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LA SCUOLA DEI SOGGETTI

Nel documento Al passo coi tempi (pagine 174-181)

Capitolo 6 Per orientarsi

2. LA SCUOLA DEI SOGGETTI

Tra le tante possibili defi nizioni e interpretazioni applicabili alla scuola che esce dalla riforma Moratti quella di “scuola dei soggetti” sembra essere particolarmente pertinente. Parlare di soggetti nella scuola signifi ca prestare attenzione alle persone che in essa agiscono con diversi ruoli e funzioni: alunni e insegnanti in primo luogo, ma anche dirigenti, genitori e altri operatori. Signifi ca parlare delle persone come soggetti e non come oggetti, considerandole come potenziali ed eff ettivi attori della scena scolastica e non come semplici destinatari di un servizio, di una norma o di una proposta. Da questo punto di vista, la legge 53/03 propone senz’altro una scuola dei soggetti, in quanto sottolinea tra le sue fi nalità principali (ricavabili dall’art. 1):

nei confronti degli alunni, «la crescita e la valorizzazione della persona umana»;

nei confronti dei genitori, la «cooperazione tra scuola e genitori»;

nei confronti degli insegnanti, la «valorizzazione professionale del personale docente»;

nei confronti del personale non docente, la «valorizzazione professionale del personale ata».

1.

2.

3.

4.

8 Cfr. sopra, G. Cretti, cit., § 5, p. 64.

9 Cfr. sopra, E. Chemolli, Capitolo 4, Il punto di vista di altri docenti e dei dirigenti, § 2, p. 104.

Si potrebbe osservare che rimangono fuori dalle dichiarazioni esplicite solo i di-rigenti scolastici, ma questi possono trovare soddisfazione nelle ampie responsabilità loro riservate dalla legislazione sull’autonomia, mentre le realtà sociali del territorio sono comunque ricomprese nello spazio riservato al dialogo con gli enti locali e le realtà produttive locali, nonché nell’attenzione – non esplicitata nel testo di legge, ma ribadita in numerosi documenti di accompagnamento – al sistema educativo infor-male e non forinfor-male, con cui si deve integrare il sistema forinfor-male della scuola.

La scuola dei soggetti è un modello di scuola in cui ciascun componente è e si sente protagonista in quanto persona e non in quanto rappresentante di un’istituzio-ne o di una categoria. Può correre il rischio di essere scambiata per una scuola degli individui che, in nome di una sorta di liberismo scolastico, entrano in confl itto tra loro per far prevalere i propri interessi, ma questa possibile concezione deve essere corretta con il richiamo ad una dimensione sociale e solidaristica degli interessi e delle posizioni di cui ciascun soggetto è portatore. Il modello va dunque analizzato in tutta la sua ricchezza semantica e propositiva per distinguerlo da altri modelli ed evidenziarne la portata teorica.

È importante notare in primo luogo che qui si parla di soggetti al plurale e non di singolo soggetto: il singolo rischierebbe di essere il perno intorno al quale far ruotare l’intero mondo scolastico, fi nalizzato alle esigenze e volontà di quel soggetto, cui farebbero da contorno tutti gli altri attori della scena scolastica; se la scuola si co-struisce invece intorno a più soggetti – intorno a tutti i soggetti che ne fanno parte – ognuno ha un’identica dignità pur nella diversità di funzione che svolge. In una scuola dei soggetti sono quindi insuffi cienti tanto il modello puerocentrico quanto quello magistrocentrico per la congenita unilateralità che li caratterizza. Anche la centralità dell’alunno, che è da tempo parola d’ordine delle riforme scolastiche, appa-re un concetto limitativo rispetto alla complessità di prospettive che apappa-re una scuola in cui tutti i soggetti hanno un ruolo di protagonisti o quanto meno hanno il diritto di far ascoltare la propria voce ed hanno il dovere di contribuire alla riuscita del pro-getto comune.

Se dunque la scuola si costruisce intorno a più soggetti, due sono le strade che si aprono per individuare un modello di riferimento: o il modello funzionalista, in cui ogni soggetto occupa un posto determinato e tutto il sistema funziona grazie al rispetto delle regole e dei ruoli da parte di ognuno, o il modello comunitario, in cui la rete di relazioni che lega i soggetti fra loro si impone sulla fi nalizzazione ad un obiettivo comune.

Il modello comunitario è quello prevalente nella legislazione scolastica degli ulti-mi trent’anni in Italia, da quando i decreti delegati hanno fatto superare il modello di scuola-istituzione o di scuola-apparato tipico di epoche più lontane. Nel 1974 è stato

infatti introdotto in maniera defi nitiva il principio che la scuola assume «il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica.»10 Il prin-cipio era stato enunciato nella legge delega 477/73, che parlava di «una comunità sco-lastica nella quale si attua non solo la trasmissione della cultura ma anche il continuo e autonomo processo di elaborazione di essa, in stretto rapporto con la società, per il pieno sviluppo della personalità dell’alunno nell’attuazione del diritto allo studio.»11

Nonostante le apparenze, nella legislazione più recente il modello comunitario sembra essere in realtà poco presente: non se ne trova traccia esplicita né nella norma-tiva sull’autonomia scolastica,12 né in quella relativa alle riforme Berlinguer o Moratti.

L’unico testo che risulta invece interamente costruito sul concetto di comunità sco-lastica è lo Statuto delle studentesse e degli studenti contenuto nel DPR 249/98; ed è signifi cativo nello Statuto l’uso di questa terminologia perché ci si muove sul terreno dei diritti e dei doveri degli studenti, cioè sul terreno delle relazioni interpersonali e della loro valenza etica. A prescindere dalla disuguale presenza formale del concetto di comunità nella normativa scolastica, ci sembra però di poterlo considerare un princi-pio generalmente condiviso nel linguaggio e nella prassi scolastica più comune.

Quella di comunità è una nozione originaria che non ha bisogno di grandi spie-gazioni, essendo intuitivamente comprensibile nel suo signifi cato generico di grup-po primario di persone legate da relazioni sgrup-pontanee in un contesto di esperienze e atteggiamenti condivisi.13 Ciò che defi nisce la comunità come tale è il legame che unisce i suoi membri proprio in quanto persone, ma spesso si usa la stessa termi-nologia anche solo per descrivere un insieme di persone unite funzionalmente dal perseguimento di un’identica fi nalità all’interno di una organizzazione che, come la scuola, assegna ruoli e funzioni a tutti i componenti di quella che solo in senso este-riore, da questo punto di vista, può essere defi nita una comunità.

Nonostante queste oscillazioni concettuali, la ricerca più recente in ambito pedago-gico e di teoria delle organizzazioni ha fatto proprio il paradigma comunitario

propo-10 DPR 416/74, art. 1, trasferito nell’art. 3 del DLgs 297/94.

11 Legge 477/73, art. 2, c. 1. L’art. 4, c. 2, della medesima legge (poi tradotto nell’art. 2 del DPR 417/74) fi nalizzava il nuovo stato giuridico dei docenti anche alla partecipazione al «governo della comunità scolastica».

12 Incidentalmente si trova un riferimento alla «comunità educativa» nell’art. 1 del DPR 233/98, che reca il regolamento del dimensionamento delle istituzioni scolastiche.

13 Un classico della ricerca sociologica in materia è F. Tönnies (1855-1936), Gemeinschaft und Gesell-schaft , 1887, (tr. it. Comunità e società, Edizioni di comunità, Milano, 1963). Per una analisi aggiornata di questi concetti cfr. C. Merz e G. C. Furman, Community and schools. Promise and paradox, Teachers College Press, Columbia University, New York, 1997, in particolare pp. 12-21.

nendolo come modello di una scuola che nell’attenzione alle relazioni interpersonali riesce a trovare la carta vincente per realizzare più effi cacemente le comuni fi nalità educative.14 Si pensi alle recenti teorie sulla qualità totale, che fondano il miglioramen-to del risultamiglioramen-to – in ambimiglioramen-to industriale come in ambimiglioramen-to scolastico – sull’attenzione al fattore umano (il cliente, ma anche il produttore o l’erogatore del servizio).15

In ambito cattolico il modello comunitario trova una fonte autorevole nella dichia-razione conciliare Gravissimum educationis, che individuava una delle caratteristiche proprie della scuola cattolica proprio nella capacità «di dar vita a un ambiente comu-nitario scolastico permeato dello spirito evangelico di libertà e di carità.»16 Il concetto viene sviluppato e aggiornato nel documento della Congregazione per l’Educazio-ne Cattolica su La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio (1997), che intende soff ermarsi «sullo stile ed il ruolo della comunità educativa costituita dall’incontro e dalla collaborazione delle diverse presenze: alunni, genitori, insegnanti, ente gestore e personale non docente. A riguardo viene giustamente richiamata l’importanza del clima relazionale e dello stile dei rapporti. Nel corso dell’età evolutiva sono necessarie relazioni personali con educatori signifi cativi e le stesse conoscenze hanno maggiore incidenza nella formazione dello studente se poste in un contesto di coinvolgimento personale, di reciprocità autentica, di coerenza di atteggiamenti, di stili e di comporta-menti quotidiani. In questo orizzonte va promossa, nella pur necessaria salvaguardia dei rispettivi ruoli, la fi gura della scuola come comunità, che è uno degli arricchimen-ti dell’isarricchimen-tituzione scolasarricchimen-tica contemporanea. Giova, poi, ricordare, in sintonia con il Concilio Vaticano II, che la dimensione comunitaria nella scuola cattolica non è una semplice categoria sociologica, ma ha anche un fondamento teologico. La comunità educativa, globalmente presa, è così chiamata a promuovere l’obbiettivo di una scuola come luogo di formazione integrale attraverso la relazione interpersonale.»17

Naturalmente, il modello comunitario non è esclusivo della scuola cattolica ma costituisce una proposta pedagogica valida per qualsiasi tipo di scuola. Le acquisizioni

14 Cfr. T. J. Sergiovanni, Building Community in Schools, Jossey-Bass, San Francisco, 1994 (trad. it. Co-struire comunità nelle scuole, LAS, Roma, 2001). Per una sintetica rassegna delle diverse prospettive presenti soprattutto in ambienti angloamericani cfr. L. G. Beck, Metaphors of educational community: an analysis of the images that refl ect and infl uence scholarship and practice, in “Educational Administration Quarterly”, 35, 1999, 13-45.

15 Cfr. H.Gazïel e M. Warnet, Le facteur qualité dans l’éecole de l’an deux mille. Th éorie, métodologie et pratique, Presses Universitaires de France, Paris, 1998 (trad. it. Il fattore qualità nella scuola del Duemila, La Scuola, Brescia, 2000).

16 Gravissimum educationis, n. 8, a).

17 Congregazione per l’Educazione Cattolica, La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio, Roma, n.

18, 1997.

della più recente ricerca psicopedagogica confermano infatti l’importanza della di-mensione aff ettiva e relazionale come fattore determinante per favorire qualsiasi tipo di apprendimento,18 mentre tutto l’impegno profuso negli ultimi tempi dallo stesso Ministero dell’Istruzione nel settore dell’educazione alla salute sta a testimoniare un indirizzo irreversibile di attenzione al benessere complessivo dell’alunno come stra-tegia per ridurre la dispersione e l’insuccesso scolastico.19 La personalizzazione che la riforma Moratti propone come scelta didattica strategica attraverso i piani di studio personalizzati20 è l’ulteriore conferma del protagonismo che si vuole attribuire alle persone degli alunni attraverso un costante confronto con gli altri soggetti della comu-nità scolastica: genitori, docenti e in particolare il docente tutor, la cui funzione non è semplicemente quella di farsi portavoce della scuola nei confronti della famiglia e del-l’alunno (e viceversa), ma quella di curare un vero rapporto personale e personalizzato con l’alunno, per esempio attraverso la comune elaborazione del portfolio.

Da un punto di vista lessicale è opportuno fare chiarezza sull’aggettivazio-ne che accompagna l’uso del termisull’aggettivazio-ne comunità. Si usa spesso parlare in maniera intercambiabile di comunità scolastica, comunità educativa o comunità educante, ma ciascuna espressione andrebbe utilizzata in maniera più specifi ca per evidenziare le sfumature semantiche legate alla complessità del concetto. Non ci sono norme codifi cate in proposito, ma ci sentiamo di poter proporre una diversicodifi cazione di signicodifi -cati che può aiutarci per muoversi nel complesso territorio che stiamo attraversando.

Proponiamo quindi che la comunità scolastica sia intesa come sinonimo di scuola, presa nell’insieme di tutte le sue componenti, mentre tra comunità educativa e comu-nità educante vorremmo far passare la stessa diff erenza che c’è tra l’essere e il dover essere. Sarebbe quindi da intendere come comunità educativa l’insieme delle persone che convivono e collaborano all’interno del sistema scuola, eff ettivamente accomu-nate dalla condivisione di un’identica fi nalità educativa che si esplica nella diversità delle funzioni attribuite ad ognuno (ed allora l’espressione risulterebbe sinonimo di comunità scolastica, ma con un allargamento della prospettiva oltre i confi ni della scuola verso la globalità delle esperienze educative). La comunità educante dovrebbe essere invece quella che intenzionalmente, in quanto comunità, persegue una fi na-lità educativa proprio attraverso la cooperazione di tutte le sue componenti, senza le quali non sarebbe neanche possibile realizzare quel progetto. La prima formula si limiterebbe a descrivere un fatto, la seconda esprimerebbe una teleologia.

18 Sul piano meramente divulgativo si tenga presente D. Goleman, Emotional Intelligence, Bantam, New York, 1995 (trad. it. Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano, 1996).

19 All’interno della vasta normativa sull’argomento, si veda principalmente la CM 362/92.

20 Cfr. DLgs 19.2.2004, n. 59, e CM 5.3.2004, n. 29.

Per completare il quadro della scuola dei soggetti, un ultimo richiamo deve essere fatto a coloro che solitamente stanno dietro le quinte della scena scolastica ma ne sono i fondamentali committenti: i genitori. Per una scuola che intenda proporsi come co-munità non si può infatti prescindere dal modello comunitario per eccellenza che è la famiglia: non perché la scuola debba trasformarsi impropriamente in un surrogato della famiglia, ma perché il clima di dialogo e di cura che si vorrebbe poter trovare al-l’interno della famiglia possa trasferirsi tra i componenti della comunità scolastica (di cui fanno parte anche i genitori) secondo una logica di continuità orizzontale troppo spesso disattesa nella scuola, soprattutto con il crescere dell’età degli alunni.

Cosa comporta per l’Irc andarsi a collocare nell’una o nell’altra prospettiva? È chiaro che la presenza dell’Irc all’interno di una scuola che si descrive come comunità scolastica è un fatto puramente ordinamentale: nella scuola c’è spazio per tutti, quindi anche per l’Irc. Se la comunità diventa educativa si incomincia a manifestare attenzio-ne anche attenzio-nei confronti di altre agenzie educative: e l’Irc può costituire un’interessante cerniera tra l’istituzione scolastica e la Chiesa, che è senz’altro una di queste agenzie.

Se infi ne si parla di comunità educante, la necessità di valorizzare il contributo che ogni membro della comunità sa off rire alla riuscita del comune progetto educativo rappresenta un’occasione di ulteriore valorizzazione dell’Irc, che non solo vede ri-badita la sua curricolarità ma soprattutto risulta essere elemento indispensabile e insostituibile dell’intero processo.

In realtà, questa progressiva valorizzazione della disciplina non è una peculiarità esclusiva dell’Irc ma può applicarsi indiff erentemente a tutte le discipline e a tutte le persone che compongono la comunità; nel caso dell’Irc ci sembra però di poter ri-vendicare una comunanza di principi e valori con il modello scolastico comunitario.

Non è solo una affi nità estrinseca di ideali, ma una concreta esperienza maturata in decenni di prassi didattica volta a superare i confi ni disciplinari nella ricerca di ag-ganci e percorsi di natura multi - o interdisciplinare.

Il contributo dell’insegnante a questo proposito è determinante, perché le comu-nità sono tali in quanto sono fatte di persone: non sono le discipline o le strutture organizzative a fare comunità ma le persone, che comunicano direttamente e stabili-scono legami anche aff ettivi. L’Idr non è l’unico a cercare di stabilire queste relazioni, poiché il compito di fare comunità eff ettiva spetta a tutti i membri della cosiddetta comunità scolastica. L’Idr, però, ha due motivi in più per percorrere questa strada: da un lato, in quanto rappresentante della Chiesa nella scuola, può farsi portatore del-l’istanza educativa intrinseca alla Chiesa stessa, che non si realizza solo attraverso la trasmissione di contenuti teorici o aff ermazioni dottrinali, perché il metodo educativo della Chiesa è da sempre quello di riprodurre se stessa, cioè fare comunità; dall’altro, la debolezza della disciplina è stata spesso compensata dalle doti personali

dell’insegnan-te, che ha quindi cercato di recuperare sul piano relazionale (cioè impegnandosi a fare comunità con alunni e colleghi) un ruolo di maggiore incisività ed effi cacia.

In maniera particolare l’Irc si presta ad essere terreno di coltura per una scuola dei soggetti per il fatto stesso di essere una disciplina sottoposta alla scelta dell’utenza. La facoltatività è infatti un primo passaggio istituzionale che evidenzia ed esalta la re-sponsabilità soggettiva di alunni e genitori chiamati a compiere una scelta impegna-tiva. Si è sempre detto che la scelta sull’Irc non è una dichiarazione di fede o di appar-tenenza religiosa, ma non si può negare che il meccanismo della facoltatività derivi dal rilievo che la materia religiosa ha per la sfera della coscienza individuale e della libertà personale, sicché la stessa normativa concordataria ne ha dovuto introdurre il principio ponendolo sotto l’egida della libertà di coscienza.21 È un appello impegna-tivo alla responsabilità di ognuno, che viene sollecitato in quanto singolo soggetto e non solo come utente di un servizio pubblico. La stessa situazione si può rilevare per l’Idr, che interviene sulla scena scolastica in virtù di un’approvazione ecclesiastica che ne certifi ca l’idoneità personale e non solo esteriormente professionale.22 Il richiamo ad una forte motivazione personale dovrebbe valere per tutti gli insegnanti in genere, ma per l’Idr è fondamentale poter contare su una credibilità personale per rendere effi cace il proprio insegnamento.

Su questo specifi co piano, gli Idr intervistati mostrano spesso di avere propen-sione alla collaborazione, ma di non vederla sempre corrisposta. Piuttosto rare sono infatti le compresenze o le collaborazioni in progetti interdisciplinari,23 ma si tratta di un limite proprio di tutta la scuola italiana. Le risposte raccolte documentano però da parte degli Idr la percezione di un clima sostanzialmente positivo e collaborativo, anche se ci si deve limitare ancora ad una valutazione basata su parametri che poco hanno a che fare con l’esistenza di una vera comunità e si limitano ad una dimen-sione prevalentemente istituzionale (programmazione, organi collegiali, progetti interdisciplinari, ecc.),24 che può apparire esteriore ma che può suggerire di

azzar-21 L’accordo di revisione del Concordato lateranense (9.2) motiva ed inquadra la scelta di avvalersi o non avvalersi dell’Irc «nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori», rinviando implicitamente agli articoli 3, 19 e 30 della Costituzione.

22 È noto che i requisiti previsti dal Codice di Diritto Canonico (can. 804, §2) riguardano la retta dottri-na, la testimonianza di vita cristiana e l’abilità pedagogica. La Cei, nella nota pastorale Insegnare religione cattolica oggi, 1991, aff erma per esempio che «gli alunni hanno diritto di incontrare in lui [nell’Idr] una personalità credente, che suscita interesse per quello che insegna, grazie anche alla coerenza della sua vita e alla manifesta convinzione con cui svolge il suo insegnamento» (n. 18).

23 Cfr. sopra, G. Cretti, cit., § 4, p. 62.

24 Cfr. ivi, § 7, p. 75.

dare una correlazione tra la soddisfazione professionale (che è una valutazione so-stanzialmente soggettiva) e la presenza di un contesto comunitario (che è il risultato di rapporti personali in cui sono coinvolti i soggetti in quanto tali e non per il loro ruolo professionale). Più chiara sembra essere la propensione alla collaborazione che emerge dai focus group,25 che descrivono un Idr con tanta “voglia di esserci”, che gli altri colleghi tendono ad attribuire al loro rischio di isolamento. Tra l’inutilità del loro contributo e l’importanza del loro punto di osservazione, ciò che emerge come costante è la diversità dell’Idr, che forse solo attraverso una rete di relazioni personali riesce a recuperare un’identità professionale e scolastica, visto che le regole istituzio-nali non sempre lo favoriscono.

Nel documento Al passo coi tempi (pagine 174-181)