in linea con gli standard europei; 2. Il gruppo dei semigarantiti, composto da una variegata combinazione di

lavoratori dipendenti (piccole imprese, settori tradizionali come l‟edilizia o l‟agricoltura), lavoratori autonomi (come piccoli commercianti o artigiani) e lavoratori “atipici”. Per quanto riguarda il rischio “vecchiaia” […] la protezione tipica di questo gruppo è la pensione “minima”;

3. Il gruppo dei non garantiti, composto da quei lavoratori che restano relegati nell‟economica sommersa[..] senza riuscire a conquistare un ancoramento stabile e duraturo nel mercato del lavoro regolare. Il rischio “vecchiaia” è in qualche modo tutelato anche per questi lavoratori, grazie all‟esistenza della pensione o assegno sociale».240

Tra le ragioni, secondo Ferrera, potrebbe essere rilevante l‟influenza dei partiti politici nello Stato italiano, una vera e propria «partitocrazia distributiva, che ha massicciamente utilizzato i diritti-spettanze e gli apparati amministrativi dello Stato al fine di catturare il consenso, spesso attraverso modalità particolaristico-clientelari».241

Così i fattori specifici nazionali riguardo ai partiti e alla loro utilizzazione dello Stato, delle legislazioni e delle prestazioni di welfare sono elementi che influiscono tanto direttamente quanto indirettamente nella costituzione delle politiche sociali.

239 M. FERRERA, Le politiche sociali , Il Mulino, Bologna 2012, p.48. 240

Ivi, p. 49. 241 Ivi, p.50.

Nel caso italiano, poiché il welfare non offre ai giovani risorse e opportunità per far parte del mercato del lavoro, la famiglia di origine, tramite la rete di solidarietà, diventa il punto principale di riferimento, in molti casi l‟unico “ammortizzatore sociale”.

Il “familismo” all‟italiana potrebbe anche trasformarsi in una sorta di “trappola” che «trattiene i giovani nel proprio seno, e in questo modo ostacola la mobilità, rallenta e irrigidisce i processi di riproduzione sociale, frenando peraltro la formazione di una domanda politica a favore del cambiamento».242

Esso, associato all‟esistenza di un mercato del lavoro periferico, a una debolezza delle istituzioni statali e a un “ritardo temporale” nella revisione delle politiche socioassistenziali, è stato uno dei fattori che, secondo Ilaria Madama, ha contribuito a una forte arretratezza dei paesi dell‟Europa Meridionale, in particolare in termini di prestazione socioassistenziale, tanto nell‟ambito delle prestazioni selettive minime di garanzia di reddito, quanto nell‟ambito dei servizi sociali a livello territoriale:

Nell‟Europa meridionale la rete di sicurezza di ultima istanza si è sviluppata attraverso una sequenza frammentata, fatta di addizioni successive per categorie di bisogno mantenendo una configurazione istituzionale fortemente differenziata.243

Ormai il quadro italiano degli interventi nell‟ambito della politica di assistenza sociale, soprattutto rispetto alla lotta alla povertà, come si vedrà in questo capitolo, rivela una permanente frammentazione.

Si potrebbe sottolineare come un fattore specifico del contesto politico e storico italiano, concernente gli interventi in materia d‟assistenza pubblica, sia una tradizione di interventi dedicati a specifiche categorie sociali.

Ci si riferisce agli enti assistenziali nazionali come le Opere Pie (istituzioni di beneficenza private principalmente di matrice cattolica), poi denominati Istituti Pubblici di Beneficenza (IPAB), e a quegli interventi nel periodo fascista, ad esempio l‟Opera per la maternità e l‟infanzia (ONMI) e gli enti comunali di assistenza (ECA):

Da un lato vennero istituiti numerosi enti assistenziali nazionali dedicati a specifiche categorie sociali, come i ciechi e gli orfani; dall‟altro, la politica sociale del regime tese a fare della famiglia, fascista e cattolica, uno dei suoi simboli. Vennero così realizzati interventi volti a incentivare la maternità, le famiglie numerose e la costituzione di nuovi nuclei familiari.244

242 M. FERRERA. Le politiche sociali, Il Mulino, Bologna 2012, p.50.

243 I. MADAMA, La politica sociassistenziale, in Le politiche sociali, M. FERRERA (a cura di), Il Mulino, Bologna 2012, p.250

Rispetto ai principali interventi socioassistenziali a livello nazionale si segnala l‟istituzione delle pensioni sociali del 1969, «una misura di assistenza pubblica nella forma di reddito minimo garantito […] riservato agli ultrasessantacinquenni senza diritto alla pensione di tipo contributivo e in stato d‟indigenza».245

In seguito, nel 1971 seguirono la pensione d‟invalidità civile e l‟indennità di accompagnamento, «un assegno mensile a somma fissa non soggetto alla prova dei mezzi e destinato agli invalidi non-autosufficienti, volto a coprire almeno una parte dei costi per l‟assistenza personale».246

Risale al periodo fascista l‟avvio di interventi specifici per il nucleo familiare, in particolare un sistema di assegni familiari, che però, già a partire dalla fine degli anni „80, venne messo da parte, a favore del sistema pensionistico:

Questa modesta integrazione al reddito era destinata originalmente al capofamiglia (in genere il marito lavoratore dipendente) ed era legata alla presenza di “familiari a carico”, comunemente moglie e figli, ma spesso anche altri congiunti senza reddito […]. La marginalità accordata al sostegno economico alle famiglie trova conferma nei dati di spesa. Se nel 1950 le risorse destinate al sostegno al reddito delle famiglie e quelle per pensioni erano pressoché simili, nel 1980 le seconde erano diventate circa sette volte le prime, uno dei divari più ampi registrati fra i Paesi europei.247

Anche nella letteratura del sistema italiano di protezione sociale si segnalano, tra i particolari elementi del “welfare all‟italiana”, il «particolaristico, clientelare, occupazionale e monetarizzato».248 In cui:

Il tratto del particolarismo si collega alla struttura prevalentemente categoriale che nel tempo è andato assumendo e che si è concretizzata in un ventaglio assai differenziato di prestazioni rese a beneficiari non sempre altrettanto diversi. Il suo aspetto clientelare deriva essenzialmente dalla modalità con cui la configurazione particolaristica è emersa, vale a dire attraverso provvedimenti sostenuti da una logica di tipo congiunturale-strumentale piuttosto che strategico e da una gestione spartitoria del consenso. La caratterizzazione occupazionale si evidenzia nella centralità in esso rivestita dal lavorare (prima e più che dal cittadino) e in una trama delle prestazioni definita soprattutto sulla collocazione degli individui rispetto al mercato del lavoro. Il connotato della monetarizzazione, infine, si segnala nei termini di una assoluta prevalenza dei trasferimenti economici rispetto alla fornitura diretta di servizi, una prevalenza che è in larga parte il risultato delle altre specificità appena descritte.249

245

I. MADAMA, La politica sociassistenziale, in Le politiche sociali. M. FERRERA (a cura di), Il Mulino, Bologna 2012, p.250.

246 Ibidem. 247 Ivi, p.256. 248

M. BURGALASSI, Il welfare dei servizi alla persona in Italia, Franco Angeli, Milano 2007, p.18 249 Ibidem.

Si evidenzia anche come parte strutturale del sistema italiano di welfare, oltre alla previdenza, sanità e assistenza, l‟elemento servizi sociali e politiche abitative e politiche per il lavoro.

Con la funzione principale di «assicurare misure definitive di sostegno al reddito […] per far fronte a condizioni di inabilità»,250 il sottosistema assistenziale è rappresentato prevalentemente dalle pensioni assistenziali. Secondo Marco Burgalassi, le protezioni sociali di questa componente del welfare italiano sono destinate ad un pubblico circoscritto di beneficiari, in genere situazioni di invalidità, età avanzata e assenza di contributi previdenziali, ecc. I trasferimenti monetari sono di natura riparatoria, regolamentata dall‟autorità centrale, alimentata dalla fiscalità generale e gestita in modo uniforme sul territorio.

Nonostante la componente dei servizi sociali abbia anche funzioni di tipo assistenziale, le loro prestazioni racchiudono principi diversi; in più la sua struttura organizzativa capillare è essenzialmente regionalista con finanziamento locale.

Le sue prestazioni, infatti, mirano alla rimozione e al superamento di situazioni di disagio attraverso la predisposizione di attività di cura centrali sulle esigenze della persona e non mediante l‟erogazione di provvidenze continuative di carattere riparatorio. La specificità di tale componente risiede quindi nel decisivo contenuto relazionale e di socialità che ne connota gli interventi.251

Va poi notato che nel campo dei servizi sociali, oltre alla prospettiva di “fronteggiare il disagio”, è anche presente la promozione dell‟agio, entrambe prospettive interconnesse.

Comunque, l‟avvio del federalismo in Italia ha attribuito alle regioni la competenza tanto dei servizi sociali quanto di quelli sanitari. Esiste, dunque, il processo di regionalismo, che nel corso degli anni si è realizzato nel quadro legislativo nazionale.252

Si potrebbe affermare che tale processo di decentramento amministrativo consiste in una tradizione nell‟ambito delle politiche socioassistenziali. Processo che comporta punti sia di forza che di debolezza, come si potrà osservare più avanti.

La regionalizzazione dei servizi alla persona si presenta allo stesso tempo come una reale opportunità e come un rischio incombente. Costituisce una reale

250

Ivi, p.20.

251 M. BURGALASSI, Il welfare dei servizi alla persona in Italia, Franco Angeli, Milano 2007, p.21. 252 Madama evidenzia, tra altri, il d.p.r del 1972 (n.9), concernente le competenze in materia di assistenza e beneficenza pubblica alle regioni e il d.p.r del 1977 (n.616) che prescriveva la soppressione di numerosi enti assistenziali nazionali e delle IPAB e il trasferimento delle loro funzioni ai comuni.I. MADAMA, La politica sociassistenziale, in Le politiche sociali. M. FERRERA (a cura di), Il Mulino, Bologna 2012

opportunità nella misura in cui consente di programmare/realizzare interventi calibrati sulle esigenze peculiari di un contesto (ovvero a misura delle condizioni locali) e di valorizzare pienamente le specificità territoriali e le risorse della comunità per la costruzione di un sistema di welfare riconosciuto e partecipato. Si segnala però anche come un rischio nella misura in cui può alimentare una radicalizzazione della già evidente varietà del quadro regionale determinando tra le situazioni territoriali uno squilibrio così elevato da risultare socialmente inaccettabile.253

Oltre alla specificità del welfare nei paesi dell‟Europa meridionale, lo sviluppo a volte incompleto delle “politiche socioassistenziali” in Italia è un altro fattore della dinamica nazionale.

Madama segnala un processo di polarizzazione ideologica nel periodo del dopoguerra in occasione dell‟approvazione della Costituzione del 1948, in cui la sinistra non mantenne un‟unanimità rispetto alle misure di trasferimento di reddito, così:

La divisione interna e l‟opposizione della sinistra radicale (il PCI), che con l‟appoggio della CGIL era interessata a difendere i vantaggi “corporativi” del proprio bacino elettorale (gli operai delle grande industria), almeno fino agli anni ‟70, resero il perseguimento di questa opzione strategicamente troppo rischiosa per la sinistra moderata che decide dunque di abbandonare il progetto.254

Lo stesso “processo” include anche la difesa degli interessi degli enti religiosi, in particolare le Opere Pie, da parte del partito cattolico della Democrazia Cristiana (DC):

Non è un caso dunque che per decenni la riforma dell‟assistenza, nonostante le numerose proposte presentate in ogni legislatura, sia stata costantemente rimandata. Le diverse visioni esistenti fra i partiti politici in merito all‟attribuzione e alla gestione degli immensi patrimoni controllati da questi enti caritativi, tradizionalmente vicini alla Chiesa Cattolica, rappresentarono un ostacolo istituzionale insuperabile per molti anni […] Solo dopo aver superato il nodo del trattamento delle IPAB, infatti, grazie a una sentenza della Corte costituzionale del 1988 con cui si pose fine al loro regime pubblicistico, si aprì l‟opportunità concreta di riformare il settore fino a quel momento ancora per larga parte disciplinato della legge Crispi del 1890.255

Dalla seconda metà degli anni „70 agli anni „90, il sistema di welfare ha attraversato una fase di cambiamento e riforma, con l‟adozione di politiche di controllo dei costi e di riforme restrittive e un‟apertura ai nuovi soggetti.

Le trasformazioni nel contesto socioeconomico, ad esempio l‟aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, il passaggio a un‟economica

253 M. BURGALASSI, Il welfare dei servizi alla persona in Italia, Franco Angeli, Milano 2007, p.13. 254 I. MADAMA, La politica sociassistenziale, in Le politiche sociali. M. FERRERA (a cura di), Il Mulino, Bologna 2012, p.259.

postindustriale, la crescita relativa del terziario con la diffusione della flessibilità nei contratti di lavoro e l‟aumento del tasso dei disoccupati hanno messo in evidenza i punti deboli degli schemi tradizionali del welfare, in grande misura basato su principi patriarcali e industriali.

Si noti il rapporto tra la ridotta partecipazione femminile al mercato del lavoro e il basso tasso di natalità nel paese: già dagli anni „70 il tasso di natalità è continuato a diminuire, arrivando nel 1995 pari a 1,2, al di sotto del tasso naturale di sostituzione e persino inferiore rispetto a tutti gli altri paesi dell‟UE.

Va altresì notato che, tra i nuovi rischi, la frammentazione interna della “nuova” platea di bisognosi (ad esempio i giovani in cerca di una prima occupazione, madri sole con figli piccoli, lavoratori non qualificati, precari o irregolari) rende più debole e difficile una loro mobilizzazione politica.

A livello nazionale si osserva la fatica a costruire una politica inclusiva e organica di contrasto alla povertà, e una predisposizione all‟utilizzo di «alcune misure di natura categoriale»,256ad esempio le pensioni sociali e le pensioni di invalidità, trascurando ampie fasce della popolazione come le famiglie con minori composte da madri single.

A livello delle regioni e dei comuni, invece, il quadro in cui ciascuno di questi ultimi in particolare avvia degli schemi definiti di “minimo vitale” è stato, ed è ancora oggi, disomogeneo; ad esempio, segnala Madama, a Torino avvenne nel 1978, ad Ancona nel 1981, a Catania nel 1983 e a Milano nel 1989.

In occasione della ricerca sul campo presso il Comune di Roma, si è notato che