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La progressione sanzionatoria

64 Sul punto, S CAVALLINI, op cit., p 12 s.

1. La progressione sanzionatoria

La riformulazione delle figure di false comunicazioni sociali (c.d. “falso in bilancio”, come si è soliti definirle ormai, non solo nel campo giudiziario-forense, ma anche in quello della riflessione scientifica), nell’ambito della riorganizzazione degli illeciti societari, ha rappresentato certamente l’obiettivo principale avuto di mira dal legislatore, ma anche il più controverso. Essa risulta l’espressione più evidente del già indicato ridimensionamento dell’utilizzo dello strumento punitivo, attuato in diversi settori del diritto penale economico, ed in particolare del gradualismo sanzionatorio che, in questo caso, ha portato alla configurazione di due diverse ipotesi di incriminazione, in sostituzione del vecchio reato previsto unicamente in forma delittuosa.

Si tratta, perciò, del campo di intervento normativo che, in assoluto, più di tutti si è prestato alla sperimentazione delle possibili e diverse tecniche di non punibilità utilizzabili per la selezione dell’area di rilevanza penale, a partire dalla prima e, di sicuro, più significativa riforma del 2002, le cui conseguenze sul piano applicativo rivestono particolare importanza per quel che concerne specificatamente il tema che ci occupa, nonostante il recentissimo intervento di modifica realizzato con la l. 27 maggio 2015, n. 69 («Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio»)140, che ha ulteriormente innovato la materia. Infatti, quello che qui più interessa – è chiaro – non è dar conto di come, in generale, le false comunicazioni sociali sono regolamentate, bensì mettere in luce, rispetto a tali figure, il concreto operare della (non) punibilità e, dunque, è da questa specifica prospettiva che si proverà a ricostruirne la disciplina. Senza contare poi che, al momento, è comunque la normativa previgente quella a cui fare riferimento per poter analizzare effettivamente la concreta operatività dei vari filtri selettivi utilizzati dal legislatore; mentre, riguardo alle nuove norme, ci si limiterà semplicemente, considerato il brevissimo periodo di vigenza, ad ipotizzare dei possibili sviluppi pratici, ammesso che ce ne saranno. Salvo, naturalmente, esaminarne i principali profili innovativi, sempre dal peculiare punto di vista che ci si è assegnati ed, in particolare, allo scopo di valutare se l’esasperata selezione che caratterizzava le ormai vecchie figure, e che di fatto aveva portato alla loro pressoché totale disapplicazione, possa dirsi realmente superata.

Nello specifico, il d.lgs. 61 del 2002 (di recepimento della l. delega n. 366/2001) – negli artt. 2621 e 2622 c.c. – utilizzava il modello della sanzione amministrativa (a seguito dell’ulteriore intervento di modifica operato dalla l. 262/2005), quello dell’illecito

                                                                                                               

contravvenzionale, quello delittuoso con procedibilità a querela e quello delittuoso con procedibilità d’ufficio.

La contravvenzione di «false comunicazioni sociali» (art. 2621 c.c.) costituiva la fattispecie base, peraltro residuale rispetto al delitto di «false comunicazioni sociali in danno della società,

dei soci o dei creditori sociali» (di cui al successivo art. 2622 c.c.), come si evinceva dalla

clausola di riserva – che peraltro rimane anche nella nuova versione – posta in apertura della norma di disciplina. In entrambi i casi venivano in rilievo ipotesi di falsità concernenti la veridicità dell’attestazione contenuta nelle voci di bilancio. Nulla di diverso, dunque, da quello che risulta essere il nucleo fondante dell’incriminazione anche nell’attuale formulazione: ciò che è dichiarato non corrisponde a quanto effettivamente sussiste in ordine alla situazione economica, finanziaria o patrimoniale della società, oppure le informazioni omesse avrebbero dovuto essere comunicate, perché imposte dalla legge ai fini di una corretta rappresentazione della situazione medesima.

La fattispecie contravvenzionale era configurata nella forma di reato di pericolo141, sia pure con la previsione del dolo specifico di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, affiancato al dolo generale che animava la condotta tipica delle informazioni false o omesse, e a quello intenzionale integrato dalla precisa volontà di ingannare i destinatari delle comunicazioni (soci o il pubblico). Si trattava, dunque, di un’ipotesi a consumazione anticipata rispetto alla seconda figura richiamata, quella delittuosa, che si presentava strutturalmente analoga ma nella forma di reato di danno, in quanto richiedeva, come requisito ulteriore, il verificarsi di un danno patrimoniale nei confronti dei soggetti già espressamente indicati nella rubrica della disposizione di riferimento (società, soci o creditori).

In ragione del realizzarsi dell’evento di danno, si delineavano, oltre al mutamento del titolo del reato, un differente trattamento di pena e, sul piano processuale, un diverso regime di procedibilità. La contravvenzione, perseguibile d’ufficio, era stata oggetto di un vistoso abbattimento delle cornici edittali rispetto alla vecchia figura disciplinata dall’originario art. 2621 c.c. e punita con la reclusione da uno a cinque anni; la pena (innalzata solo a seguito dell’entrata in vigore della citata l. 265/2005) consisteva nell’arresto fino a due anni. La notevole riduzione del trattamento sanzionatorio, oltre al beneficio in sé che rappresentava, comportava un altro non meno significativo effetto favorevole al reo, e cioè l’abbassamento del termine necessario per la prescrizione del reato, che – in assenza di disposizioni derogatorie della disciplina generale e trattandosi di contravvenzione – dai precedenti dieci anni si riduceva, nel massimo, a (soli) quattro anni.

L’ipotesi delittuosa, la quale risultava “sdoppiata” in due diverse figure a seconda che il fatto di reato si fosse realizzato in società non quotate oppure quotate in borsa, era assoggettata – nel primo caso – alla pena della reclusione da sei mesi a tre anni ed era procedibile a querela dell’offeso; nel secondo caso, era punita con la reclusione da uno a quattro anni e diventava procedibile d’ufficio. Anche qui la prescrizione seguiva la regola generale e operava in un tempo massimo di sei anni.

Per entrambe le fattispecie, poi, erano stabilite soglie di punibilità a cui era subordinata la rilevanza penale delle stesse, in quanto l’attestarsi “sotto la soglia” determinava la loro degradazione ad illecito amministrativo. Peraltro, come già osservato, nella prima formulazione delle fattispecie (precedente alla modifica operata con l. 262/2005) non era prevista nemmeno

                                                                                                               

141 A riguardo, cfr. M. DONINI, «Abolitio criminis» e nuovo falso in bilancio. Struttura e offensività delle false

una sanzione amministrativa e, dunque, i fatti che non superavano le soglie erano considerati leciti.

Ciò che appare immediatamente discutibile a proposito della tecnica legislativa utilizzata nel 2002 per riformulare il reato di false comunicazioni sociali non attiene tanto alla scelta di ridurne la nozione (si è, per esempio, limitato l’ambito di operatività delle novellate norme solo alle comunicazioni sociali «previste dalla legge» e «dirette ai soci o al pubblico»), attraverso una selezione razionale dei fatti meritevoli di sanzione penale, rendendo più determinata e maggiormente offensiva la fattispecie (a fronte dell’eccessiva elasticità della previgente disposizione), ma piuttosto a quella di aver sovraccaricato la figura di requisiti aggiuntivi ai profili di offensività, che ne hanno ridotto la portata applicativa ed il carico sanzionatorio142. Il

riferimento è alla introduzione dell’ipotesi contravvenzionale – come visto – con termini prescrizionali molto brevi, anticipata rispetto al momento del danno patrimoniale, ma che comunque postulava un’attitudine lesiva concreta che risiedeva nella idoneità della comunicazione falsa ad indurre in errore i destinatari sulla complessiva situazione economica della società; alla sovrapposizione di più forme di dolo; all’aggiunta del danno patrimoniale, quale evento dell’ipotesi delittuosa, cui conseguivano enormi difficoltà di accertamento probatorio; al diverso regime di procedibilità; alle contestate soglie di punibilità, di tipo genericamente quantitativo e altre espresse in termini percentuali, che ritagliavano un’area di illiceità amministrativa e comportavano – lo si vedrà in seguito – profili problematici di non poco rilievo.

Lascia, dunque, perplessi osservare come, contestualmente all’inserimento di molteplici elementi costitutivi, che, di fatto, circoscrivevano la rilevanza penale delle fattispecie, oltre a renderne difficoltoso l’accertamento, il legislatore si fosse orientato per una significativa riduzione della forbice edittale; così come singolare appare la ratio sottesa alla scelta – che meglio si specificherà di seguito – in tema di procedibilità, del tutto avulsa da qualsivoglia considerazione in merito alla gravità del fatto. Non è per nulla infondato, allora, ipotizzare che probabilmente l’obiettivo perseguito con l’intervento di riforma del 2002, dietro la dichiarata intenzione di maggiore tipizzazione del falso in bilancio, fosse proprio quello di incidere sulla concreta applicabilità del reato, attraverso meccanismi selettivi del tutto peculiari, che, in sostanza, trasformavano il ruolo della non punibilità, con inevitabili ripercussioni – lo vedremo – pure sul piano processuale.

Si parla anche, a riguardo, «di una notevole complessità della trama normativa, per la presenza di numerosi elementi della fattispecie e per l’inedita progressione sanzionatoria», sottolineando l’efficacia deflattiva dell’abbassamento dei limiti edittali di pena, il quale, nel contesto di un generale potenziamento dello strumento punitivo nei confronti della criminalità ordinaria, trasmetteva «un chiaro messaggio di modestissima gravità delle falsità contabili, sostanzialmente tratteggiate come mere irregolarità gestionali o contabili»143.

D’altronde, il frequente ricorso, da parte del legislatore, ai diversi possibili filtri di selezione della rilevanza penale delle ipotesi criminose e l’inserimento nel fatto tipico di elementi che possano ridurne l’applicazione in concreto, e solo superficialmente completarne la precisione di formulazione, caratterizza larga parte del diritto penale societario attuale144; senza dubbio, da

                                                                                                               

142 E.M. AMBROSETTI, E. MEZZETTI, M. RONCO, op. cit., p. 112.

143 Così, A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, cit., p. 274 e 308. V., ancora, A. ALESSANDRI, Alcune

considerazioni generali sulla riforma, in ID (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano, Ipsoa, 2002, p. 9 ss.

144 V., a titolo esemplificativo, l’illecito di falsità delle società di revisione, ex art. 27, d.lgs. n. 39/2010 (Riforma della

revisione legale), in cui la selezione del fatto punibile è affidata alla strutturazione del reato in termini di pericolo (contravvenzione) e di danno (delitto), a seconda che si cagioni o meno un danno patrimoniale ai destinatari della

questo punto di vista, le figure de quibus si sono mostrate esemplari, tant’è che – con particolare acutezza – le si è definite come ipotesi «smunte ed emaciate»145, che molto raramente venivano applicate e semmai rivivevano, con elevato rigore sanzionatorio, nelle ipotesi di bancarotta (nei casi di successivo fallimento), oppure sottese a quelle degli abusi di mercato, che spesso, nella pratica giudiziaria, ne hanno preso il posto.

Per quanto riguarda, in particolare, l’utilizzo del modello dell’illecito contravvenzionale, che peraltro risulta – anch’esso – generalizzato nell’ambito della riformulazione della materia penale societaria146, è evidente che tale opzione legislativa risulti poco opportuna e scarsamente giustificabile dal punto di vista della politica criminale, tenuto conto dei tempi lunghi che caratterizzano l’attuale processo penale e dell’intrinseca complessità delle indagini, di regola, necessarie per l’accertamento della maggior parte degli illeciti societari. E a questo proposito si è fatto riferimento, molto efficacemente, ad una depenalizzazione «strisciante» o «di fatto» del reato di false comunicazioni sociali di cui al previgente art. 2621 c.c.147, avuto riguardo alla

lentezza dei non facili accertamenti giudiziari in relazione al veloce trascorrere del tempo necessario a prescrivere il reato.

Nondimeno, la degradazione ad illecito contravvenzionale della figura di pericolo, che ha da sempre rappresentato, nella tradizione della normativa penale delle società, il fulcro della tutela della trasparenza dell’informazione societaria e del libero mercato, viene considerata, quasi unanimemente, «un vero e proprio tradimento della originaria ragion d’essere della fattispecie»148, trasmettendo, insieme alla riduzione del trattamento sanzionatorio su livelli minimi anche dell’ipotesi delittuosa e alla connotazione prettamente privatistica che questa aveva assunto, una sorta di messaggio, inviato alla comunità degli affari, di marginalizzazione delle patologie dell’impresa, nonostante il riflesso negativo che le stesse proiettano verso il mercato e il mondo dell’economia in generale149.

Peraltro, molti di questi aspetti critici si sono tradotti in dubbi sulla legittimità costituzionale dei vecchi articoli 2621 e 2622 c.c.150.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

comunicazione, ed in particolare alle immaginabili difficoltà di accertamento probatorio della fattispecie di danno; e quello di omessa comunicazione del conflitto di interessi (art. 2629 bis c.c.), in cui l’effetto selettivo discende dalla sovrabbondanza di elementi di fattispecie: il reato è soggettivamente limitato agli amministratori solo di alcuni tipi di società, oltre a quelle quotate (banche, assicurazioni), assume come elemento costitutivo della condotta tipica la violazione del precetto civilistico di cui all’art. 2391, comma 1, c.c., è previsto anche in questo caso il requisito del danno. In sostanza, l’omessa comunicazione, da parte dell’amministratore (così come individuato dalla norma), di un interesse personale in una determinata operazione della società, con l’obbligo di astensione per l’amministratore delegato o unico (e conseguente informativa al consiglio o all’assemblea), è punita sola alla condizione che essa abbia cagionato un danno alla società o a terzi.

145 Per questa definizione, v. T. PADOVANI, Il cammello e la cruna dell’ago. I problemi della successione di leggi penali

relativi alle nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, in Cass. pen., 2002, p. 1598 ss.

146 Si pensi al reato di falso in prospetto, prima previsto dall’art. 2623 c.c., che è stato poi abrogato dalla l. 262/2005, la

quale lo ha introdotto nel Testo Unico della Finanza (d.lgs. 58/1998), all’art. 173 bis, e correttamente riportato al rango di delitto; oppure a quello di illegale ripartizione degli utili e delle riserve (art. 2627 c.c.): in questo caso la qualifica contravvenzionale attribuita al reato risulta, in maniera particolarmente evidente, un chiaro indice di una discutibile banalizzazione dei più riprovevoli fatti che possono essere commessi nell’ambito di una società.

147 V. A. CRESPI, Le false comunicazioni sociali: una riforma faceta, in Riv. soc., 2001, p. 1359; F. GIUNTA, Lineamenti di

diritto penale dell’economia, seconda ed., Torino, Giappichelli, 2004, p. 148; G. MARINUCCI, «Depenalizzazione» del falso in bilancio con l’avallo della Sec: ma è proprio così?, in Dir. pen. proc., 2002, p. 137; ID, Falso in bilancio: con la nuova delega avviata una depenalizzazione di fatto, in Guida dir., 2001, fasc. 45, p. 10; C. PEDRAZZI, In memoria del «falso in bilancio», in Riv. soc., 2001, p. 1370 s. (ora anche in C. PEDRAZZI, Diritto penale, III, Scritti di diritto penale dell’economia, Milano, Giuffrè, 2003, p. 843 ss.).

148 Così, L. FOFFANI, Rilievi critici, cit., p. 1197. A proposito, v. pure E. MUSCO, I nuovi reati societari, terza ed., Milano,

Giuffrè, 2007, p. 5 ss.

149 Cfr. R. ZANNOTTI, Il nuovo diritto penale dell’economia, cit., p. 104 s. e 113-116.

150 V., in merito, Corte cost., 1 giugno 2004, n. 161, in Dir. pen. proc., 2004, p. 1497 ss., con nota di F. GIUNTA, nell’ambito

dei diversi e riuniti giudizi di legittimità costituzionale delle norme in questione promossi con ordinanze del 19 settembre 2002 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì, dell’11 dicembre 2002 del Tribunale di Melfi e del 12

Si è, in sostanza, lamentata la manifesta inadeguatezza del sistema repressivo delineato in materia di false comunicazioni sociali rispetto alle particolari note di disvalore che caratterizzano il fatto di reato e che certamente allontanano la figura criminosa dal modello ordinario della contravvenzione, quale illecito a carattere preventivo-cautelare, punibile anche a titolo di colpa151 ed, in generale, da un paradigma punitivo che si avvaleva progressivamente di

contravvenzioni e delitti per sanzionare diversi livelli di gravità di un medesimo comportamento, con conseguente diversità delle risposte punitive rispettivamente previste152, e si affidava ad un termine prescrizionale che, di fatto, assicurava l’estinzione del reato e dunque l’impunità153.

La Corte costituzionale, tuttavia, ha dichiarato le questioni inammissibili, sul presupposto che un loro accoglimento avrebbe imposto un sindacato, ad essa precluso, sul merito delle opzioni primarie di politica criminale, riservate in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore.

Viste, allora, le “resistenze” della Consulta a invadere materie di pertinenza esclusivamente legislativa, intervenendo (in peius) a controllare l’adeguatezza delle scelte di tutela penale, si è tentata, accanto alla via diretta, un’altra soluzione per denunciare l’illegittimità del falso in bilancio, ossia quella di investire in via pregiudiziale la Corte di Giustizia Europea, ex art. 234 del Trattato UE, chiamandola appunto a decidere in prima battuta sulla compatibilità della normativa italiana con quella europea154.

In pratica, la questione su cui si chiedono chiarimenti riguarda l’applicabilità della disciplina europea, prevista per i casi di omessa pubblicità, e finalizzata alla tutela del principio di pubblica e fedele informazione delle società, ed in particolare tesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, nei singoli Stati, alle società per proteggere gli interessi dei soci o dei terzi, anche alle ipotesi di falsificazione dei conti e delle altre comunicazione sociali che la società sia tenuta a fornire. Si tratta delle direttive (prima, quarta e settima «direttiva sul diritto societario»155) in materia di pubblicità del bilancio e dei conti annuali delle società commerciali, con specifico riferimento alla previsione dell’obbligo per gli Stati membri di stabilire sanzioni adeguate a fronte dell’omessa pubblicità.

Ciò che, dunque, ci si auspicava è che la Corte di Giustizia, dichiarando la violazione di precisi obblighi comunitari, determinasse la disapplicazione degli artt. 2621 e 2622 c.c., con

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

febbraio 2003 del Tribunale di Milano, rispettivamente iscritte al n. 535 del registro ordinanze 2002 e ai nn. 171 e 400 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, Prima serie speciale, dell’anno 2002 e nn. 14 e 26, Prima serie speciale, dell’anno 2003.

151 Ordinanza del Tribunale di Forlì, 19 settembre 2002 (in relazione alla funzione rieducativa della pena, ex art. 27, comma

3, Cost.). In dottrina, nel medesimo senso: L. FOFFANI, False comunicazioni sociali, in AA.VV., I nuovi reati societari, Padova, Cedam, 2002, p. 240; A. ALESSANDRI, I nuovi reati societari: irrazionalità e arretramenti della politica criminale nel settore economico, in Quest. giust., 2002, p. 8; D. PULITANÒ, False comunicazioni sociali, in A. ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, cit., p. 174.

152 Ordinanza del Tribunale di Forlì, 19 settembre 2002 (in relazione all’art. 3 Cost.).

153 Ordinanza del Tribunale di Melfi, 11 dicembre 2002 (in relazione all’art. 3 Cost). In dottrina, nel medesimo senso,

lamentando la illogicità e irrazionalità dell’intervento legislativo del 2002 in materia di prescrizione, G. MARINUCCI, Falso in bilancio, cit., p. 11; S. SEMINARA, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, in Dir. pen. proc., 2002, p. 684; A. ALESSANDRI, I nuovi reati societari: irrazionalità e arretramenti della politica criminale nel settore economico, cit., p. 11.

154 Corte di Giustizia Europea, Grande Sezione, 3 maggio 2005, nei procedimenti riuniti aventi ad oggetto le domande di

pronuncia pregiudiziale presentate alla Corte, ai sensi dell’art. 234 UE, dal Tribunale di Milano (cause C-387/02 e C- 403/02) e dalla Corte d’appello di Lecce (causa C-391/02), con ordinanze 26, 29 e 7 ottobre 2002, pervenute in cancelleria, rispettivamente, il 28 ottobre, il 12 e l’8 novembre 2002. Si tratta dei procedimenti penali avviati a carico dei sigg. Silvio Berlusconi (causa C-387/02), Sergio Adelchi (causa C-391/02) e Marcello Dell’Utri e a. (causa C-403/02), per presunta violazione delle disposizioni in materia di false comunicazioni sociali (falsità in scritture contabili).

155 Direttiva 68/151/CEE (in particolare, art. 6), Direttiva 78/660/CEE (in particolare, art. 2) e Direttiva 83/349/CEE (in

conseguente rinascita delle disposizioni originarie (più severe e quindi in linea con le statuizioni europee).

Invece, con la citata sentenza156, viene adottata una soluzione solo apparentemente di merito, senza, in realtà, dare risposta alle domande dei rimettenti. La pronuncia, cioè, si limita a ribadire l’esigenza «comunitaria» di adeguatezza delle sanzioni per i reati di falsità in scritture contabili, ma non chiarisce se la normativa italiana costituisse o meno una corretta attuazione di tale obbligo. Tuttavia, la stessa ha modo di precisare che, ad una eventuale disapplicazione da parte dei giudici del rinvio delle norme (allora) in vigore, sarebbe conseguita l’irrogazione di una sanzione penale manifestamente più severa, ossia quella prevista dalla norma originaria, durante la cui vigenza erano stati commessi i fatti oggetto dei giudizi principali. Una tale conseguenza, però, si sarebbe posta in contrasto con i limiti derivanti dalla natura stessa delle direttive, che – com’è noto – non possono essere invocate in quanto tali dalle autorità di uno Stato membro nei confronti di soggetti imputati, nell’ambito di procedimenti penali, e, dunque, non possono avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di attuazione, quello di determinare o aggravare la responsabilità penale. Da qui, la decisione di dichiarare il ricorso «non ricevibile».

Il legislatore, dal canto suo, con l’emanazione della nuova legge sul risparmio (la citata l. 262 del 2005) perde un’occasione utile per riconsiderare la disciplina delle falsità in comunicazioni sociali, a fronte della sua manifesta inadeguatezza a rappresentare un efficace strumento di tutela dei diversi interessi legati all’attività delle società commerciali, primi tra tutti quelli del mercato e dei risparmiatori.

La «(pseudo) controriforma del 2005»157, presentata all’indomani del crack Parmalat come

risposta dello Stato agli scandali finanziari, ha tradito nei fatti la propria origine riformista, rinunciando alla preannunciata svolta rigoristica e alla riscrittura delle false comunicazioni sociali158.

Essa, infatti, al contrario di quanto avvenuto in altri ambiti (in particolare, quello dei già richiamati abusi di mercato, ove si realizza una più intensa penalizzazione), riguardo ai reati de

quibus, ha apportato modifiche del tutto marginali, in parte già accennate, per nulla idonee a