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D AL PRINCIPIO DI NEUTRALITÀ ORGANIZZATIVA DELLE PROCEDURE CONCORSUALI ALL ’ ART 185 L FALL S PUNTI PER UNA POSSIBILE

PERIMETRAZIONE DEI RAPPORTI TRA DIRITTO SOCIETARIO E DIRITTO

CONCORSUALE.

Nel capitolo precedente si è messo in rilievo come la nuova disciplina delle proposte concorrenti di concordato preventivo presenti molteplici profili di interesse sul piano sistematico. Si è visto, infatti, come la modifica dell’art. 163 l. fall. abbia

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innanzitutto determinato il superamento del tradizionale monopolio accordato al debitore quanto alla predisposizione delle modalità di composizione della crisi della propria impresa e segnatamente quanto all’iniziativa circa la presentazione di una domanda di concordato. Il riconoscimento a favore dei creditori di una legittimazione concorrente ha tuttavia implicato la necessaria predisposizione di strumenti di tutela che attribuissero ad un soggetto terzo rispetto alla società in concordato, quale è il creditore proponente, i poteri necessari e sufficienti a condizionare ab externo i procedimenti deliberativi societari, al fine di superare l’eventuale ostruzionismo frapposto dai soci rispetto al doveroso compimento degli eventuali atti di ristrutturazione patrimoniale e finanziaria contemplati nella proposta concorrente.

Orbene, se riguardata nella più ampia prospettiva del diritto dell’impresa collettiva societaria, la nuova disciplina esecutiva di cui all’art. 185 l. fall. vale ad esprimere un

preciso modello di incidenza delle regole di diritto concorsuale sui paradigmi di diritto

societario che informano il funzionamento dell’organizzazione sociale. La procedura concordataria, infatti, si dimostra oggi fenomeno idoneo ad incidere sul procedimento deliberativo assembleare e in particolar modo sui principi che regolano l’esercizio del diritto di voto da parte dei soci: ed invero, la legge dispone che, a seguito all’omologazione di una proposta concorrente, il potere deliberativo dei soci debba essere conformato e funzionalizzato al fine di tener conto dell’interesse dei creditori, così come cristallizzato nella proposta.

Si tratta a ben vedere di una soluzione assai dirompente rispetto al passato, a maggior ragione se si considera la centralità assunta per anni nell’ordinamento italiano dall’opposto principio della neutralità organizzativa delle procedure concorsuali. Secondo l’impostazione tradizionale, recepita nella legge fallimentare del 1942, l’accesso da parte di una società ad una procedura concorsuale veniva infatti implicitamente classificato quale fatto inidoneo ad influenzare le regole di funzionamento dell’ente societario. Questi ultimi, più precisamente, non vedevano incise le proprie prerogative e i propri poteri se non nei limiti delle specifiche esigenze della procedura e in misura proporzionale rispetto agli effetti tipicamente derivanti (o comunque connessi) all’avvio della procedura, specialmente per ciò che concerne l’amministrazione del patrimonio e la gestione dell’impresa sociale. In particolare, con riguardo innanzitutto alla dichiarazione di fallimento, pur essendo quest’ultima contemplata, prima della

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riforma del diritto societario del 2003, tra le cause di scioglimento del vincolo sociale ai sensi dell’allora art. 2448 c.c., essa non coincideva né con la diretta ed immediata estinzione della società, né, come sottolineato dalla migliore dottrina, con la collocazione della medesima in stato di liquidazione, potendo al limite un effetto dissolutivo prodursi solo al termine della procedura e in conseguenza della situazione patrimoniale in cui la società venisse concretamente a trovarsi84. Se ne poteva dedurre, pertanto, come l’apertura del fallimento determinasse unicamente un mero arresto temporaneo dell’attività d’impresa per il tramite della sottrazione alla società della disponibilità del proprio patrimonio, e non invece una compressione dei poteri degli organi sociali, quanto meno con riguardo agli «ambiti non toccati dalle esigenze della procedura e non interessanti il patrimonio oggetto dello spossessamento»85.

84 Con riguardo al fallimento delle società, la dottrina prevalente, ancorché non unanime, riteneva che la dichiarazione di fallimento operasse di diritto quale causa di scioglimento del vincolo sociale, determinando immediatamente e automaticamente la collocazione della società medesima in stato di liquidazione e l’applicazione delle relative regole, in quanto compatibili con la disciplina speciale dettata dalla legge fallimentare [per tale tesi v., per tutti, NICCOLINI, Scioglimento, liquidazione ed estinzione delle

società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo-Portale, vol. VII, Torino, UTET,

1998, 377 ss. e in part. 391 ss.]. A tale opinione se ne contrapponeva tuttavia un’altra che, facendo leva sulla natura assolutamente peculiare della causa di scioglimento costituita dalla dichiarazione di fallimento, ne invocava un trattamento sostanzialmente autonomo: in quest’ottica, il fallimento veniva considerato quale «fattispecie complessa di causa di scioglimento», che «non incide affatto come tale immediatamente e definitivamente sul contratto o sul rapporto sociale», ma «produce soltanto, immediatamente, una sorta di “blocco”, temporaneo, alla possibilità realizzare l’oggetto sociale attraverso il patrimonio temporaneamente sottratto alla disponibilità della società». Secondo tale dottrina, inoltre, lo scioglimento vero e proprio si produceva soltanto al termine della procedura di liquidazione concorsuale e «solo se, una volta chiusasi la procedura, non venga ristabilita (per impossibilità oggettiva o per inerzia degli amministratori e/o soci) la piena operatività della società, che pertanto, in questo caso, è destinata fatalmente all’estinzione»: così NIGRO, La società per azioni nelle

procedure concorsuali, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo-Portale, vol. IX, Torino, UTET,

1993, 294 ss. e in part. 306. La giurisprudenza ha più volte dimostrato di aderire alla seconda opzione: v., su tutte, Cass. Civ., sez. I, 11 ottobre 1999, n. 11361, in Fall., 2000, 8, 881 ss., e in Dir. fall., 2000, 2, 926 ss., secondo la quale «gli effetti della dichiarazione di fallimento non possono essere assimilati a quelli delle altre cause di scioglimento», in quanto sua conseguenza ineliminabile è il solo “spossessamento” del fallito e non invece una «alterazione della organizzazione sociale, i cui organi restano in funzione, sia pure con le limitazioni derivanti dalla intervenuta dichiarazione di fallimento». L’effetto estintivo, secondo la Corte, non deriva neppure de plano con la chiusura del fallimento, in quanto «fino a quando sono pendenti rapporti giuridici o contestazioni giudiziarie, la società non può dirsi estinta, nemmeno se nel frattempo sia intervenuta la cancellazione dal registro delle imprese».

85 Così ancora NIGRO, La società per azioni nelle procedure concorsuali, cit., 322-324, a detta del quale il subentro degli organi della procedura nelle funzioni e prerogative degli organi sociali era limitato a «quelle [funzioni] inerenti alla amministrazione e disposizione del patrimonio oggetto dello spossessamento» [ivi, 319]. A conferma di ciò poteva riportarsi la soluzione adottata dal legislatore del 1942 quanto all’iniziativa per la presentazione della proposta di concordato fallimentare, la quale, nel testo dell’art. 152 l. fall. precedente la riforma del 2005, doveva essere approvata dagli organi sociali: ebbene, tale disposizione confermava come «nell’idea del legislatore, tali organi, nonostante il fallimento sono destinati a persistere» [ivi, 320]. In quest’ottica, dovevano senza dubbi ritenersi intatti i poteri

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A conclusioni ben più radicali poteva poi giungersi con riguardo al concordato preventivo. Per un verso, infatti, l’ammissione alla procedura concordataria costituiva in sé un evento del tutto irrilevante ai fini dello scioglimento della società, non essendo tale circostanza espressamente menzionata dall’art. 2448 c.c.86; per altro verso, la partecipazione alla procedura medesima poteva parimenti essere considerata quale fatto inidoneo a produrre «conseguenza alcuna sull’assetto organizzativo della società». Al riguardo, infatti, se è vero che, in forza del cd. spossessamento “attenuato” - quale appunto effetto caratterizzante della procedura – i poteri di amministrazione e gestione del patrimonio sociale risultano condizionati dall’esterno in funzione delle esigenze della procedura87, cionondimeno gli altri organi sociali – e segnatamente l’assemblea dei soci – «restano in essere e nella pienezza delle loro prerogative», non essendo in alcun modo riguardata dall’interno l’organizzazione sociale in quanto tale e dovendosi pure escludere qualsiasi «possibilità di ingerenza diretta da parte degli organi della procedura a livello di funzionamento degli organi societari»88.

dell’assemblea anche per quanto riguarda l’eventuale sostituzione degli amministratori venuti a mancare, nonché per le modificazioni dell’atto costitutivo, potendo residuare al limite qualche dubbio circa la compatibilità con le esigenze della procedura delle operazioni sul capitale sociale e delle operazioni straordinarie. Per l’opposta soluzione, che voleva gli organi sociali entrare tendenzialmente in uno stato di «quiescenza», salvo che per il compimento degli atti previsti dalla legge (quali, come si è visto, la delibera dell’assemblea straordinaria dei soci in ordine alla proposta di concordato fallimentare), v. FRÉ,

Società per azioni. Artt. 2325-2409, vol. I, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna, Zanichelli, 1997, 852-83.

Una norma di tale tenore è invero l’art. 200 l. fall., il quale, in tema di effetti della procedura di liquidazione coatta amministrativa, prevede che «se l’impresa è una società o una persona giuridica cessano le funzioni delle assemblee e degli organi di amministrazione e di controllo». Per le problematiche suscitate da tale previsione si rimanda a GIORGI, «Cessazione delle funzioni» e competenze degli

organi societari nell’amministrazione coatta amministrativa, in Banca borsa tit. cred., 1995, 1, 459 ss.

86 Sul punto v. le interessanti riflessioni di BOGGIO, Amministrazione e controllo delle società di capitali in concordato preventivo (dalla domanda all’omologazione), in Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber

amicorum Antonio Piras, Torino, Giappichelli, 2010, 852 ss. e in part. 858 ss., secondo il quale, pur in presenza del presupposto oggettivo per l’accesso alla procedura di concordato, deve escludersi che lo «sbocco necessario della crisi dell’impresa societaria» sia la liquidazione dei beni sociali [864], in quanto lo stato di crisi e i presupposti per lo scioglimento delle società di capitali, e segnatamente la mancata ricostituzione del capitale minimo o l’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale, «sono situazioni che possono anche coesistere, ma che non necessariamente si avverano nello stesso momento storico» [860].

87 A differenze che nel fallimento, invero, il debitore conserva l’amministrazione dei propri beni e, se previsto nella proposta, continua l’esercizio dell’impresa. Egli subisce tuttavia una limitazione per quanto riguarda i poteri di gestione, in quanto può compiere autonomamente i soli atti di ordinaria amministrazione, risultando invece necessaria un’autorizzazione da parte del tribunale o del giudice delegato, per il compimento di quelli di straordinaria amministrazione nonché gli atti elencati dal secondo comma dell’art. 167 l. fall.

88 Così ancora NIGRO, La società per azioni nelle procedure concorsuali, cit., 336. In giurisprudenza si sono tuttavia talvolta riscontrate sporadiche posizioni difformi, come quella espressa da Trib. Udine (decr.), 21 dicembre 1985, in Le società, 1985, 409 ss., con nota di RORDORF, Concordato con cessione di beni e

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L’inidoneità delle procedure concorsuali in generale, e di quella concordataria in modo particolare, a determinare modificazioni della struttura corporativa dell’impresa societaria trovava una propria, intima, giustificazione in una «concezione della materia concorsuale essenzialmente incentrata sul patrimonio dell’imprenditore»89 e, dunque, finalizzata esclusivamente a regolare i rapporti esterni tra quest’ultimo e i suoi creditori. Tale assunzione di principio non ha peraltro mancato di condizionare apertamente il legislatore del 1942. La legge fallimentare, infatti, come è noto, include nel proprio articolato un nucleo assai limitato di norme espressamente dedicate le società insolventi, sul presupposto, implicito (ma non per questo meno evidente), per cui la disciplina concorsuale comune, ancorché modellata in maniera precipua sulle caratteristiche dell’impresa individuale90, potesse e dovesse trovare applicazione allo

stesso modo quale che fosse la natura giuridica del soggetto che vi era sottoposto91. Per

fall., 1994, 2, 741], la Corte di Cassazione ha tuttavia precisato che «nel caso in cui al concordato

preventivo sia ammessa un’impresa collettiva nella forma della società di capitali, vi è tutto un settore di situazioni giuridiche e di rapporti, che pur coinvolgendo la società in quanto tale, rimangono estranei ai rapporti concorrenti nella procedura concordataria. Si tratta dei rapporti […] coinvolgenti i poteri corporativi nella società nonché i suoi organi per i riflessi che la compagine comporta sul piano degli adempimenti societari, senza che dette situazioni e detti rapporti incidano sulle entità patrimoniali destinate alla soddisfazione dei creditori, né sui rapporti di impresa che determinano la massa passiva del concorso».

89 Il virgolettato in PINTO, Concordato preventivo e organizzazione sociale, cit., 101.

90 La legge fallimentare del 1942 infatti, in perfetta sintonia con l’impostazione classica del Code de Commerce francese – non a caso definito in dottrina come «codice dei bottegai» [così VIVANTE, Trattato

di diritto commerciale, vol. I, Milano, Vallardi, 1922-1926, 339] – assume a «quasi esclusivo protagonista delle

procedure concorsuali l’imprenditore individuale, sul cui modello appiattisce anche le imprese collettive» (corsivo nel testo): cosìNIGRO, La società per azioni nelle procedure concorsuali, cit., 214, ma sul punto v. pure FORTUNATO, Procedure concorsuali e società nella prospettiva della riforma, in Giur. comm., 2004, 2, 231 ss., il quale riporta il pensiero di Gastone Cottino e segnatamente l’assunto per cui «la disciplina fallimentare è contrassegnata da un alto grado di personalizzazione. L’imprenditore cui essa si rivolge è, di regola, l’imprenditore individuale, in diretta derivazione – si direbbe – dal mercante individuale» (corsivo nel testo) [così COTTINO, Diritto commerciale, II ed., Padova, CEDAM, 1978, 616]. L’idea per cui la legge fallimentare possa limitarsi a dettare «poche e semplici norme» che riguardino il fallimento delle società, come si legge nella Relazione ministeriale alla legge fallimentare (n. 34), è stata sporadicamente sostenuta anche in dottrina: v. SCHLESINGER, Il fallimento delle società, in Il fallimento delle società nelle prospettive di

riforma. Atti del Convegno SISCO (Milano, 16 novembre 1985), Milano, Giuffrè, 1986, 1 ss. e in part. 7, ove

si legge che «in linea generale sul fallimento delle società non vi sono problemi specifici, nel senso che le società sono assoggettate alla procedura fallimentare quando si trovano in stato di insolvenza, al pari di ogni altra impresa; e la procedura si svolge senza che assuma rilevanza il fatto che sia fallita una società anziché un imprenditore individuale».

91 Sul punto v. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, vol. III, Contratti, titoli di credito, procedure concorsuali, V ed., Torino, UTET, 2015, secondo il quale «al fallimento delle società è in via di principio applicabile la disciplina [generale], sia pure con gli adattamenti imposti dal dato che non si è in presenza di un imprenditore individuale. Il che non manca di sollevare alcuni problemi, solo in parte risolti dalla scarna disciplina specifica dettata dalla legge fallimentare». L’insensibilità della disciplina concorsuale rispetto alla natura giuridica dell’impresa che vi è sottoposta costituisce un aspetto problematico della normativa civilistica e fallimentare che neppure la riforma organica del biennio 2005-2006 è stata in grado di risolvere, in quanto il legislatore della riforma ha «mostrato di voler raccogliere le sollecitazioni

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quanto riguarda, poi, il profilo interno degli effetti di una procedura concorsuale sull’organizzazione sociale, il summenzionato principio di neutralità lasciava intendere che, per tutti gli aspetti non disciplinati nel capo X della legge fallimentare, diversi e ulteriori sia rispetto ai profili esclusivamente formali e procedimentali attinenti l’attribuzione della legittimazione, sia alle regole di raccordo tra la posizione della società insolvente e quella dei soci92, dovessero continuare a trovare applicazione le norme di diritto societario comune.

Ebbene, se inizialmente l’assetto così delineato ha contribuito ad “impermeabilizzare” i rapporti tra diritto societario e diritto della crisi d’impresa93, al punto che sul tema dell’insolvenza delle società si sono a lungo registrate soltanto

provenienti dalla dottrina che più volte aveva richiamato l’attenzione sulla necessità di dettare una disciplina delle crisi che tenesse adeguatamente conto della particolare struttura del soggetto che vi sia sottoposto e, quindi, calibrata, ove del caso, anche e proprio sulla struttura societaria»: così NIGRO, La

riforma «organica» delle procedure concorsuali e le società, in Dir. fall., 2006, 5, 781 ss. Ancor più radicale la

posizione di JORIO, Crisi d’impresa e controlli interni, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum G. F.

Campobasso, diretto da Abbadessa-Portale, vol. III, Controlli, bilancio, modificazioni dello statuto, s.r.l., gruppi di società, Torino, UTET, 2007, 71 ss. e in part. 75, a detta del quale all’esito della riforma «sono stati fatti

alcuni passi indietro», in particolar modo in relazione alla disciplina dei controlli interni. Parla della permanenza di alcuni «dubbi “ancestrali”», tra i quali «i risvolti del fallimento sull’organizzazione societaria», DEMARCHI, voce Società (fallimento delle), in Dig. Disc. Priv., Sezione Commerciale, Aggiornamento, Torino, UTET Giuridica, 2007, 832 ss. Deve peraltro sottolinearsi come ancor prima della stagione di riforma della legge fallimentare, ovverosia in occasione della riforma organica del diritto societario del 2003, il legislatore delegato aveva interpretato in maniera abbastanza riduttiva il criterio contenuto all’art. 1 della legge delega n. 336 del 2001, in forza del quale la riforma avrebbe dovuto coordinare la nuova disciplina «con le altre disposizioni vigenti, ivi comprese quelle in tema di crisi d’impresa». Di talché il legislatore, «anziché costruire il nuovo regime delle società di capitali anche e proprio in funzione della prevenzione e della soluzione della crisi: il che avrebbe sicuramente aiutato il faticosissimo processo di riforma delle procedure concorsuali, si è limitato a pochi e sporadici interventi, quelli che ha evidentemente ritenuto strettamente indispensabili»: così NIGRO, Diritto societario e procedure

concorsuali, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum G. F. Campobasso, diretto da Abbadessa-Portale,

vol. I, Profili generali, costituzione, conferimenti, azioni, obbligazioni, patrimoni destinati, Torino, UTET, 2006, 177 ss.

92 Si tratta delle disposizioni che regolano gli effetti del fallimento delle società con soci illimitatamente responsabili, vale a dire di società che, tipicamente anche se non esclusivamente, sono riconducibili alla categoria delle società di persone: «con il che la disciplina concorsuale specifica delle società di capitali appare ridotta veramente al minimo» (corsivo nel testo): cosìNIGRO, La società per azioni nelle procedure

concorsuali, cit., 214. Peraltro, è stato al riguardo sottolineao che «il capo dedicato alle società non ha la

funzione di introdurre una disciplina speciale, all’interno della procedura concorsuale», bensì quella di «disciplinare gli effetti che il fallimento dell’imprenditore collettivo comporta nei confontri dei soci»: così DEMARCHI, voce Società (fallimento delle), cit., 833.

93 È stato sottolineato come «per oltre sessant’anni, la legge fallimentare e il diritto dell’impresa, segnatamente di quella organizzata in codici societari, hanno percorso cammini irrelati e comunque reciprocamente ininfluenti, dacché declinati (e imprigionati) in un reciproco rapporto di apparente ossequiosa, quanto orgogliosa, autonomia. Un’autonomia che si è poi venuta a tradurre, nel tempo, in una grammatica, in un linguaggio e, quindi, in principi distinti, spesso distonici se non antitetici»: così BENAZZO, Crisi d’impresa, soluzioni concordate e capitale sociale, in Riv. soc., 2016, 2-3, 241 ss.

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trattazioni «episodiche e disorganiche» da parte della dottrina94, esso ha successivamente prestato il fianco a critiche serrate, le cui ragioni possono schematicamente ricondursi a due filoni. Per un verso, infatti, si è notato come l’assenza di una disciplina speciale per la crisi dell’impresa collettiva societaria abbia iniziato a mostrare consistenti segni di anacronismo e di inadeguatezza nel momento in cui si è assistito ad un vistoso declino delle imprese individuali in termini di importanza nella vita economica del nostro paese: fenomeno cui ha fatto da contraltare il prepotente affermarsi delle imprese collettive, organizzate perlopiù secondo gli schemi tipici delle società di capitali. Se oggi tale transizione può dirsi definitivamente compiuta, al punto che quella societaria rappresenta la forma normalmente assunta dall’impresa – e ad essere dichiarate fallite risultano, nella stragrande maggioranza dei casi, imprese organizzate in forma societaria – emerge allora con chiarezza come sia divenuta oltremodo pressante l’esigenza di riservare alle società, e segnatamente a quelle di capitali, un trattamento adeguato, in punto di disciplina, anche in contesti di crisi d’impresa95.

Per altro verso, l’incomunicabilità tra sistemi normativi – e la tendenziale “impermeabilità” dell’organizzazione sociale rispetto alla procedura – si è appalesata ancor più inadeguata nel momento in cui il fine ultimo della disciplina concorsuale ha iniziato a virare dalla mera liquidazione del patrimonio dell’imprenditore in stato di crisi o di insolvenza alla valorizzazione di istanze di conservazione e di risanamento dell’impresa96. Con ciò infatti, se per un verso sono aumentate le possibilità di

94 Così FERRI jr., Insolvenza e crisi dell’impresa organizzata in forma societaria, cit., 413 e nt. 1, ove si rimanda per gli opportuni riferimenti bibliografici. Per considerazioni analoghe, quanto all’essere il tema della crisi dell’impresa societaria «un argomento singolarmente negletto», v. MONTAGNANI, Diritto societario e

procedure concorsuali: spunti di riflessione, in Banca borsa tit. cred., 1996, 6, 613 ss.

95 L’esistenza di una vera e propria «lacuna della legislazione concorsuale», insita nell’assenza di una regolamentazione organica della crisi e dell’insolvenza delle società e particolarmente evidente nell’ambito delle soluzioni negoziate, degli effetti del fallimento sull’organizzazione societaria e del

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