4. Il popolamento dalla tarda Antichità al primo alto Medioevo
4.3. La struttura del paesaggio dell’entroterra
4.3.5. San Regolo in Gualdo
Un luogo strettamente legato al comprensorio del Gualdo, e di particolare rilievo per le tematiche trattate in questa sede, è San Regolo. Nella geografia attuale del territorio di Monterotondo Marittimo, a questo toponimo corrisponde la sommità di un poggio (255 m s.l.m.) inserito nel medesimo contesto collinare del Frassine.
Le indagini di superficie condotte tra il 2004 e il 2006, nei terreni posti intorno al podere San Regolo e lungo i versanti sud/sud-ovest del poggio su cui sorgono il podere stesso e quello di San Regolino, hanno individuato un interessante contesto fatto di diverse unità topografiche (UT), riconducibili ad un ampio orizzonte cronologico, compreso tra la piena età romana e l’alto Medioevo.
La documentazione scritta lucchese, composta da un dossier di circa 40 carte redatte tra il 740 e l‘826, fa riferimento ad una ecclesia denominata San Regolo in Gualdo e ad un centro gestionale di tipo agricolo da essa dipendente. La menzione più antica è costituita da un atto redatto tra il 749/750 in cui è riportata la promessa fatta dal presbitero Tanualdo al vescovo Walprand di gestire correttamente la chiesa di S.Regolo ubbidendo ai suoi precetti e riconoscendo la piena autorità vescovile sulla stessa ecclesia. Questo documento oltre a testimoniare che alla metà dell’VIII secolo esisteva, in Gualdo, una chiesa dedicata a San Regolo, attesta che la presenza e la riconosciuta
autorità dell’episcopato lucchese su questa parte della Maritima fosse radicata, almeno, dalla prima metà del medesimo secolo420.
Quanto al riferimento topografico, come ricordato poc’anzi a proposito del Frassine, il termine Vualdo è noto dalle fonti dal 748 e, viene ormai pacificamente riconosciuto che in Età Longobarda indicasse un comprensorio piuttosto vasto di proprietà fiscali421; questo sarebbe sorto nella alta Val
di Cornia, nei pressi della confluenza del torrente Milia e con il fiume Cornia, come inoltre attesterebbe il perdurare dell’agionomo presso i poderi San Regolo e San Regolino.
L’origine del termine va ricercata nel longobardo wald 422 che in origine indicava un bosco
demaniale (contrapposto alla silva privata) quasi sempre situato in altura e che, successivamente, assume l’accezione di parco; è molto interessante notare che tale parola, di origine non latina, venisse utilizzata come toponimo già nella documentazione scritta di metà VIII secolo, il che dimostrerebbe con chiarezza l’origine longobarda di tale termine utilizzato, in questo caso, per indicare la foresta demaniale nota come waldo domini regis; in questo luogo, citato nel documento del 754, era attivo un actor regi ed era attestato un Balneo regis423, nei pressi del quale era ubicata,
appunto, la chiesa di San Regolo.
Dai documenti emerge dunque che nel Gualdo del Re sorgeva una chiesa controllata direttamente dall’episcopato della città di Lucca; in origine il suo patrimonio fondiario non doveva essere particolarmente esteso, ma nel corso della prima età carolingia venne arricchito notevolmente attraverso un ciclo di donazioni effettuate, dal 770 al 790 circa, dalle élites locali di cui è rimasta ampia testimonianza scritta424.
Tali donazioni presero avvio per volere di quattro nuclei familiari residenti nel villaggio di Paterno425 con la complicità dell’ambiente vescovile di Lucca: la prima donazione, fatta dai figli di
Magnifredo Rosso, uno degli esponenti delle élites di Paterno, avvenne infatti nella chiesa di San Vito in Cornino, che abbiamo visto essere un avamposto di Lucca nella Maritima, alla presenza di chierici lucchesi; da qui in avanti, gli esponenti locali più eminenti non solo donarono altri beni alla chiesa, ma si imposero come testimoni degli atti eseguiti da altri possessores, come starebbero a dimostrare due dei contratti fatti in favore della chiesa. Grazie a queste donazioni, il patrimonio fondiario della chiesa di San Regolo si accrebbe notevolmente ed arrivò ad includere un numero significativo di beni di varia natura localizzati anche in luoghi molto lontani dal centro ecclesiastico.
Se è vero che molte donazioni non ebbero effetti immediati, e che venne concesso ai vecchi proprietari l’usufrutto vitalizio dei beni donati o l’allivellamento, è vero anche che questo comportò che la chiesa e, di conseguenza, l’episcopato lucchese divenne il proprietario principale di beni fondiari un tempo appartenuti ad una classe, seppure modesta e poco istruita, di possessori locali
420 Il controllo, nell’VIII secolo, nel territorio populoniese di una enclave civile dipendente da Lucca che comprendeva, oltre aSan Regolo in Gualdo, località quali Massa Marittima, Monteverdi, Paganico e Paterno (vedi oltre), era rappresentato da esponenti della chiesa episcopale lucchese ma anche di famiglie
aristocratiche cittadine (Ceccarelli Lemut 2004, p. 1-2). 421 Repetti 1835; Farinelli 2007; Collavini 2018. 422 Francovich Onesti 1987-88 pp.18.
423 Collavini 2007a, p. 233.
424 Collavini 2007a, pp.231-247; Farinelli 2007, pp.62-63.
425 Per una descrizione del sito di Paterno e relativa bibliografia, si veda il paragrafo 4.3. all’interno di questo stesso capitolo.
che si trasformarono in allodieri del vescovo di Lucca, perdendo ogni forma di controllo su questo territorio426.
Oltre alla chiesa, gli unici che nell’immediato ricavarono qualche beneficio da questa politica di donazioni furono proprio gli esponenti delle quattro famiglie di Paterno sopra menzionate; due degli atti di donazioni in favore della chiesa furono infatti stipulati nella curtis di proprietà di Tanifret, localizzata a Paterno427 e Lupo, iniziatore di tali donazioni, divenne rettore della chiesa di San
Regolo, così come è possibile che anche altri quattro sui successori avessero origini locali. Ma anche per le famiglie di Paterno i benefici non sarebbero durati ancora a lungo: l’ingerenza lucchese sulla gestione dell’ente ecclesiastico si fece sempre più forte, al punto che tra il 778 e 781 il presule Giovanni impose il trasferimento delle reliquie di San Regolo428, conservate da sempre nella chiesa
stessa che, secondo la tradizione, era sorta nei pressi del luogo in cui il santo era stato ucciso e a lui era stata dedicata, nella chiesa di San Martino a Lucca. Questo comportò un impoverimento drastico della società locale che, nel corso della seconda metà dell’VIII secolo, si era strutturata intorno alle reliquie e al culto del santo; ai rettori di origine locale, che avevano coperto tale ruolo fino alla fine dell’VIII secolo, vennero sostituiti all’inizio del IX ecclesiastici lucchesi, esponenti della élite diocesana che gravitava nell’orbita del vescovo stesso. Per volontà dello stesso presule, nel corso del IX secolo, la chiesa divenne un centro curtense preposto ad amministrare i possedimenti che ora formavano il suo patrimonio. Se la gestione ordinaria e l’officiatura poteva essere affidata a persone di estrazione locale, sotto corrispondenza di un censo annuo, le entrate e le questioni amministrative (quali le stipule dei contratti di livello) erano di stretta competenza dei rettori lucchesi, che saltuariamente si recavano a San Regolo, e come viene precisato da Giovanni chierico (814), agivano cum licentia del vescovo per conto del quale avevano ricevuto in beneficium la chiesa. Nella società locale, il trasferimento delle reliquie del santo comportò fin da subito una reazione di rammarico e ostentata ostilità nei confronti della diocesi lucchese che, come sembra emergere da alcuni atti redatti negli anni immediatamente successivi al “furto”, le élites locali cercarono di sostituire con esponenti illustri volterrani. Alcuni di questi sono infatti i protagonisti di due donazioni fatte a favore di San Regolo, rispettivamente nel 782 e nell‘805; quest’ultima testimonia inoltre l'avvenuto matrimonio tra lo stesso donatore Cuniperto e Teuperga, nipote di Magnifredo Rosso, esponente di spicco dell’élite di Paterno.
In ogni caso, sul finire del IX secolo, il sistema curtense organizzato intorno a San Regolo, così come l’indiscusso controllo su questo territorio da parte del vescovo lucchese, entra in crisi, come dimostra il disgregarsi del suo patrimonio; questo progressivamente viene smantellato attraverso
426 Collavini 2007a, 231-233. 427 Collavini 2007a, p. 233. 428 Idem, p. 235.
concessioni a livello che, dapprima, interessano i beni localizzati a distanza maggiore dal centro domocoltile429 e, successivamente, toccano anche quelli posti nelle vicinanze della chiesa430.
Tale processo, secondo quanto proposto da Simone Collavini per il territorio maremmano, potrebbe essere dipeso dal processo di riorganizzazione avviato, alla fine del IX secolo, dal potere pubblico; a partire da quel momento, beni di antica appartenenza fiscale passati in età carolingia in concessione all’episcopato lucchese, che a lungo ne mantenne il controllo e le gestione, sarebbero rientrati nell’orbita pubblica scomparendo, per questa ragione, dalla documentazione vescovile431.
Come anticipato, San Regolo è una località ubicata sul pianoro (255 m circa s.l.m), che sovrasta la piana del Frassine, con la quale è collegata dalla strada che da lì conduce a Monterotondo Marittimo.
In quest’area le indagini di superficie hanno individuato un interessante deposito archeologico costituito da concentrazioni di frammenti fittili, pertinenti per lo più a materiale edilizio e ceramica vascolare, di varia estensione (Fig. 9).
L’analisi di queste emergenze ha permesso di ricostruire una maglia insediativa piuttosto articolata e di rilevante interesse che si sviluppa nei campi posti a nord e sud della stessa strada che collega il Frassine a Monterotondo, e che risulta più concentrata in prossimità del podere San Regolo (UT 81, 82, 83, 84, 85, 86), in un raggio di circa 500 m da esso. L’occupazione dell’area si connota, invece, per caratteri meno incisivi lungo i terreni posti a circa 500 m dal medesimo edificio, tanto in direzione ovest, ovvero in prossimità di podere Adua (UT 101, 102, 103), quanto a sud, nelle vicinanze di podere Santa Margherita (UT 142, 234, 293).
Per quanto riguarda il nucleo insediativo maggiore, questo è costituito da unità topografiche di diverse estensioni che variano dagli 80 x140 m (UT 81), ai 20/30 x 30 m, per arrivare a dimensioni molto ridotte quali 6x5 m (UT 86). I siti hanno generalmente un andamento pianeggiante e solo in due casi (UT 81, 82) i materiali sono stati individuati lungo il fianco del pianoro che declina a sud, nel vigneto posto a sud-ovest di podere San Regolo.
A differenza delle dimensioni, la tipologia dei materiali rinvenuti risulta piuttosto coerente fra le varie evidenze, che vanno pertanto inquadrate in un orizzonte cronologico compreso tra la tarda Repubblica e l’alto Medioevo.
Quanto alla dispersione delle evidenze, le cinque emergenze localizzate in aree più marginali (UT 101, 102, 103, 142, 234, 293), sono caratterizzate da dimensioni modeste (mediamente 6x5 m), e rinvenimenti di materiali ceramici molto consunti per i quali, come verrà esplicitato nell’apposito
429 Nell‘847 il vescovo lucchese Ambrogio concede alcuni beni di sua pertinenza a favore di Celso presbiter (tra questi Germaniano); nell‘861 la stessa sorte toccò ad alcuni beni localizzati in loco ubi dicitur Paterno e nell‘893, il vescovo concesse due case massarice poste nell’area di Castiglion Bernardi ad un personaggio di spicco dell’aristocrazia lucchese diocesana, in cambio di un censo da versare in curte S.Reguli; a quanto si apprende dal breve de foera le curtes pertinenti l’episcopato lucchese, organizzate intorno alla chiesa di S.Regolo, sul finire del IX erano state smembrate e date in beneficio ad almeno quattro soggetti diversi. Durante la prima metà del X secolo la curtis di San Regolo espletava la funzione di raccolta dei surplus produttivi delle terre vescovili riscuotendo censi, così come coordinava interventi di
miglioramento fondiario e promuoveva la messa a coltura di terre un tempo appartenute ad altre curtes da essa controllate (Farinelli 2007, pp. 78-82).
430 Si fa riferimento all’atto del 983 in cui Domnucio ottenne livellario nomine, dal vescovo di Lucca, “ecclesia illa cui vocabulum est beati S.Reguli [...] una cum casa et curte illa domnicata que ad ipsa eclesia S. Reguli est pertinentes”, MDL , V/3, n. 1525, Farinelli 2007, p. 83.
paragrafo, è stato difficile, in molti casi, stabilire le produzioni e quindi le cronologie di pertinenza; ad ogni modo, anche per queste evidenze meno significative, è possibile stabilire una cronologia di massima compresa all’interno del medesimo arco cronologico proposto per le precedenti UT.
Le intense arature condotte con mezzi meccanici ormai da diversi decenni in questi terreni hanno negativamente condizionato lo stato di conservazione del deposito che, progressivamente, è stato intaccato e fatto emergere in superficie sottoponendolo così a stress fisici rilevanti; per questa ragione le evidenze individuate durante i sopralluoghi sono decisamente ridimensionate rispetto alle testimonianze orali raccolte sul luogo e da quanto le persone del posto ricordino emergesse intorno a podere S.Regolo nei decenni passati. Questo vale particolarmente in riferimento al cospicuo numero di ossa umane rinvenute in passato nei terreni posti a nord del nucleo poderale principale, che secondo le testimonianze locali, sarebbero state da riferire alla presenza del cimitero pertinente l’antica chiesa, già a quel tempo ridotta in ruderi432.
Durante i sopralluoghi condotti intorno al podere San Regolo è emerso, effettivamente, un numero significativo di ossa, certamente inferiore per densità ed estensione rispetto a quanto riportato dalle testimonianze citate, ma ugualmente significativo; quanto ai ruderi dell’edificio sacro, attualmente essi non sono più visibili. Tuttavia è doveroso precisare che attualmente le murature esterne del podere sono interamente intonacate e, inoltre, non è stato possibile effettuare una verifica interna allo stesso edificio.
Per quanto riguarda l’analisi dei materiali ceramici rinvenuti, è doveroso premettere che, anche per questo sito, i reiterati lavori di aratura condotti, con mezzi meccanici, nei terreni di provenienza ne hanno condizionato fortemente lo stato di conservazione; essi appaiono estremamente frammentati e privi, in percentuale altissima, di parti significative ai fini della loro tipologizzazione.
Anche le superfici appaiono fortemente consumate, tanto che in quasi tutti gli esemplari dotati di copertura, essa è visibile solo parzialmente; per questa ragione è molto probabile che, in origine, il numero di frammenti verniciati o ingobbiati fosse maggiore rispetto a quello attuale, e le analogie di impasto osservate tra molti esemplari acromi con quelli dotati di rivestimento sembra confermare tale supposizione.
Ad ogni modo, i materiali mostrano, come nei casi precedenti, una intensa frequentazione di epoca tardo-repubblicana ed imperiale433, che prosegue anche nel Tardoantico.
432 A questo proposito, nell’opera di Enrico Fiumi, L’utilizzazione dei Lagoni Boraciferi (1943), è riportata una significativa testimonianza sul rinvenimento di ossa, “provenienti certamente dal cimitero conventuale”, fatto “in anni recenti” (presumibilmente a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 del XX secolo), in seguito ad alcuni lavori svolti in quella zona (Fiumi 1943, p. 39, nota 86). Del resto, la presenza di una chiesa dedicata a San Regolo in questo luogo è ricordata dal naturalista Giovanni Targioni Tozzetti che, a questo proposito, descrive la collinetta
“è detta Colle di San Regolo perchè vi era sopra anticamente una Chiesa dedicata a detto Santo, con un Convento, dicesi di Francescani, ora rovinato. Presentemente sulle rovine della Chiesa vedesi una Cappellina”; quest’ultima andrebbe identificata con l’oratorio eretto sulle rovine della antica chiesa nel 1625.
433 Numerosi sono i manufatti in vernice nera, di produzione campana, di pieno II secolo a.C., a cui si associano alcuni frammenti di ceramica comune, per lo più depurata, e anfore databili al periodo tardo repubblicano. Il periodo imperiale risulta maggiormente rappresentato, come attestano le diverse forme in terra sigillata italica (metà I a.C.- II d.C.; UT 82, 83, 84, 85, 86), le anfore Dressel 2/4 ed i manufatti da mensa e cucina (questi ultimi meno attestati) che, sulla base dell’osservazione macroscopica degli impasti, è possibile ricondurre, almeno in parte, a produzioni locali dello stesso periodo. Tra i prodotti di importazione
Significativa è la presenza di una coppa Hayes 99 n°18, 22-23 (UT 81), prodotta in D2, che rappresenta un fossile guida rilevante al fine di individuare l’occupazione dei siti durante la tarda Antichità434. Tale forma infatti, dal peculiare orlo a mandorla, è prodotta e diffusa, secondo Hayes,
tra il 560/580 e il 620; ad essa si associano altri frammenti di cui non è possibile riconoscere la tipologia di origine ma che, sulla base delle caratteristiche di impasto e di vernice sono ascrivibili, anch’esse, alla produzione più tarda di sigillata D (IV- inizi VII secolo d. C.).
Sono ugualmente riconducibili alla tarda Antichità alcuni materiali funzionali sia alla mensa, sia alla cucina; nel primo gruppo rientrano due scodelle, una dotata di orlo estroflesso e sagomato con insellatura per il coperchio, prodotta con un impasto piuttosto depurato e segni di malcottura visibili in frattura, che trova strette analogie in contesti urbani di fine V-metà VI secolo435 (UT 84; Tav.5, 1);
la seconda (UT 86), con orlo a tesa inclinata, anch’essa caratterizzata da un impasto depurato. Si riferisce, invece, ad una generica forma aperta il frammento di ingobbiata di rosso (UT 101), con impasto di colore arancio, depurato e mediamente duro, la cui superficie conserva tracce di rivestimento di colore rosso bruno; data l’estrema frammentarietà del reperto non è possibile capire se, in origine, la forma volesse imitare una delle ultime produzioni africane di sigillata D, secondo una consuetudine molto diffusa nella tarda Antichità attestata da numerosi contesti di rinvenimento, in molti casi di ambito rurale, ascrivibili al V-VII secolo436.
Sono da ricondurre a forme chiuse, probabilmente brocche, legate a funzioni da mensa o dispensa, le anse a nastro realizzate con un impasto depurato o semi depurato, di colore arancio e rosato che in alcuni casi presenta, in frattura, un’anima grigia dovuta a condizioni non ottimali di cottura; tra queste anse si distinguono due tipi, uno a nastro semplice, con profilo esterno concavo, caratterizzato dalla presenza di due scanalature longitudinali, e l’altro, di fine spessore, con superficie superiore a profilo concavo. Entrambe le forme trovano precise analogie con manufatti di ceramica comune depurata rinvenuta in contesti urbani di seconda metà VI- prima metà VII secolo437.
Quanto al gruppo di frammenti realizzati con impasti grezzi, ricchi di calcite con evidente anima azzurro/grigia, essi sono pertinenti a forme chiuse, per lo più olle, atte sia alla preparazione che alla cottura degli alimenti, come mostrano, in taluni casi, i segni di fumigazione superficiale. Le caratteristiche degli impasti, corrispondono pienamente a quelle osservate sia nei materiali ceramici provenienti dalle stratigrafie di VIII-X secolo di Cugnano, sia nei reperti rinvenuti in altri siti del territorio monterotondino e che sulla base delle loro tipologia sono stati datati al VII-X secolo. Sulla base di questi confronti, a nostro avviso è dunque possibile ascrivere i materiali in questione al medesimo orizzonte cronologico.
Dai dati sino ad ora raccolti su San Regolo in Gualdo emerge come la struttura insediativa del sito tardantico si definisca a partire dalla tarda età repubblicana (II secolo a.C.), e ancor più nel corso
si riconoscono diversi frammenti di sigillate africane A affiancati da coevi manufatti da cucina (metà I-II secolo d.C.).
434 Tortorella 1998, pp. 41-43.
435 Cantini 2005, Tav. 28, fig. 5.57 e Tav. 29, fig. 5.63.
436 Valenti 1991, pp.747-750; Brogiolo-Gelichi 1998; Fontana 1998; Panella 1998, p.819; Cantini 2005, p158-166.
437 I confronti per queste tipologie di anse a nastro provengono dallo scavo urbano del Santa Maria della Scala di Siena, pubblicato da Federico Cantini (Cantini 2005); per i disegni si rimanda alla Tav.19,
dell’età Imperiale, quando si sviluppa maggiormente dando vita ad un sistema poliarticolato che perdurerà a lungo. Ad un nucleo principale, costituito dalle unità topografiche più significative per estensione, tipologia e densità di reperti, individuate intorno al podere e a breve distanze dallo stesso, si affiancano infatti altre due aree ugualmente caratterizzate, seppure in percentuale minore, dalla presenza di materiale ceramico. Come già proposto in altre sedi438, il quadro emerso
corrisponderebbe dunque ad una realtà insediativa costituita da un certo numero di unità abitative439
di medie dimensioni, costruite in muratura e dotate di copertura in laterizi (tegole e coppi), localizzate a breve distanza l’una dall’altra e affiancate da strutture più piccole, costruite con le medesime caratteristiche murarie, ma dotate di un corredo ceramico meno pregiato e di difficile lettura a causa del precario stato di conservazione. La tipologia dei materiali ceramici, omogenea fra tutte le UT, è riconducibile, soprattutto nel caso delle sei emergenze maggiori, ad usi legati alla mensa e alla dispensa, tanto da indurre a ritenere che si tratti di ambienti residenziali piuttosto che di servizio, data la scarsità di materiali da stoccaggio.
Potremmo dunque essere di fronte ad un insediamento di antica origine che, con la romanizzazione del territorio e la successiva fase imperiale, si caratterizza, come centro demico di rilievo. Tale ruolo sembra confermarsi anche per la tarda Antichità 440 per la quale non si riscontrano evidenti segni di
mutamento della struttura insediativa. San Regolo, infatti, tra VI e VII secolo rientra ancora nel circuito di smercio dei prodotti africani che giungono negli scali tirrenici e da lì vengono ridistribuiti nell’immediato entroterra441 . Da merce ampiamente diffusa durante la prima e media età
imperiale, tali prodotti, nel corso della tarda Antichità, diventano progressivamente più rari e costosi, tanto da caratterizzare perlopiù contesti urbani e ambienti socialmente rilevanti di ambito