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I preamboli: le mostre surrealiste dei primi anni Trenta

La strada che avrebbe condotto alla formazione di un gruppo ufficiale surrealista era stata ormai aperta dalle riviste. A partire dal 1933 una serie di mostre furono organizzate per far conoscere concretamente non solo la parte teorica tradotta nei giornali, ma anche la produzione artistica di quest'avanguardia.

48 Molti degli articoli pubblicati tra il 1930 ed il 1933 criticavano la pratica surrealista della scrittura automatica in quanto elemento non gestibile in modo cosciente. Molte delle polemiche nascevano dalla convinzione di parte della critica che i surrealisti con le loro associazioni inconsce di fatto non avevano inventato niente di nuovo, poiché tale prassi faceva parte in modo naturale del processo poetico. Per uno studio dettagliato della ricezione critica del surrealismo nella stampa inglese, che esula dai fini di questa trattazione, cfr. RAY 1971, pp. 67-133; REMY 1986; REMY

1999, pp. 35-73; MCCRACKEN 2013; MARKS 2013; SMITH 2013; MENGHAM 2013.

49 Cfr. REMY 1999, p. 45.

50 Secondo Remy la pubblicazione della poesia di Gascoyne rappresenta il punto di partenza del surrealismo britannico. Cfr. REMY 1986, p. 23.

51 Cfr. REMY 1999, p. 30.

Le esposizioni videro protagoniste principalmente due gallerie commerciali moderniste del panorama londinese: la Mayor Gallery e la Zwemmer Gallery.

Nel mese di aprile la Mayor Gallery, di proprietà di Fred Mayor, riapriva le sue sale espositive, dopo un periodo di chiusura, nei nuovi locali al 18 di Cork Street, sotto la direzione artistica del critico e collezionista Douglas Cooper. La mostra inaugurale era stata consacrata ai recenti dipinti di artisti inglesi, francesi e tedeschi, tra cui spiccavano le opere dei cubisti Braque, Picasso, Marcoussis, Léger, degli inglesi Nicholson, Nash, Bacon e Moore, ma anche di Ernst, Masson e Miró52. La stampa criticò fortemente l'esposizione, tant'è che Konody nell'«Observer» dichiarò che la mostra era «abortive from the aesthetic point of view, owing to the substitution of conceptive or craftsmanly freakishness, or both, for sincerity and dignity – the cornershow of abstract art»53, mentre la tradizionalista «Apollo» terminava la sua recensione con sarcastiche parole di gratitudine nei confronti della galleria di Mayor: «It is all very abstruse; one must go and see for one's self. But we owe the Mayor Gallery a debt of gratitude, because it saves us a journey to Paris»54.

Nonostante i rigidi approcci dell'opinione pubblica e della critica aderente al politically correct della cultura post-vittoriana, il lato commerciale di queste mostre tesseva un'apertura del mercato. A dispetto delle serrate critiche, infatti, l'evento espositivo da Mayor si chiuse con la realizzazione di sei vendite su un totale di quarantasei dipinti esposti, tra cui un'opera di Ernst, una di Arp ed una di Moore, un risultato certamente esiguo, ma che può essere ritenuto soddisfacente considerata la quasi univoca ricezione negativa nella stampa55. Questa prima apertura sull'arte surrealista continuò nel mese di giugno con una monografica dedicata a Max Ernst, un allestimento di trentasette opere tra dipinti, gouache e Baumeister; The Pond di di Lurçat, Composition di Arp ed infine la scultura Figure di Moore. Le vendite sono tracciate nel catalogo personale di Douglas Cooper, dove però non figurano i prezzi (GETTY/COOPER,Box40).

collage56. La reazione della critica non differì troppo dal precedente evento, ma Paul Nash sul «Weekend Review» invitava comunque i lettori ad andare ad ammirare «so many lovely and strange things» e consigliava di ignorare i giudizi negativi formulati sulla stampa57. Anche in questa occasione le vendite furono certamente sopra ogni aspettativa e ben dieci pezzi, tra dipinti e gouache, furono venduti58. A luglio toccò invece a Joan Miró, ci dui Mayor espose sedici dipinti, con una reazione critica che si divise tra scherno e lode 59. La linea polemica dell'«Observer» restò invariata, ed il giornalista rinveniva nel pittore spagnolo il tentativo consapevole di «amuse and entertain and to communicate to the spectator all the fun he himself derived from the production of his queer imagery»60. Dall'altro lato invece, il filosurrealista Herbert Read incolpava i suoi colleghi di ostracismo: «[il pubblico] never heard of Surréalisme, thanks to the lethargy of English art-criticism»61.

La seconda galleria del circuito modernista londinese che si era mossa in prima linea a favore della diffusione dell'estetica surrealista era la Zwemmer Gallery, che nel 1934 aveva allestito due mostre di Salvador Dalí, una delle quali presentava le recenti illustrazioni de Les Chants de Maldoror di Lautréamont che Kenneth Clark non esitò a definire «vulgar trash»62.

L'introduzione dell'arte surrealista nella realtà espositiva britannica della prima metà degli anni Trenta trovò non solo una critica ostile e derisoria, ma una vera e propria mancanza d'interesse da parte di un pubblico più o meno specializzato. La problematica fu messa in luce da Read, che nel 1935 pubblicava sulla rivista francese filosurrealista «Minotaure», l'articolo Why the English Have

56 Cfr. ERNST 1933.

57 Cfr. NASH 1933, s.p.

58 I dipinti venduti furono: Vol Nuptial I, L'Homme oiseau et le serpent, L'Homme et la femme enlacés I, Fôret et soleil nocture, L'Homme à la cravate folioforme e Portrait de Mme. Max Ernst;

tra le gouache invece: Les diamants conjugaux, Fôret et soleil, Oiseaux spectraux e Fleurs-coquillages. Le vendite sono tracciate nel catalogo personale di Douglas Cooper, dove però non figurano i prezzi (GETTY/COOPER,Box40).

59 Cfr. MIRÓ 1933.

60 MR.MIRÓ 1933, s.p.

61 READ 1933, s.p.

62 Kenneth Clark, The Zwemmer Gallery, «New Statesman and Nation», 22 dicembre 1934, cit. in REMY 1999, p. 34.

no Taste?, nel quale affermava che l'insularità aveva in qualche modo ritardato l'entrata in campo dei movimenti d'avanguardia; inoltre rinveniva nel puritanesimo e nel capitalismo due delle principali cause di reticenza nei confronti delle nuove tendenze progressiste continentali63. Read concludeva il suo articolo asserendo che il fine dell'arte «is the cause of revolution. [...] art is only healthy in a collective type of society. [...] We have no taste because we have no freedom;

we have no freedom because we have no common faith»64.

La tematica della ricezione negativa dei movimenti modernisti provenienti dall'Europa continentale era un argomento frequentemente discusso in quel momento. Geoffrey Grigson, ad esempio, nel suo volume The Arts Today rimarcava, come già aveva fatto Read, il provincialismo autoctono: «Since England has been the richest country in the world, and the most powerful country, the art provincialism has been strengthened and remains strong»65. L'esigenza di un rinnovamento in ambito artistico era un desiderio condiviso da molti artisti e critici, e a partire dal 1934 i tentativi si fecero sempre più frequenti e persuasivi.

Così attraverso l'allestimento di mostre, la costituzione di riviste e gruppi di effimera durata si perseverò nella promozione, divulgazione e nel tentativo di dar vita ad un'avanguardia inglese.

A giugno venne organizzata alla Mayor Gallery la prima ed unica mostra di Unit One (fig. 2), un gruppo di artisti radunati già dal 1933 intorno alla figura di Herbert Read e composto da pittori, scultori ed architetti, tra cui: John Amstrong, John Bigge, Edward Burra, Tristram Hillier, Paul Nash, Ben Nicholson, Edward Wadsworth, Barbara Hepworth, Henry Moore ed infine Wells Coates e Colin Lucas66.

63 Cfr. READ 1935c, p. 68.

64 Ibidem.

65 GRIGSON 1935, p.

66 Nel 1933 Ben Nicholson e Barbara Hepworth, sotto invito di Jean Hélion, si erano uniti al gruppo francese Abstraction-Création. Per ogni approfondimento su Unit One, cfr. HARRISON

1981, pp. 231-253, UNIT ONE 1984, BUCCI 2014.

Fig. 2 Catalogo della mostra "Unit One", a cura di Herbert Read, Londra, Mayor Gallery, giugno 1934; copertina.

La mostra fu itinerante ed alla tappa londinese seguirono Liverpool, Manchester, Hanley, Derby, Swansea e Belfast. L'esperienza del gruppo di Unit One fu un momento nodale nella storia del modernismo inglese, in quanto rappresentava il primo tentativo negli anni Trenta di radunare insieme degli artisti con la finalità di combattere lo sterile tradizionalismo radicato sul territorio britannico. Il gruppo dirigeva un'omonima rivista, sorta nel 1934, che aveva un intento principalmente promozionale e non autoreferenziale. L'elemento che accomunava i membri di Unit One non era certo l'omogeneità stilistica, in quanto gli artisti del gruppo erano formalmente divisi tra astrazione geometrica e figurazione filosurrealista. Il vincolo che teneva uniti gli affiliati era piuttosto una comune posizione intellettuale. Il gruppo – precisava Paul Nash sul «The Times»

del 12 giugno 1933 – «was the expression of a truly contemporary spirit, for that thing which is recognised as peculiarly of today in painting, sculpture and architecture»67. La volontà di adesione alle tendenze moderniste europee è ribadita nel testo critico che Read aveva redatto in occasione della mostra, in cui spiegava che il primo intento era rendere noto al pubblico i recenti sviluppi artistici dell'arte inglese68.

Il mélange identificativo di Unit One, era di fatto lo specchio della duplice tendenza che si stava delineando nel modernismo inglese degli anni Trenta: la linea filosurrealista da un lato, e quella astratta dall'altro. Di questa doppia matrice

67 Cit. in BUCCI 2014, p. 57.

68 Cfr. UNIT ONE 1934, p. 13.

fu portavoce la rivista di Evans «Axis: A Quartely Review of Contemporary 'Abstract' Painting and Sculpture», pubblicata tra il 1935 ed il 193769. L'astrattismo, il cui termine è significativamente presente nel sottotitolo del periodico, iniziava in questi anni ad assembrare in Inghilterra un cospicuo nucleo di rappresentanti, tant'è che nel marzo 1934 fu allestita la prima mostra astratta britannica. L'esposizione, intitolata "Objective Abstractions", ebbe luogo nella galleria di Anton Zwemmer con opere appartenenti principalmente al gruppo di artisti affiliati al Seven & Five Abstract Group, che includeva Ben Nicholson, Barbara Hepworth, John Piper e Henry Moore70. La linea astratta di ascendenza costruttivista fu sostenuta in «Circle. An International Survey of Constructive Art», una pubblicazione, forse inizialmente pensata come rivista, edita nel 1937 a nome di Ben Nicholson, Leslie Martin e l'esilié Naum Gabo. L'astrattismo fu percepito oltremanica come una tendenza fondamentalmente elitaria, una sfaccettatura che non tardò a mettere in evidenza la critica militante di Anthony Blunt, che nelle pagine di «The Mind in Chains» accusò gli astrattisti di essersi isolati nella loro rivoluzione formale «from the wide public among the bourgeoisie. They have, of course, lost all contact with the proletariat»71.

Su «Axis» si era assistito visivamente, ancor più che concettualmente, alla costruzione di una incerta linea di confine che ambiguamente separava l'astrazione dal surrealismo, e che di fatto restò una peculiarità dell'intero percorso storico del surrealismo anglosassone, sia britannico, che, successivamente negli anni Quaranta, americano. Tale ambiguità fu fomentata, nei primi anni Trenta, dalle teorizzazioni del critico inglese Herbert Read.

69 Per maggiori approfondimenti sull'arte astratta e costruttivista inglese, cfr. HARRISON 1981, pp.

254-293; per «Axis», cfr. GIACOBBE 2014; infine per ulteriori informazioni su «Circle», cfr.

BUCCI 2014.

70 La Seven & Five Society era stata fondata a Londra nel 1919 da un gruppo di artisti rappresentativi del "ritorno all'ordine", una tendenza artistica in quel momento dilagante in tutta Europa. Nel 1924, quando Ben Nicholson aderì alla società insieme a Barbara Hepworth, John Piper e Henry Moore, rimodellò insieme ai nuovi membri l'originario assetto espellendo tutti coloro che non condividevano le tendenze moderniste. Nel 1935 il gruppo fu indicativamente rinominato Seven & Five Abstract Group. Cfr.HARRISON 1981, pp. 273-275.

71 Anthony Blunt, Art under Capitalism and Socialism, «The Mind in Chains», 1937, cit. in FEAVER 1979, p. 34. Per ulteriori approfondimenti sull'astrattismo ed il costruttivismo britannici, cfr. HARRISON 1981, pp. 254-293.