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9.2 Il Buon Pastore come prodotto originale delle pratiche di ‘accomodazione’.

Il concetto di egemonia si rivela valido per l’interpretazione dell’iconografia in senso auto- referenziale, ma non basta a spiegare le ragioni che portarono a adottare una nuova formula iconografica. L’originalità del soggetto rimane inevasa da una semplice considerazione degli aspetti egemonici che regolavano la committenza delle statuette. Se l’ideologia delle missioni era così pervasiva (quindi egemonica) perché tali istanze non si tradussero in una copia fedele di modelli preesistenti già largamente impiegati? Perché ricorrere ad una formula iconografica senza precedenti nella tradizione artistica di matrice europea?

Per dare una risposta bisognerà rifarsi a quella prassi intellettuale che contraddistinse l’opera missionaria, specie in ambito artistico, che la recente storiografia ha etichettato come metodo dell’accomodatio.396 Sebbene non esistano trattati dell’epoca che riportano tale categoria

metodologica, la letteratura missionaria (gesuita soprattutto) del periodo in esame fa continuo riferimento alla necessità di ‘accomodare’ l’evangelizzazione ai costumi locali.

Con ‘accomodatio’ si definiscono infatti quelle pratiche di adattamento dei rituali, delle formule artistiche, del comportamento sociale, e anche di alcuni assunti dottrinali cattolici, ai canoni culturali delle comunità entro cui operavano i missionari. L’accomodazione è stata identificata come una delle peculiarità del metodo di evangelizzazione gesuita, ma trova dei corrispettivi nell’opera degli altri ordini concorrenti.397 Questo perché, in origine, il metodo dell’accomodatio

andava a definire una pratica esegetica ortodossa che godeva di grande autorità e impiego nelle altre tradizioni regolari.398 Anche nella ‘controversia sui riti’ emersa nelle missioni della Cina e

dell’India meridionale, gli altri ordini non criticarono i gesuiti per il ricorso al metodo in quanto tale, quanto piuttosto i margini della sua applicazione.

396 Per una recente analisi della letteratura sul tema si veda: Prieto 2017.

397 La tesi della ‘specificità’ gesuita è stata recentemente sostenuta da Evonne Levi (2013), per un’analisi comparata dei metodi di evangelizzazione: Pavone, Motta 2005.

398 In esegesi, il metodo dell’accomodazione consisteva nell’adattamento della rivelazione scritturale alle contingenze storiche. In questo senso l’esegesi entrava nella sfera dell’escatologia, in quanto decifrazione del progetto teleologico all’interno dell’orizzonte storico, indeterminato e mutevole. Spettava quindi alle istituzioni temporali disciplinare la società in accordo con la rivelazione adattata alle nuove condizioni storiche emerse. Nelle parole di Ines Zupanov l’accomodatio è quella “tensione tra indeterminatezza storica e verità ultime”. Nella storia della Chiesa questa tendenza era inizialmente emersa nell’età tardo-antica con l’adozione di pratiche greco-romane per agevolare la cristianizzazione dei pagani, ed è a questo periodo che i gesuiti si rifacevano per legittimare il loro metodo di evangelizzazione (Zupanov, Guezi 2010).

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È interessante notare come questo atteggiamento intellettuale fosse stato ampiamente influenzato dall’opera di Niccolò Machiavelli (1469-1527) e di Giovanni Botero (1544-1617). La filosofia politica di Machiavelli, sebbene antitetica rispetto a quella controriformista nella scissione tra ordine religioso e ordine politico-sociale, promuoveva una cultura tattica della dissimulazione ai fini di opportunità politica. In ambito gesuita, tale metodo, applicato secondo formule diverse da prominenti studiosi come Ricci in Cina, Nobili in India e Valignano in Giappone, si era affinato specialmente nelle missioni dell’Estremo Oriente, laddove non persisteva una presenza coloniale capace di fornire protezione politica. La dissimulazione diventava quindi uno strumento di difesa necessario.399 Sebbene caratterizzata da una certa apertura culturale e da un atteggiamento

antropologico ottimista, il metodo di accomodazione si iscriveva nel quadro di una tolleranza religiosa parziale contraddistinta dell’esclusivismo confessionale, a sua volta determinato dalla vocazione universalista del cattolicesimo missionario. Una cultura del compromesso quindi, temporaneo e calcolato per l’ottenimento di un risultato politico.

Questa attitudine culturale, e i suoi inediti risultati, si realizzava in uno spazio intellettuale intermedio tra le istanze egemoniche del clero missionario e le contro-strategie dei gruppi locali, che Joan-Pau Rubiés ha definito “interazione comunicativa” sulla scia degli studi di Standeart sulle missioni gesuite in Cina.400 L’interazione comunicativa è quello spazio dialogico compreso

tra le pretese egemoniche dei colonizzatori, che tenderanno a replicare la loro cultura e identità sui popoli assoggettati, e la riformulazione creativa di queste istanze da parte dei colonizzati. L’accomodatio non è infatti un paradigma teorico formulato in Europa e forzatamente imposto ai contesti coloniali, ma una praxis di adattamento a quest’ultimi. Il metodo venne a costituirsi per diretto coinvolgimento degli agenti nativi (artisti, clero ed élite colta indigena, mercanti e patroni locali) che rappresentavano la controparte dialogica dei missionari. Costoro emergono nelle fonti (e nelle evidenze artistiche) non esplicitamente ma per “interferenza”; la loro identità appare sempre disorganica, non unitaria e, soprattutto, allusivamente camuffata sotto le fogge dell’identità egemone.401

399 Rubiés 2012, pp. 55-58. È interessante notare come la doppiezza era lo stereotipo per eccellenza attribuito ai popoli asiatici, e, al contempo, tratto essenziale dell’attitudine stessa dei missionari. Quest’ultimi, ben consci della prossimità tra il proprio atteggiamento intellettuale e quello che criticavano, distinguevano la dissimulazione in una virtù e un peccato tra loro speculari: la prudenza e la malizia. “Vera prudenza” quando usata a scopi evangelici, “prudenza della carne” quando usata dai nativi per persistere nel loro errore morale. Citando le parole di Rubiés, per i missionari bisognò “lottare contro i nemici della fede con le stesse armi del Serpente: la dissimulazione, il segreto e la retorica” (Rubiés 2012, p. 60).

400 Rubiés 2012, p. 38. La prospettiva di Standeart era a sua volta modellata sulle teorie del linguaggio di Baktin riprese da Todorov nella sua analisi semiotica della conquista spagnola dell’America.

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Il metodo dell’accomodazione si basava sul riconoscimento, la selezione e l’incorporazione degli aspetti analogici tra la cultura cattolica e quelle indigene.402 Riconoscimento inteso come studio

approfondito degli statuti culturali locali, che, una volta compresi,403 erano selezionati sul grado

di compatibilità con la dottrina cattolica e, infine, messi in comunicazione con essa. Il più delle volte si trattava di quegli aspetti di costume, non dottrinali quindi, che non andavano a ledere il corpus centrale dell’ideologia dominante.404 I. Zupanov e A.B. Xavier hanno rintracciato la

distinzione tra i contenuti ideologici della ‘religione’ e le forme superficiali della ‘civiltà’ nella letteratura gesuita di questo periodo.405 Secondo le autrici, tale distinzione, legittimante le pratiche

di accomodazione, era frutto della strategia dissimulatrice dei gesuiti piuttosto che i francescani per via delle missioni fuori dalla protezione coloniale in cui operavano maggiormente i primi. Grazie all’adozione di questi aspetti superficiali, i nativi potevano riconoscere sé stessi nell’ideologia cattolica e così professarla di buon grado. Il fine dell’accomodatio era infatti la conversione delle intensioni che muovevano l’agire dei neofiti. L’acquisizione di forme (apparentemente) superficiali come liturgie e modelli estetici era funzionale alla conversione di una dimensione religiosa più intima.406

Relativamente alla valenza di questa conversione delle intensioni, e alle sue implicazioni soteriologiche precedentemente trattate, vorrei tornare sull’eccentrico personaggio presente al centro del registro mediano della statuetta al n. 83 dell’inventario, e interpretato come integrazione di un’iconografia locale, forse uno yogin. L’opera, sebbene priva di dati relativi alla sua genesi, richiama un interessante episodio di evangelizzazione che vide protagonista proprio uno yogin del villaggio di Verna, nella contea di Salcette. Secondo una cronaca gesuita, un asceta particolarmente austero venne condotto dal prete locale per spiegare la ragione dei suoi esercizi.

402 Rubiés 2012.

403 Non mancarono casi in cui questi statuti culturali venissero invece fraintesi. Secondo Gruzinski (1999) il fraintendimento fu uno degli stimoli essenziali nel contesto coloniale. La mancanza di una lingua e di un codice culturale comune imponeva un elevato grado di inventiva e improvvisazione sia da parte dei colonizzatori, sia dei colonizzati.

404 Tra i concetti più rischiosi e lesivi vi era l’idolatria, limite invalicabile dei gradi di accomodazione. Essa era posta come margine di discernimento tra il principio di ragione naturale che ispirava il sentimento religioso, insito in tutta l’umanità, e il suo decadimento in forme di pura devozione diabolica e irrazionale. L’idolatria si rivela un utile concetto in relazione alle dinamiche di committenza e fruizione artistica poiché dietro l’adozione di forme artistico-devozionali cattoliche, gli indigeni continuavano a professare i propri culti, aggirando il rischio di essere perseguitati come idolatri (Rubiés 2005; Zupanov 1996).

405 Le storiche hanno usato il termine ‘civility’, indicante quella dimensione prossima al concetto di gentilismo con cui venivano definiti i popoli dell’Asia meridionale: si veda il capitolo ‘Religion and Civility in 'Brahmanism': Jesuit Experiments (c. 16th-17th)’ in Zupanov, Xavier 2014a.

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Il prete parve convincere l’eremita che le sue pratiche trovavano senso nella teoria dell’espiazione dal peccato, tanto che lo yogin bruciò pubblicamente i suoi pochi averi e, dopo aver richiamato a sé la famiglia che viveva in una regione limitrofa, si stabilì nella colonia per vivere da cristiano.407

Prendendo con beneficio del dubbio la narrazione apologetica dell’episodio, la convergenza (superficiale) tra le pratiche dello yogin e la soteriologia cattolica, mostra il metodo di accomodazione dei missionari declinato sul tema della penitenza, che, come abbiamo visto, aveva un’importante valenza di inclusività dei marginali all’interno del progetto di evangelizzazione. La teoria dell’interazione comunicativa e l’uso dell’analogia sollevato da Joan-Pau Rubiés trova dei paralleli nell’analisi di Serge Gruzinski circa l’impiego di maestranze locali da parte degli spagnoli nella pittura parietale del Messico cinquecentesco. Lo storico francese aveva fatto notare come i pittori indigeni (tlacuilos) erano riusciti a iscrivere all’interno del repertorio autorizzato (di matrice biblica o classico-umanistica) la propria simbologia culturale in formule altamente sofisticate, che attraverso la dissimulazione aggiravano la censura imposta dagli spagnoli.408

Questa dinamica poteva realizzarsi poiché il genere delle grottesche in cui erano chiamati a esprimersi i tlacuilos presentava delle affinità con l’arte decorativa locale. Il gusto per l’illusionismo e la metamorfosi, tratti tipici del tardo-manierismo e del barocco seicentesco, riverberava nella memoria stilistica locale. Gli indigeni riproducevano così la propria mitologia sotto la foggia dei miti classici. L’antico diventava quindi uno spazio di mediazione tra il passato precolombiano e la storia coloniale, venendo a creare un’analogia col pensiero degli spagnoli, visto che le culture classiche erano state usate come lenti per la decifrazione dei costumi mesoamericani. Questa tipologia di produzione artistica implicava una stratificazione del significato. in accordo con la teoria dell’immagine ‘totale’ di epoca controriformista. Questa molteplicità di gradi di lettura era pensata come strumento di persuasione del pubblico suddiviso su più livelli di estrazione sociale. Tuttavia, solo alcuni degli stilemi prodotti dai tlacuilos potevano essere decifrati dagli spagnoli, altri rimanevano di stretto appannaggio della lettura indigena. Questa rete di rimandi, divergenze e affinità sanciva quello spazio d’incontro tra i due codici culturali, la via mediana tra acculturazione e deculturazione (o resistenza esplicita) tout court. L’accomodatio tendeva alla conversione delle intensioni profonde che animavano la devozione dei destinatari, ma l’adozione di forme estetiche locali non poteva lasciare inalterato il significato delle iconografie, che finirono per essere rimodulate in una molteplicità di livelli di interpretazione.

È questa forse la caratteristica tipica dell’ampio repertorio artistico della prima epoca moderna

407 Wicki 1968,vol. X, pp. 92-93.

408 Diversi casi specifici di questa tipologia di produzione artistica sono analizzati in Gruzinski 1988; 1992; un’analisi sistematica è approntata in Gruzinski 1999.

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nato dal rapporto coloniale, all’interno del quale possiamo iscrivere la Rocca del Buon Pastore. Anche nel nostro soggetto osserviamo la tendenza a replicare le iconografie tradizionali nel contesto delle colonie, ma la dinamica interattiva di creazione del significato aveva finito per compromettere l’originaria valenza dei modelli formali, che andavano invece rivisti e riscritti sulla base della mediazione con ‘l’altro’: gli intagliatori locali. Questi ultimi avevano partecipato dialogicamente alla formulazione iconografica del soggetto in virtù della coincidenza soteriologica tra le istanze dei committenti e quelle dei locali. In questo campo di negoziazioni e compromessi gli effetti risultano quindi imprevedibili, originali, autonomi, e, come nel caso messicano, sovversivi. Almeno in relazione al Buon Pastore non sentiamo di poter applicare la lettura di Gruzinski, come se le maestranze indiane avessero voluto inoculare un significato altro rispetto all’iconografia imposta, in quanto gli intenti alla base della rappresentazione artistica appaiono di matrice essenzialmente missionaria. Ulteriori ricerche in merito alla realtà sociale delle maestranze potrebbero aiutare a svelare altri livelli di lettura.

In conclusione, vi è ancora un’altra domanda che si pone nella valutazione della tendenza alla contaminazione culturale veicolata dall’accomodatio: fino a che punto la commistione era voluta e calcolata dai missionari, o quanto, al contrario, risultante dalla negoziazione delle maestranze locali?

François Laplantine e Alexis Nouss in Pensiero Meticcio hanno operato un’interessante distinzione per gradi tra: assemblage, métissage e svncrétisme. Il primo è definito come composizione di elementi eterogenei che però rimangono riconoscibili e irrelati tra loro. Il sincretismo è quel processo opposto di riduzione di elementi molteplici ad una unità di significato. Il meticciato si configura invece come praxis processuale di mediazione, difficilmente classificabile poiché i diversi termini del rapporto si trovano a contaminarsi vicendevolmente, dando spunto a configurazioni di significato innovative e autonome.409

Alla luce di questa tripartizione, tornando alla domanda iniziale, possiamo concludere che la risposta rimane prospettica. Concentrandoci su quegli aspetti egemonici, come il significato dei contenuti iconografici, la commistione alla base del Buon Pastore diventa un caso di sincretismo diretto dai committenti, sintesi del molteplice in unità dottrinale. Rivolgendoci invece alle caratteristiche incommensurabili e autonome del soggetto, come l’originale composizione iconografica, emergono invece le dinamiche ‘eterodirette’ fra le quali si manifestò il genio locale. L’adozione di uno stile d’intaglio prettamente locale resta l’elemento di maggiore problematicità poiché può essere alternativamente interpretato come gusto dell’esotico da parte dei committenti (espressione della loro vocazione universalistica), e manifestazione interferenziale dell’identità degli artisti, due termini del discorso tra loro complementari e inscindibili.