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Tra le giustificazioni preliminari offerte da Sunstein e Thaler per mostrare che il paternalismo libertario non è un ossimoro e che esi- ste una compatibilità di fondo tra libertarismo e paternalismo vi è la tesi che l’«anti-paternalismo dogmatico di numerosi analisti del diritto» poggi su una premessa falsa e su due fraintendimenti1. Il

primo fraintendimento riguarda l’idea che il paternalismo sia evita- bile, ossia che gli ambienti in cui gli agenti scelgono sono “neutra- li” e strutturati in modo tale da risultare incontaminati da decisioni prese da altri agenti (siano essi decisori pubblici o privati, a seconda dell’ambiente preso in considerazione). Chiunque abbia la respon- sabilità di prendere decisioni pubbliche (legislatori) o private (il ri- storatore che sceglie l’ordine con cui presentare i cibi al suo risto- rante, per esempio) non può fare a meno di predisporre gli ambienti in modo tale da esercitare un’influenza sugli individui. Il secondo fraintendimento riguarda la presupposta implicazione tra paterna- lismo e coercizione. In realtà, il paternalismo libertario è l’esempio lampante (secondo i suoi fautori) del fatto che esistono forme di pa- ternalismo per cui questa implicazione non vale. Ovviamente que- sti due fraintendimenti appariranno come tali solo quando si sarà mostrato che (1) il paternalismo è effettivamente inevitabile; (2) il paternalismo libertario è non coercitivo, due tesi che non si possono dare per scontate e su cui torneremo nei prossimi capitoli. Per il momento concentriamoci sulla falsa premessa su cui si fonderebbe il dogmatismo anti-paternalistico e che può essere così riassunta:

quasi tutte le persone, quasi ogni volta, compiono scelte che sono nel loro migliore interesse o che sono perlomeno migliori, a loro giudizio, delle scelte che farebbero terze parti. Questa affermazione è tautologi- ca, e di conseguenza priva di interesse, oppure è verificabile. Sostenia-

1 Sunstein, Thaler, Libertarian Paternalism Is Not an Oxymoron, cit., p.

mo che è verificabile e falsa, addirittura falsa in modo ovvio. In realtà siamo dell’idea che, se ci si riflette, essa risulterà non credibile2.

Come affermano esplicitamente Sunstein e Thaler, questa premessa è in principio verificabile e, alla luce delle conoscenze empiriche di- sponibili, essa è anche falsa. Secondo i paternalisti libertari, la spie- gazione più credibile degli atteggiamenti umani è quella fornita da un modello che ripartisce la mente in due sistemi cognitivi, uno im- pulsivo (Sistema 1) e l’altro riflessivo (Sistema 2), che nelle pagine di Sunstein e Thaler sono ripresi e trasformati in una vera e propria antropologia bipartita. Come si è visto, i due sistemi cognitivi ser- vono per introdurre due diverse specie di homines: il primo è quello postulato dalla teoria economica classica, l’homo oeconomicus, che appartiene in realtà alla mitologia e non all’antropologia perché è modellato su una teoria empirica sostanzialmente falsa; l’altro è l’ho- mo sapiens, ossia l’agente umano così come è in realtà. Per rendere ancora più vivida questa suddivisione, gli autori contrappongono agli “Umani” la specie ideale degli “Econi”, i cui membri sono ho- mines oeconomici che scelgono rispondendo al Sistema 2, quindi in termini sempre riflessivi e razionali. Noi umani, invece, siamo con- dannati a essere prigionieri delle imperfezioni del Sistema 1 e quindi esposti sistematicamente all’errore, all’auto-inganno, alla debolezza della volontà. Per usare un’unica parola: all’irrazionalità3.

Prima ancora di affrontare il contenuto della tesi da cui muo- vono i due autori, è opportuno fare alcune osservazioni sulla sua forma e sul metodo scelto dai paternalisti libertari. In questo primo paragrafo svolgeremo alcune osservazioni preliminari su questi as- sunti metodologici partendo da un confronto con quanto sostenuto in filosofia morale da alcuni naturalisti relativamente al rapporto tra etica e conoscenze empiriche. Lo scopo non è certo quello di dare un resoconto esaustivo delle teorie che regolano questa relazione – in realtà una vexata quaestio nel dibattito filosofico – né di fornire una

2 Ibidem.

3 Cfr. Thaler, Sunstein, Nudge. La spinta gentile, cit., pp. 12-15; Sunstein, Effetto Nudge, cit., pp. 21-28. È da sottolineare che non tutti sono d’accordo

sull’adozione del sistema duale per spiegare la mente. Cfr. N.-E. Sahlin, A. Wallin, H. Persson, “Decision Science: From Ramsey to Dual Process Theo- ries”, Synthese, 172, 1, 2010, pp. 129-143.

difesa o una critica su questo versante a quanto proposto dai pa- ternalisti libertari. L’unico fine di queste pagine è quello di chiarire che il paternalismo libertario è una forma di naturalismo (metodo- logico), senza che questo implichi la tesi secondo cui i naturalisti in etica debbano accettare per coerenza il paternalismo libertario, sebbene questa posizione non sia incompatibile con il naturalismo etico. Ragioni “sostantive” come quelle che presenteremo nei pros- simi capitoli potrebbero indurre a rifiutare una proposta normativa che si trova convincente sul piano metodologico.

Il tenore generale della proposta del paternalismo libertario è sostanzialmente pragmatico. L’obiettivo di Sunstein e Thaler è indi- viduare soluzioni efficaci a problemi irrisolti nel dominio della scelta e del comportamento e non è un caso che insistano particolarmente sul fatto che la loro proposta non influenza i fini che le persone deci- dono di perseguire, ma solo i mezzi che esse scelgono per realizzare quei fini. Eppure il tono pragmatico e semi-utilitaristico non occulta il fatto che la proposta di Sunstein e Thaler incorpora tacitamente un’opzione metodologica ben precisa. La riflessione da cui partono non riguarda la constatazione delle presunte inadeguatezze o limiti normativi della concezione antropologica assunta dagli anti-pater- nalisti per costruire le loro alternative, perché ad esempio non è in linea con la nostra natura di agenti razionali o non rispetta alcuni vincoli a priori posti alle possibili rappresentazioni degli agenti. La critica che Sunstein e Thaler muovono è a posteriori perché la con- cezione antropologica anti-paternalistica è empiricamente falsa.

Questa mossa configura il paternalismo libertario come una te- oria naturalistica che accetta vincoli empirici nella costruzione del- la propria proposta normativa. Si potrebbe anche affermare che il paternalismo libertario ritiene il soddisfacimento di certi requisiti empirici una condizione necessaria affinché una possibile teoria politica sia normativamente valida4. Su un piano esclusivamente

4 Non entriamo nel merito del concetto di “validità normativa”, che va

distinta dalla validità meta-normativa. Questa distinzione implica che la pro- duzione di conclusioni normative con procedure adeguate non è garanzia essa stessa dell’accettabilità di queste conclusioni. Il giudizio di accettabilità dipende invece anche dal soddisfacimento di altri criteri, in primis un criterio di effi- cienza: le misure introdotte (ossia, l’architettura della scelta) è efficace nell’o- rientare il comportamento degli individui verso mete ritenute desiderabili? È

“meta-teorico”, possiamo sostenere che il paternalismo libertario è una forma di naturalismo metodologico, per usare un’espressione mutuata dal filosofo morale Peter Railton5 che introduce una serie

di distinzioni con l’intento di chiarire il rapporto tra la filosofia e le discipline scientifiche e di difendere una teoria morale naturalistica. Possiamo riprendere la categoria di “naturalismo metodologico”, cercando di applicarla anche al caso che stiamo prendendo in esame.

Secondo il naturalismo metodologico, la filosofia non possiede un peculiare metodo a priori ma deve procedere a posteriori, in- sieme alla (o come parte della) ricerca empirica portata avanti dalle scienze naturali. Da questa forma di naturalismo “meta” si distingue il naturalismo sostantivo (substantive), che non prende ovviamente in considerazione la forma, ossia il metodo più valido per giungere a conclusioni giustificate, ma la natura e il contenuto di queste con- clusioni: sono queste infatti a essere “naturalizzate”, con la conse- guenza di attribuire alla ricerca filosofica il compito di costruire una «spiegazione di qualche dominio del linguaggio o della prassi degli esseri umani che fornisce un’interpretazione dei suoi concetti cen- trali in termini che possono essere oggetto di ricerca empirica»6.

Railton specifica che le due forme di naturalismo non sono connes- se in modo necessario, perché si può essere naturalisti metodolo- gici senza sottoscrivere alcuna conclusione sostantiva naturalizzata, come si può essere naturalisti sostanziali senza utilizzare metodi em- pirici per raggiungere le conclusioni che si difendono7. Un natura-

lista metodologico può sostenere che la ricerca empirica costituisce un vero e proprio vincolo alla costruzione delle teorie, nel senso che non sono ammesse proposizioni valide a priori, ma al contempo ri- fiutare che le proposizioni rilevanti in un dato dominio (ad esempio l’etica) abbiano natura cognitiva.

Mutatis mutandis, si può sostenere che l’accettazione di un vin- colo empirico alla costruzione della teoria normativa (in questo

proprio l’introduzione del criterio di efficienza che può costituire una fonte di problemi sul piano normativo.

5 P. Railton, “Naturalism and Prescriptivity”, Social Philosophy & Policy,

7, 1, 1989, pp. 151-174.

6 Ivi, p. 156. 7 Ivi, pp. 155-156.

caso, una teoria dei rapporti tra decisori pubblici e individui) qua- lifica il paternalismo libertario come una teoria metodologicamente naturalistica: alla base, come detto, vi è una concezione dell’agente umano che risponde a una descrizione empiricamente informata, basata sulle conoscenze avanzate dell’economia e della psicologia comportamentali. Su questa si innesta la presa di posizione norma- tiva che costituisce il nucleo della teoria del paternalismo libertario, il cui contenuto sarà però condizionato dalle conoscenze empiriche poste a premessa. Come si è visto, un primo motivo per dubitare della concezione liberale classica è dato dal fatto che essa poggia su una falsa assunzione sul comportamento (della maggioranza) degli esseri umani. La premessa della tendenziale razionalità del com- portamento umano, che caratterizza la teoria classica della scelta razionale, è smentita dalla psicologia del giudizio e della decisione e dall’economia comportamentale. Se il modello descrittivamente più adeguato è quello che suggerisce l’esistenza di una razionalità (fortemente) imperfetta, allora saranno adeguate solo quelle conce- zioni normative che posso soddisfare questi vincoli descrittivi ed è opinione di Sunstein e Thaler che perlomeno una teoria che lasci in- teramente la scelta all’autonomia individuale non riesce a catturare adeguatamente la realtà delle cose.

Perché una corretta descrizione empirica del comportamento umano dovrebbe essere dirimente per costruire una teoria politica? Rimanendo sul piano squisitamente metodologico e proseguendo l’analogia tra le premesse del paternalismo libertario e le concezio- ni naturalistiche in etica, risulta evidente che sarebbe votata al fal- limento una qualsiasi teoria normativa che proponesse la realizza- zione di “personalità” che sono impossibili, a tal punto per cui «nes- sun membro futuro della nostra specie, in nessun contesto sociale possibile, potrebbe realizzare, o anche avvicinare, la struttura mo- tivazionale richiesta dalla teoria»8. La citazione è estrapolata da un

contesto in cui l’autore, il filosofo Owen Flanagan, sta consideran- do l’importanza metodologica delle ricerche psicologiche (intese in senso lato) per l’etica. Parafrasando questo punto, si può sostenere che Sunstein e Thaler partono dalla premessa che qualora una teoria

8 O. Flanagan, Varieties of Moral Personality: Ethics and Psychological Re- alism, Harvard University Press, Cambridge, 1991, p. 26.

etico-politica proponga regole di comportamento che non possono essere seguite da alcun membro della nostra specie, allora questa dif- ficoltà costituirebbe un’obiezione molto potente a questa teoria. In questo senso, il paternalismo libertario come teoria naturalistica è impegnato a rispettare il requisito minimo di naturalizzazione che Flanagan ha definito “principio del realismo psicologico minimo”.

Secondo Flanagan, il rapporto tra psicologia ed etica non deve essere unidirezionale e limitato alla richiesta che l’etica ponga dei li- miti alle pratiche sociali, indicando quali tipi di “personalità” morale è consentito o obbligatorio realizzare. Una concezione più adeguata dell’etica sostiene invece la bi-direzionalità secondo le linee a cui si è già accennato, per cui è salutare per l’etica confrontarsi con i dati elaborati dalla psicologia empirica (individuale e sociale) per avere una migliore comprensione dei fenomeni morali. Ed è anche signifi- cativo che tra gli esempi di fruttuosa interazione tra etica e psicolo- gia, Flanagan ricordi anche gli studi di Tversky e Kanheman sul bias di disponibilità (availability bias):

Anche i risultati conseguiti in aree apparentemente prive di collega- menti posso essere rilevanti per l’etica. Un esempio è il lavoro di Tver- sky e Kahneman sui bias di rappresentatività (representativeness bias) e di disponibilità (availability bias) nel ragionamento umano. Questi autori non hanno tracciato connessioni particolari tra il loro lavoro sulla razionalità umana in generale e il ragionamento morale come sua specie particolare. Ma si può facilmente capire che l’euristica della di- sponibilità (la tendenza a pensare che ciò che si nota come saliente o importante o usuale è davvero saliente, importante o usuale) contribu- isce a spiegare le scoperte come quelle di Gilligan sulle differenze nel modo in cui uomini e donne costruiscono il dominio della moralità. Il bias di disponibilità indurrebbe ad aspettarsi che le persone costru- iscano il dominio della moralità dalla prospettiva del tipo di problemi morali con cui si confrontano tipicamente piuttosto che a partire da una prospettiva astratta e impersonale. I filosofi e gli psicologi secondo cui le donne che concepiscono i problemi morali come paradigmatica- mente implicati nelle relazioni tra persone care e nelle relazioni strette non riescono, semplicemente, a comprendere cosa sia la moralità (per esempio Kohlberg), potrebbero essere essi stessi vittime di una costru- zione personale e ristretta del dominio della moralità, scambiando in

realtà ciò che è disponibile grazie alla loro esperienza con ciò che essi pensano sia la natura delle cose9.

Un maggiore realismo psicologico nelle teorie morali consentirebbe anche di guadagnare maggiore chiarezza nel dibattito e comprende- re i motivi per cui si generano alcuni disaccordi tra filosofi e psico- logi sulla corretta interpretazione dei fenomeni morali. Ma a parte ciò, è questo un vivido esempio del modo in cui un naturalista come Flanagan intende la fruttuosa interazione tra conoscenze empiriche di carattere scientifico e filosofia morale.

Il principio del realismo psicologico minimo è formulabile sotto forma di massima: «Quando costruisci una teoria morale o progetti un ideale morale assicurati che il carattere, il processo decisionale e il comportamento prescritti siano possibili o percepiti come tali per creature quali noi siamo»10. La funzione del principio è quella di for-

nire un criterio per poter valutare se le teorie morali che aspirano a orientare la decisione e l’azione di agenti concreti sia effettivamente efficaci sotto il profilo pratico perché incorporano direttive di com- portamento e raccomandano ideali morali che possono essere tra- sformati in realtà. Ma Flanagan si premura di aggiungere che rispet- tare questo principio non basta a «fissare» la teoria morale, perché i tipi di psicologia morale che è possibile realizzare sono estremamen- te vari e non tutti possono essere considerati moralmente desidera- bili11. Il principio del realismo psicologico minimo dice quali teorie

sono possibili ma per giudicare quali di esse sono degne di essere re- alizzate servono altre considerazioni. Anche in un quadro filosofico di tipo naturalistico, le conoscenze empiriche disponibili sulla psi- cologia umana sono necessarie ma non sufficienti per determinare la componente normativa della teoria. Come si esprime Flanagan in un altro saggio, «la morale è radicalmente sotto-determinata rispet- to a ciò che è meramente descrittivo e osservazionale»12, cosicché

sono necessarie considerazioni di tipo normativo (nel caso di Fla-

9 Ivi, pp. 22-23. 10 Ivi, p. 32. 11 Ivi, pp. 32-33.

12 O. Flanagan, “Ethics Naturalized: Ethics as Human Ecology”, in Self Expressions. Mind, Morals, and the Meaning of Life, Oxford University Press,

nagan: naturalizzate) per discriminare quali sono, tra tutte le morali che possono essere concretamente realizzate dati i limiti empirici della natura umana, quelle che sono degne di esserlo effettivamente. La base descrittiva non esaurisce quindi il contenuto e le potenzialità della morale.

Le teorie morali e le personalità morali sono fissate (e in gran parte va- lutate) in relazione a particolari ambienti e nicchie ecologiche che cam- biano, si sovrappongono, ecc. Pertanto, è meglio pensare l’etica come parte dell’ecologia umana, cioè, senza pensarla come disciplina filoso- fica speciale o come parte di qualche scienza dell’uomo in particolare. Tutti i modi di vivere vanno bene? Gli unici standard di critica legitti- mi sono quelli “interni”? La risposta è no. Ciò che è buono dipende in gran parte da ciò che è buono per una particolare comunità, ma quan- do quella comunità interagisce con altre comunità, queste hanno voce in capitolo. Inoltre, può accadere che quando sono introdotte tutte le informazioni provenienti dalla storia, dall’antropologia, dalla psicolo- gia, dalla filosofia, dalla letteratura, ciò che all’apparenza era una buona pratica o un buon ideale viene provato, testato e non si rivela così buo- no. Quindi se l’etica fa parte dell’ecologia umana, e penso che ne faccia parte, le norme che regolano la valutazione delle pratiche e degli ideali dovranno essere le più ampie possibili. Per giudicare gli ideali, non sarà sufficiente guardare e vedere se essi beneficiano le persone sane e le comunità sane qui e ora, ma si dovrà appurare se questa condizione di “salute” è acquisita senza adottare pratiche come schiavitù, razzismo, sessismo e simili, che sappiamo possono passare inosservate per un po’ di tempo, ma che possono impedire alle persone di prosperare e alla fine avvelenano i rapporti umani, se non nel presente, almeno nelle generazioni vicine13.

Questa lunga citazione ha il merito di gettare luce sull’aspetto che stiamo considerando, perché afferma in modo molto chiaro ed espli- cito che le valutazioni normative dovranno basarsi su criteri “più ampi possibili” e non limitarsi a valutare se una particolare teoria realizza un “tipo psicologico” empiricamente valido. Analogamente, è utile ricordare che nel caso del paternalismo libertario il problema non consiste soltanto nel creare legami coerenti tra il piano descrit- tivo e il piano normativo; non è cioè sufficiente che la teoria politi- ca elabori strategie di governo del comportamento individuale che

mettono in conto i limiti della razionalità e dei difetti cognitivi che contraddistinguono la mente umana in quanto tale. Un elemento qualificante del paternalismo libertario, come già accennato, è che questa mancata corrispondenza tra ciò che la teoria statuisce e ciò che le conoscenze empiriche (“la realtà dei fatti”) suggeriscono ge- nera conseguenze contro-producenti, a partire da una diminuzione del benessere individuale e collettivo o un suo grado non ottimale. Ma il contenuto di questo ulteriore vincolo dipende dal significa- to che attribuiamo ai singoli termini che compongono la formula “diminuzione di benessere individuale o collettivo”, una questione che è possibile affrontare solo a partire da valutazioni “più ampie possibili”14.