ne, materiali e immateriali), di modo che – come si è detto – la separazione tradizionale tra natura da un lato e cultura/società dall’altro si svuota di senso.
Naturalmente, adottare lo sguardo dell’ANT ha implicazio- ni enormi anche nell’ambito specifico dell’architettura, perché contribuisce a spostare l’attenzione dagli aspetti statici degli edifici – come quelli di ordine estetico e culturale – a quelli re- lazionali e processuali: la loro produzione e la loro gestione nel tempo e, soprattutto, la loro relazione con gli ecosistemi naturali e sociali in cui si iscrivono.
In tal senso, sembra utile ricordare la differenza tra nozio- ne di oggetto e quella di “cosa” che lo stesso Latour riprende da Heidegger. Tale differenza rimanda all’etimologia stessa dei due termini sia nelle lingue anglosassoni che in quelle neolatine: l’edificio non è un oggetto – un qualcosa di statico, quasi “iso- lato” nello spazio e nel tempo – ma una cosa, una “questione” o ancor meglio un insieme di questioni sociotecniche e ambientali complesse e cambianti nel tempo. Prendere coscienza di questo intreccio di questioni e della loro natura contingente e dinamica porta a cambiare radicalmente il modo in cui si concepiscono sia il manufatto architettonico che la sua progettazione.
La cosmopolitica come matter-of-design
Il progetto ha una tradizione decisamente antropocentrica, che si è ulteriormente rafforzata durante l’epoca del moderni- smo. Guardarlo da una prospettiva cosmopolitica implica abban- donare definitivamente tale tradizione, e affrontare una questio- ne tanto urgente quanto complessa: come contribuire a riorga- nizzare la coesistenza pacifica di umani e non umani, cioè come “ridisegnare il cosmo”. Questa questione generale si traduce, in termini concreti, in una serie di domande cruciali: su chi e su cosa verteranno le conseguenze – negative e/o positive – di una determinata azione di progetto? Come si tiene in considerazione la capacità di azione di altre specie ed entità, viventi e non viven- ti? Come è possibile riarticolarne gli interessi al fine di garantire loro una coesistenza il più possibile pacifica?
Per quel che riguarda l’architettura, da questa prospettiva «gli edifici non devono più concepirsi come “contenitori” di umani nei quali vanno inseriti determinati programmi, ma piut- tosto come i processi che danno forma alle sfere (e alle atmosfe- re) che costituiscono gli ambienti di vita specifici che abitiamo» (Yaneva, 2015a, p. 5).
Neanche il progetto, quindi, può essere più considerato un dominio esclusivamente umano. In un mondo interdipendente “ogni progetto è partecipativo”: è un’attività di negoziazione tra entità molteplici ed eterogenee – non necessariamente umane né necessariamente viventi – con diverse capacità di azione.
Evidentemente, un tale cambiamento di paradigma ha con- seguenze decisive sia nella cultura che nelle pratiche del proget- to: se tradizionalmente gli esseri umani hanno avuto la pretesa, antropocentrica e tecnicista, di poter “pre-figurare” un’immgine determinata di futuro e di dare più o meno agevolmente forma tangibile a tale immagine, oggi è necessario che il progetto sia cosmopolitico, capace cioè di facilitare forme di collaborazione molteplici, e non predeterminate, tra entità umane e non umane.
Tradizionalmente l’essere umano pretende progettare al det- taglio, prefigurare soluzioni totalizzanti limitando il campo di azione delle altre entità, a partire dalla premessa antropocentri- ca secondo cui “gli uomini di buona volontà decidono in nome dell’interesse generale” (Stengers, 2005). E in tal senso, la co- smopolitica non è solo ciò che Latour (2004b) chiamerebbe un matter-of-concern – una preoccupazione condivisa di carattere
filosofico ed etico – ma soprattutto un matter-of-design: una que- stione di progetto. Si tratta innanzitutto di superare i limiti di qualsiasi approccio genericamente human-centered al progetto per includere le entità che finora sono rimaste sullo sfondo: in altre parole, si tratta di aprire a nuove, molteplici forme di colla- borazione tra umani e non umani.
Diversi progettisti e studi di architettura contemporanei si sono già misurati con questa nuova sfida cosmopolitica.
Di grande interesse, in tal senso, è l’approccio dello studio dello svizzero Philippe Rahm, un caso esemplare anche per il ruolo attribuito alle tecnologie digitali nell’individuazione di nuove possibili forme di collaborazione umano-non umano.
Ricorrendo alla fluidodinamica computazionale (CFD) lo studio Rahm analizza il comportamento di edifici come anche di spazi esterni in relazione a parametri come la temperatura e l’umidità relativa. L’idea fondamentale è che le caratteristiche fluidodinamiche “naturali” di un qualsiasi spazio debbano essere non forzate, ma piuttosto rafforzate attraverso scelte progettuali e tecnologiche concrete. Per quel che riguarda la temperatura, ad esempio, Rahm parte dalla premessa che – in base allo stesso comportamento naturale dell’aria – il calore tende a concentrar- si in alto. Ciò lo porta a stravolgere la maniera in cui tradizio- nalmente si approccia al progetto e a prediligere il lavoro sulla sezione verticale invece che sulla pianta: in alto si collocano gli ambienti che hanno bisogno di più calore e in basso quelli dove ne occorre meno, e si evita il più possibile di dividere interna- mente lo spazio affinché si comporti in modo omogeneo a livel- lo microclimatico. Esemplare in tal senso è il caso del progetto della biblioteca di Nancy: un unico open space le cui dimensioni variabili modulano il flusso interno dell’aria garantendo diverse condizioni di ventilazione – quasi come in una sorta di canyon artificiale – , e in cui le postazioni di lavoro sono poste a una quota superiore rispetto ai depositi di libri, che devono essere te- nuti a temperature più basse. In questo modo «il clima non è più né fuori né dentro l’edificio; si tratta piuttosto di un mondo omo- geneo, in cui la differenza tra dentro e fuori si trasforma nella differenza tra sopra e sotto» (Yaneva, 2015b). Logiche analoghe informano anche progetti di spazi esterni a firma dello studio, come quello del Jade Eco Park a Taichung (Taiwan) in cui gli alberi stessi sono concepiti come “tecnologie naturali” capaci di collaborare con quelle artificiali al fine di ridurre la temperatura, l’umidità relativa e l’inquinamento dell’aria.
Per questo motivo lo stesso Rahm propone – non senza una punta di provocazione – di sostituire il linguaggio stesso del- la composizione architettonica tradizionale con un lessico più ‘meteorologico’: non più un’architettura ma una clima-tettura, in cui il clima diventi vero e proprio principio tettonico dell’e- dificio (Yaneva, 2015b). Le parole di questo nuovo lessico sa- rebbero quindi umidità, luce, calore, evaporazione, conduzione, pressione. «Forms follows climate», come affermava il maestro indiano Charles Correa, che peraltro Rahm cita esplicitamente.
Un altro progetto “cosmopolitico” indubbiamente degno di menzione è la “Magic Mountain” progettata dallo studio ma- drileno Amid.cero9 nella piccola cittadina di Ames (USA). Chiamati a “nascondere” il profilo di un’enorme centrale ter- moelettrica, i progettisti hanno scelto di farlo realizzando una membrana di rose e altre essenze floreali: la superficie esterna della centrale è diventata così un frammento di paesaggio dentro la città e – soprattutto – un vero e proprio ecosistema che nel tempo si è popolato di diverse specie di uccelli e farfalle le cui rotte migratorie passano proprio su Ames. Una sorta di monta- gna naturo-tecnologica co-progettata da umani e non umani, che si modifica nel tempo, e che – tra le altre cose – permette agli studenti della vicina università di studiare l’adattamento delle
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Technology and Evolution of the Eco-Systemic Approach to the Design
diverse specie viventi (flora e fauna) al microclima caratteristico della regione. La premessa del lavoro di Amid.cero9 è quindi perfettamente in linea con la prospettiva cosmopolitica: lungi dall’essere la mera messa in atto di un piano prestabilito dagli esseri umani, nella loro visione ogni nuovo spazio o artefatto architettonico emerge come risultato dell’interazione complessa e contingente tra entità ontologicamente eterogenee (umane e non, viventi e non).
Ciò che questi casi hanno in comune, pur nella loro specifi- cità, è proprio questa idea di “decentramento”. I progettisti sono capaci – almeno in una qualche misura – di “farsi da parte”, cioè di rinunciare all’idea, positivista e antropocentrica, di im- porre una forma definitiva e totalizzante sullo spazio circostante. Si sostituisce l’imposizione con la “disposizione”, un atteggia- mento totalmente diverso che permette di trarre benefici dalla “propensione” delle cose: fare in modo, cioè, che il loro stesso comportamento favorisca “spontaneamente” il raggiungimento degli obiettivi di progetto.
In tal senso, adottare un approccio cosmopolitico al progetto significa innanzitutto disfarsi della tradizionale «opposizione tra sottomissione e libertà», e cercare invece di «comporre le va- rie forze e i vari interessi per produrre effetti che non sarebbero neanche concepibili senza tale composizione» (Stengers, 2005).
Una situazione win-win, quindi, in cui gli umani non sono né gli unici ad agire né gli unici a trarre benefici: la natura non è più semplicemente lo sfondo inerte del progetto, ma ne diviene essa stessa co-autrice. Questo è il senso profondo di un progetto cosmopolitico, capace di creare le condizioni per la negoziazio- ne - e di conseguenza, per la nascita di nuove possibili sinergie virtuose – tra entità eterogenee, umane e non umane.
Nel bel mezzo dell’antropocene il patto tra l’umanità e i suoi ecosistemi è ancora tutto da ridisegnare, ma una delle possibili strade per farlo potrebbe essere già tracciata.
References
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