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Il problema della definizione

C’è un senso in cui la storia di una teoria è anche la storia delle sue difficoltà e dei suoi problemi. Per parlare della teoria presentista del tempo sceglieremo un approccio che prende sul serio questo caveat e cerca di illustrare la teoria proprio muovendo dai suoi limiti. Al di là di quanto paradossale possa sembrare inizialmente, questo metodo non complicherà le cose più del necessario. Anzi, in un certo senso è il più logico da seguire se si parla del presentismo, visto e considerato che uno dei suoi maggiori problemi è proprio quello di darne una definizione adeguata.

Fino ad ora ci siamo limitati a considerare il presentismo come quella delle teorie A, cioè le teorie dinamiche del tempo, secondo cui solo l’istante e gli eventi presenti sono reali. Si potrebbe quindi provvisoriamente definire il presentismo come la teoria che sostiene e si basa sulla seguente tesi:

(P) Tutto ciò che esiste è presente.

Diversi autori hanno obiettato che tale formulazione del presentismo lo rende ovviamente, ma banalmente, vero oppure ovviamente falso. Vediamo per esempio come tale obiezione è sviluppata da Meyer (2005).

Egli parte riscrivendo la tesi presentista nel modo seguente, di per sé logicamente equivalente al primo:

(P*) Niente esiste che non sia presente.

Ora, secondo Meyer il verbo “esistere” per come è utilizzato in questa formulazione del presentismo è sostanzialmente ambiguo. Una certa lettura di esso rende (P*) vera ma banale, e soprattutto la rende una tesi con cui anche il teorico B potrebbe essere d’accordo. In tal caso, il presentismo sarebbe squalificato come teoria sostanziale in grado di difendere una concezione dinamica della realtà. L’altra lettura, invece, rende la tesi ovviamente falsa.

Vediamo dunque quali sarebbero le due letture alternative del verbo “esistere”. La prima sarebbe una lettura tensionale, che interpreta esistere nel senso “esistere adesso”. In questo senso la tesi difesa dal presentista diverrebbe:

57 (P1) Niente esiste adesso che non sia presente

Questa affermazione è senz’altro vera ma appunto banalmente vera. Se consideriamo infatti che le nozioni di adesso e di presente sono sinonime, quantomeno per come vengono solitamente intese nel dibattito in filosofia del tempo, non potrà mai essere falso che ciò che esiste adesso – cioè ciò che esiste nel presente – sia presente. Il presentismo non consisterebbe allora in nient’altro che una banalità, una che oltretutto anche il teorico B può accettare. Egli infatti può interpretare (P1) nel modo seguente: “Tutto ciò che esiste simultaneamente al proferimento di questo enunciato è simultaneo al proferimento di questo enunciato”. Un’affermazione certamente sempre vera.

L’altra lettura del verbo “esistere” sarebbe quella atensionale: il verbo viene interpretato come “esiste adesso, o è esistito o esisterà”, o anche come “esiste a un dato istante” o “esiste temporalmente”. Abbiamo quindi:

(P2) Niente esiste a un dato istante che non sia presente

I critici del presentismo sostengono che (P2) sia ovviamente falsa. Meyer (2005) argomenta questo punto nel modo seguente:

“Cesare può aver attraversato il Rubicone solo se è esistito. Se è esistito allora è esistito a un dato istante passato, e quindi esiste temporalmente. Ma Cesare non esiste adesso; è morto alle idi di Marzo nel 44 a.C. Tuttavia, se Cesare ha attraversato il Rubicone (e lo ha fatto) allora c’è un oggetto (cioè Cesare) che esiste temporalmente ma non è presente.” (pag. 214)

L’argomentazione, che di per sé appare piuttosto intuitiva, può essere analizzata nel modo seguente: possiamo stabilire con sufficiente certezza che Cesare abbia attraversato il Rubicone; affinché abbia potuto farlo deve essere esistito; dire che Cesare è esistito non significa altro che c’è un istante t passato il quale contiene l’evento di Cesare che attraversa il Rubicone; ma questo istante è appunto passato, non è presente, poiché è anche ovvio che Cesare non esiste adesso, nel presente. Dunque (P2) è falsa, e con essa il presentismo.

Si può facilmente notare come l’obiezione al presentismo riguardo alla sua formulazione sia legata a doppio filo a quella, cui abbiamo già accennato, relativa ai fattori di verità per gli enunciati al passato. Esse sono molto simili, se non di fatto la stessa. Sicuramente entrambe fanno leva sulla parsimonia ontologica della teoria presentista, che da vantaggio rispetto alle altre teorie A rischia di tradursi in difetto

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fatale. Il problema è, in sostanza, che il solo presente sembra troppo stretto e troppo povero ontologicamente per poter fondare tutte le verità sul passato che abbiamo buone ragioni di ritenere affidabili (come, appunto, l’attraversamento del Rubicone da parte di Cesare).

Per rispondere all’obiezione avanzata da Meyer (2005) il presentista ha generalmente tre possibilità. La prima è affermare che vi è un terzo modo di interpretare il verbo “esistere” oltre ai due precedenti, in grado di fornire una caratterizzazione adeguata della teoria presentista. La seconda, come la prima, nega che la tesi presentista sia adeguatamente caratterizzata nei termini di (P1) o di (P2), e sostiene al contrario che bisogna utilizzare una formulazione che sfrutta il formalismo logico e i quantificatori. La terza possibilità consiste invece nell’accettare (P2), ma negando che questo comporti una rinuncia alle verità passate.

Di queste tre alternative la terza è senz’altro la più efficace. Essa non solo concede all’avversario l’adeguatezza della sua analisi (andando però a negarne le conseguenze sperate), ma può anche risolvere due problemi in un colpo solo: quello della formulazione del presentismo e quello dei fattori di verità per gli enunciati al passato. Questa possibilità è quindi quella che sarà esplorata per ultima, in relazione al secondo problema.

Per vedere come si articolano le prime due alternative, riesponiamo l’argomento avanzato da Meyer, che possiamo chiamare argomento della trivialità, in una versione leggermente più formale:

(1) La definizione standard del presentismo – che tutto è presente – è equivalente alla tesi che tutto ciò che esiste è presente.

(2) L’enunciato ‘Tutto ciò che esiste è presente’ deve esprimere o la proposizione che tutto ciò che esiste adesso è presente – come sopra (P1) – o quella per cui tutto ciò che esiste, è esistito, o esisterà è presente – analogamente a (P2).

(3) La proposizione che tutto ciò che esiste adesso è presente è banalmente vera, anche per un sostenitore della teoria B.

(4) La proposizione che tutto ciò che esiste, è esistito o esisterà è presente è falsa, anche per un sostenitore del presentismo.

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Deasy (2019) mostra in che modo tutte le premesse dell’argomento, fatta eccezione per la (1), possano essere in linea di principio rifiutate dal presentista. Egli sostiene che la premessa (4) può essere rifiutata dal presentista affermando che qualcosa che è passato, come ad esempio Cesare, esista nel presente; tuttavia, poiché nel presente non esiste niente che di fatto sia Cesare, il presentista può sostenere che Cesare esista nel presente ma non come una cosa. Cesare è presente ma non è qualcosa. Ora, non è facile dire come questa proposta possa esser presa sul serio; o almeno, così sarà finché qualche presentista non specificherà in che senso si può esistere non essendo una cosa. Ciò che è interessante su questo punto è vedere in che modo il concetto di esistenza e i suoi rapporti col concetto di “cosa” diventino oggetto di riflessione in filosofia analitica; andando avanti vedremo altri esempi di come questi temi stiano lentamente divenendo motivo di riflessioni filosofiche esplicite nel campo della filosofia del tempo, fatto tanto più importante in quanto sembra profilare una certa tendenza un po’ sfrenata alla entizzazione.

Ad ogni modo, scegliere di rifiutare la premessa (3) è senz’altro più efficace in questo contesto. Per la (3), dire che tutto ciò che esiste adesso è presente è un’affermazione banale. Tuttavia, fa notare Deasy, per affermare ciò bisogna presupporre che “esistere adesso” e “essere presente” abbiano lo stesso significato. Confrontiamo allora i seguenti due enunciati: “Si è dato il caso che Cesare fosse presente”; “Si è dato il caso che Cesare esista adesso”. Ora, la maggior parte dei presentisti e, più in generale, dei teorici A accetterebbe senz’altro il primo: ciò che esso significa è che si può affermare legittimamente che il presente ha contenuto Cesare. Tuttavia, certamente essi rifiuterebbero il secondo: il fatto che Cesare sia stato presente non implica che lo sia adesso. Ergo, la premessa (3) è falsa, poiché è falso dire che tutto ciò che esiste adesso sia presente è una verità banale. Ora, cosa deve fare il presentista per potersi avvalere di questa risposta? Fondamentalmente tre cose: accettare che ci sia una differenza tra le nozioni di “presente” e “esistenza”;17 saper dare una formulazione coerente del divenire e del passaggio del tempo; trovare spazio nella sua teoria per i fattori di verità degli enunciati al passato. Questi ultimi due non sono compiti facili per un presentista, ma neanche impossibili, e va detto che. se si riesce a farvi fronte, allora molti altri tipi di obiezioni passano in secondo piano.

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Come vedremo, il presentista potrebbe negare questa differenza. Tuttavia, il vantaggio maggiore nel farlo consiste proprio nel non dover più utilizzare la nozione di “presente”, che un presentista – a discapito del nome – potrebbe considerare come troppo vaga al livello teorico. Dispensandosi di tale nozione egli si rende autonomamente immune all’argomento della trivialità.

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Naturalmente, il modo migliore per smontare l’argomento della trivialità è negare la premessa (2). Deasy (2019) sostiene che essa si basi sull’assunto implicito per cui tutti i verbi del linguaggio naturale vadano letti tensionalmente. Ad esempio, ogni occorrenza del verbo “esistere” sarebbe essenzialmente tensionale, per cui un enunciato come “Io sono biondo” sarebbe sinonimo di “Io sono biondo adesso”. Il presentista potrebbe rifiutare quest’assunto e affermare che esiste invece una lettura atensionale dei verbi, la quale può essere sfruttata dal presentista per definire la sua teoria. Tra gli esempi forniti da Deasy di utilizzi atensionali dei verbi vi sono i seguenti:

(5) Io sono in New Jersey il 12 Gennaio 2004. (6) Due più due è uguale a quattro.

(7) L’energia totale di un sistema isolato è costante.

Più sopra (sez. 1.3) si è rifiutata la possibilità di dare una lettura atensionale dei verbi, e in particolare del verbo essere. Si è visto che su tale rifiuto si basa una delle possibili risposte – quella fornita da Savitt (2001) – al paradosso di McTaggart. In effetti, se consideriamo gli esempi di verbi atensionali forniti da Deasy possiamo vedere che la presunta atensionalità, o atemporalità, di (6) e (7) è dovuta al contenuto espresso dall’enunciato più che a un utilizzo particolare dei verbi. La frase (5) è semplicemente vaga; l’utilizzo del verbo essere al presente potrebbe benissimo esprimere una proposizione futura, se quell’enunciato è proferito prima del 12 Gennaio 2004, oppure passata – come quando facciamo una ricapitolazione di qualcosa che ci è accaduto – se proferita prima. La validità di questi esempi rimane così controversa. Ciò che è qui importante sottolineare è che, se il presentista sceglie questa via di risposta all’argomento della trivialità, si priva per ciò stesso di un’altra possibile risposta al paradosso di McTaggart. Tuttavia, si deve anche notare che non solo ci sono altre risposte possibili al paradosso, oltre al fatto che nella sua definizione standard il presentismo ne è già immune. Orilia (2012, pag. 115) fa notare che non dovrebbe essere consentito a un presentista, in quanto sostenitore di una teoria dinamica del tempo, di avvalersi di una lettura atensionale dei verbi. Non è chiaro tuttavia su cosa si basi questa restrizione, specialmente considerando che il presentista sfrutterebbe l’atensionalità solamente per una definizione e che le teorie filosofiche del tempo sono da intendere come teorie metafisiche e ontologiche più che come teorie del linguaggio temporale. In risposta a timori di questo tipo alcuni presentisti – come Tallant (2014) – hanno scelto di utilizzare una terza lettura del verbo “esistere”, e cioè quella di esistere simpliciter.

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Tuttavia, il senso di questa lettura, che non dovrebbe essere né tensionale né atensionale, rimane oscuro e contestato da molti.

Risposta migliore e per certi versi definitiva è invece negare che la tesi presentista vada espressa attraverso dei verbi. Deasy (2017) propone uno dei molti modi possibili di riscrivere la tesi presentista sfruttando il linguaggio della logica del primo ordine:

(8) ∀x (∃y : y = x → Presente (x))

Questa scrittura significa: “Per ogni entità (per tutto ciò che esiste), c’è un’entità tale che, il fatto che esse siano identiche implica che la prima è presente”.

Orilia (2012, pag. 116) ha suggerito un altro modo, il più semplice possibile, di rendere lo stesso concetto:

(9) ∀x (Presente (x))

Questa risposta è più efficace poiché, come spiega Deasy (2017), i quantificatori della logica del prim’ordine non vanno concepiti come dei verbi:

“I quantificatori standard della logica dei predicati del prim’ordine non sono né ‘tensionali’ né ‘atensionali’. […] i quantificatori non sono verbi, sono quantificatori: espressioni della forma ‘∃xα’ possono semplicemente essere lette come ‘per qualche

x,α’, in cui la tensionalità (se ve n’è alcuna) si trova interamente in α, mentre le

espressioni della forma ‘∀xα’ possono essere lette come ‘per ogni x,α’, dove anche qui la tensionalità (se ve n’è alcuna) si trova interamente in α. Non c’è quindi nessuna ragione per cui i quantificatori debbano essere pensati secondo una delle due letture.” (pag. 381)

Come non è certo infrequente in filosofia, una soluzione che appare definitiva non lo è poi davvero. Si potrebbe obiettare che, scrivendo quella tesi della propria teoria nel linguaggio logico, il presentista è costretto a reintrodurre il Presente come proprietà. Questo non necessariamente squalifica la sua proposta, anche se abbiamo visto come uno dei maggiori vantaggi della teoria presentista fosse la possibilità di fare a meno del Presente concepito come una proprietà temporale. C’è tuttavia un modo abbastanza semplice col quale il presentista può sfuggire anche a questa obiezione. Si può infatti – e più in generale, si deve – porre una distinzione tra logica e ontologia, e affermare che non a tutto ciò che nel linguaggio logico viene trattato come una proprietà corrisponde nell’ontologia una proprietà autentica. Per fare un esempio, potrei rappresentare nel linguaggio logico tramite il simbolo “P” la proprietà di “essere un uomo o essere un

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animale”. Tuttavia, questo non significa che io ammetta nella mia ontologia tale proprietà come effettiva e genuina; più probabile infatti che consideri come proprietà realmente esistenti solo “essere uomo” ed “essere animale”, mentre P come una pura e semplice costruzione logica, appunto. Lo stesso può dire il presentista: “Presente” è un’espressione che al livello logico è trattata come una proprietà, ma al livello ontologico la nozione di presente deve trovare un altro trattamento e un’altra analisi.

Ci rimane quindi da vedere come il presentista possa trovare fattori di verità per gli enunciati al passato. Questo è forse il problema puramente filosofico più pressante per una teoria presentista ed è un punto sul quale i suoi critici insistono molto. Da esso derivano anche altri problemi simili, strettamente collegati.18 Coerentemente con la nostra decisione iniziale di esporre le caratteristiche del presentismo a partire dalle sue problematiche, vedremo come le diverse specie di presentismo sono nate e si sono sviluppate proprio dalla necessità di rendere conto della realtà del passato.