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UN INSEGNAMENTO DIMEZZATO

Nel documento Al passo coi tempi (pagine 187-192)

Capitolo 6 Per orientarsi

1. UN INSEGNAMENTO DIMEZZATO

Se andiamo a consultare un dizionario, troviamo che la valutazione è defi nita in genere come un’attribuzione di valore. E il valore viene defi nito qualche volta come risultato della valutazione (producendo nel lettore un comprensibile disorientamento per la circolarità dei rinvii) o come prodotto di un’azione di stima o apprezzamento sulla base di criteri oggettivi o soggettivi. L’attribuzione di valore può avvenire prima di un’azione (ed allora ha anche il senso di una motivazione) o dopo (ed allora rap-presenta un bilancio), ma in entrambi i casi si tratta di un’attenta rifl essione volta ad assumere una decisione e quindi implicante un’assunzione più o meno consapevole di responsabilità. Insomma, la valutazione è un’operazione complessa e qualitativa che non si può ridurre a un mero calcolo delegabile ad una macchina.

Nella scuola la valutazione si colloca alla fi ne di un percorso didattico per espri-mere in termini sintetici un giudizio sull’effi cacia del percorso stesso, cioè sulla rea-lizzazione degli obiettivi programmati. Essa si distingue dalle azioni di verifi ca, che sono i singoli accertamenti dei livelli di competenza raggiunti nelle diverse parti in cui si scompone l’azione didattica. La verifi ca si trova rispetto alla valutazione come un mezzo rispetto a un fi ne, come una parte rispetto al tutto, come un fattore rispetto al risultato. La verifi ca appartiene al territorio della didattica ed è generalmente in-termedia, la valutazione ha anche una rilevanza giuridica esterna ed in questo caso si colloca generalmente in posizione terminale. In relazione a queste diff erenze si suole distinguere una valutazione formativa da una sommativa, la prima pienamente integrata nell’azione didattica quotidiana, la seconda posta al termine di essa con un signifi cato uffi ciale.1

Sulla valutazione scolastica (soprattutto quella sommativa) pesa molto spesso un’analogia giudiziaria che può determinare quella percezione distorta che di essa talvolta hanno non solo gli utenti (alunni e famiglie) ma gli stessi operatori scola-stici: la valutazione è vissuta come un “giudizio”, il consiglio di classe è un “collegio giudicante”, il voto è una “sentenza”. Equivoci del genere fanno parte della vita sco-lastica quotidiana e testimoniano lo sfondo ambiguo su cui si costituisce l’identità

1 Cfr. B. Vertecchi, Valutazione formativa, Loescher, Torino, 1976.

dell’operazione valutativa. Nonostante queste confusioni e questi rischi, il momento valutativo è quello che più qualifi ca l’azione della scuola ed è quello da cui può par-tire il più autentico rinnovamento dell’intero sistema scolastico. Se l’insegnamento è un’attività fi nalizzata e non casuale, è partendo dal traguardo che si possono correg-gere, a ritroso, gli errori del percorso.

Anche per l’Irc il confronto sulla valutazione è decisivo per risolvere il proble-ma della sua identità. Ai confi ni tra la dimensione didattica e quella giuridica, tra le competenze professionali del docente e la rilevanza esterna delle sue conclusioni, il momento della valutazione ha inciso profondamente nel delineare il profi lo dell’Irc.

Non è un caso che proprio in materia di valutazione si concentrino alcune tra le principali peculiarità dell’Irc, che ne fanno una disciplina “diversa” e – nella misura in cui la valutazione è, per chi la compie, espressione di una raggiunta maturità – una disciplina minore.

La valutazione nell’Irc subisce tre limitazioni che infi ciano la consistenza scolasti-ca della stessa disciplina. Esse si manifestano nell’impossibilità di far ricorso a voti ed esami, nella scheda separata con cui si comunica la valutazione alle famiglie e nella partecipazione condizionata dell’Idr alle deliberazioni degli scrutini fi nali. Per il ri-lievo che hanno e per le motivazioni discutibili da cui discendono, queste limitazioni rappresentano oggi una vera e propria discriminazione a carico dell’Irc.

2. … IN LUOGO DI VOTI E DI ESAMI …

La prima restrizione riguarda direttamente l’apparato didattico dell’Irc e consiste nel divieto di far ricorso a voti ed esami. È l’aspetto su cui si concentrano minori po-lemiche, perché deriva da norme veteroconcordatarie che godono ormai di una tacita assuefazione nonostante la scarsa coerenza con l’impianto neoconcordatario.

Occorre infatti risalire alla legge 824/30, applicativa del Concordato del 1929, con la quale si stabiliva, all’art. 4, che «per l’insegnamento religioso, in luogo di voti e di esami viene redatta a cura dell’insegnante e comunicata alla famiglia una speciale nota, da inserire nella pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profi tto che ne ritrae». La CM 117 del 23.9.1930 ripeteva le indicazioni della legge, motivandole semplicemente con le «speciali fi nalità» dell’Ir.

Se questi limiti potevano aver senso nel vecchio regime concordatario, in un con-testo di religione di Stato e di Ir legittimamente inteso come catechesi scolastica, oggi essi non sono più coerenti con il nuovo quadro istituzionale. L’Irc ha fatto proprie le fi nalità della scuola, ma l’abbandono delle precedenti fi nalità “speciali” non ha pro-dotto conseguenze in sede operativa. Anzi, il Testo Unico della legislazione

scola-stica, DLgs 297/94, ha letteralmente ripreso la formula del 1930, confermandone la validità, senza accorgersi del suo superamento.

Anche ad un occhio estraneo dovrebbe risultare evidente l’anacronismo di una disposizione che vieta l’uso dei voti (numerici), quando da tempo la tradizionale sca-la decimale è stata abbandonata nelsca-la valutazione fi nale degli alunni di scuosca-la ele-mentare e media. Solo nella scuola superiore sopravvivono i voti numerici e dunque appare chiaro come la prescrizione del 1930 produca ormai eff etti solo in questo gra-do scolastico e risulti di fatto inutile e inapplicabile nelle scuole del primo ciclo di istruzione.

C’è dunque da chiedersi quale fosse e quale sia ancora oggi il senso di questa pre-scrizione. Se l’intento era quello di sottrarre il “voto” di religione alla media scolastica per evitare condizionamenti impropri sul risultato fi nale (l’Ir veteroconcordatario poteva essere legittimamente inteso e valutato in termini catechetici), allora l’obietti-vo è oggi in gran parte fallito perché la disposizione risulta inapplicabile nelle scuole del primo ciclo che adottano per tutte le discipline una stessa scala di giudizi verbali e dunque non distinguono l’Irc dalle altre materie; ma questa motivazione non regge al confronto con il nuovo Concordato, che fonda l’Irc su nuove basi e quindi rende an-che illegittimo un simile sospetto nei confronti di una disciplina an-che ha esplicitamen-te fatto proprie le fi nalità della scuola. Se invece l’inesplicitamen-tento era quello di evidenziare la diversità di una disciplina in cui convergono dimensioni soggettive tali da non poter essere sottoposte agli stessi strumenti di valutazione in uso nelle altre materie, allora l’obiettivo non risulta più comprensibile alla luce della scolarizzazione dell’Irc neoconcordatario e di fatto non è nemmeno percepito dall’utenza scolastica sempre per il motivo che la diff erenza rimane visibile solo nella scuola superiore.

E non va dimenticato che al divieto di voto è legato il divieto di esame, cioè l’im-possibilità di sottoporre ad una procedura formalizzata di valutazione fi nale un per-corso didattico che si è protratto per un intero ciclo di studi. Per certi aspetti questa seconda limitazione è più pesante della prima, perché agisce sull’atto fi nale dell’in-segnamento, proprio per sottolinearne la diversità rispetto agli altri insegnamenti.

In un certo senso il messaggio implicito è la non valutabilità dell’Irc e dunque la sua irrilevanza scolastica. Se davvero così fosse ci troveremmo di fronte ad un grave vul-nus alla stessa costruzione concordataria, che si è mossa in una logica di integrazione piena. Che l’Irc sia una disciplina scolastica è infatti incontestabile, dal momento che dispone di orari, programmi, docenti e libri di testo esattamente come qualsiasi altra disciplina; gli manca solo la valutazione, ma su questo piano l’amministrazione sco-lastica potrebbe sempre sostenere che non è impedito all’Idr di valutare i suoi alunni, bensì solo di esprimere la sua valutazione con le modalità comuni agli altri insegnan-ti: ognuno può vedere da sé quanto sia inconsistente una giustifi cazione del genere.

Se andiamo indietro agli anni in cui venne introdotto il divieto di esame, dobbiamo anzitutto notare che nella scuola gentiliana gli esami erano uno sbarramento continuo che all’incirca ogni paio d’anni verifi cava la possibilità dell’alunno di procedere nel corso degli studi. Oggi, con le ultime riforme, dopo l’abolizione degli esami di licenza elementare, gli unici esami rimasti sono quelli conclusivi del primo e del secondo ciclo.

Quindi l’incidenza del divieto di esami è abbondantemente ridimensionata rispetto al rilievo che poteva avere nel quadro originario. Ma la questione di principio rimane e rappresenta un ostacolo sul cammino della scolarizzazione dell’Irc.

La facoltatività della disciplina non può essere considerata un motivo per giusti-fi care l’esclusione degli esami. Anzi, il fatto che l’Irc sia oggi frequentato solo da chi sceglie di avvalersene costituisce una garanzia contro qualsiasi uso improprio di un eventuale esame fi nale. Ma soprattutto, chi frequenta un corso scolastico ha il diritto di veder accertato formalmente il proprio profi tto; altrimenti la disciplina scolasti-ca si trasforma in mero intrattenimento e la manscolasti-canza di tale conclusione formale può autorizzare qualche studente o qualche docente a rendere eff ettiva tale latente trasformazione. Di fatto, l’Idr compie durante l’anno diverse verifi che sul lavoro svol-to; la mancanza di prescrizioni specifi che nei programmi ministeriali gli consente di adottare liberamente prove orali, scritte, test, questionari, dibattiti o osservazioni sistematiche per giungere comunque allo stesso scopo. Poiché qui siamo nel campo delle verifi che è ben chiaro che non si applicano le restrizioni relative alla valutazione:

l’Idr può riempire il suo registro di voti o altri indicatori a suo piacimento, purché risultino comprensibili ad una sempre possibile verifi ca esterna.

Il problema vero è che aver escluso la possibilità di un esame per l’Irc signifi ca averne fatto una sorta di zona franca dal punto di vista didattico, in cui l’insegnante può fare tutto ciò che la sua coscienza professionale gli suggerisce, senza dover ren-dere conto a nessuno del proprio operato. Un esame, invece, costringe al confronto pubblico sul lavoro scolastico, al rispetto più rigoroso dei programmi disciplinari e al controllo collegiale sulla valutazione, perché un esame non è un’operazione privata dell’insegnante ma un confronto che egli attua con altri colleghi (non necessariamen-te compenecessariamen-tenti nella manecessariamen-teria) per esprimere un giudizio fondato su un alunno. Vietare l’esame all’Irc signifi ca in un certo senso escluderlo dalla collegialità della didattica e dunque indebolire la sua consistenza scolastica. Ancora una volta dobbiamo regi-strare la mancata presa di coscienza della novità neoconcordataria: nel nuovo quadro istituzionale si continuano a far valere prescrizioni incoerenti non solo con le novità pattizie ma con lo stesso assetto scolastico.

Certo, occorrerebbe valutare l’impatto che una modifi ca del genere avrebbe sul-l’Irc. Qualcuno potrebbe temere un calo degli avvalentisi, ma la qualità dell’insegna-mento non dipende dalla quantità di coloro che lo scelgono. Qualcuno potrebbe

in-vece temere le complicazioni che verrebbero agli Idr nel dover gestire questi esami alla presenza di colleghi annoiati o polemici, ma le diffi coltà sono le stesse di qualsiasi altra situazione di esame e il confronto pubblico può solo giovare all’immagine e alla natura dell’Irc. Qualcuno potrebbe infi ne lamentare il sovraccarico di lavoro degli Idr e le diffi coltà organizzative derivanti dal dover concentrare su un solo docente centinaia di esaminandi, ma anche qui non possono essere problemi pratici o, peggio, difese corporative a bloccare iniziative in linea di principio necessarie. Francamente non ci riesce di trovare argomenti per rinviare o escludere l’eventualità di un esame anche per l’Irc: sarebbe un’occasione di equiparazione sostanziale per la materia e per l’insegnante, e dunque di valorizzazione per entrambi.

Il paradossale quadro normativo che si è venuto a creare richiede una modifi ca coerente: da un lato si può auspicare una unifi cazione delle modalità valutative in tutti i cicli scolastici, dall’altro va superata una restrizione che poteva giustifi carsi solo nel contesto giuridico del vecchio Concordato. L’abrogazione di quell’articolo di legge del 1930 appare ormai un’esigenza di coerenza e legittimità di fronte alle incongruenze che ne derivano.

All’unifi cazione delle modalità valutative si collega anche il problema della scala di valutazione da adottare per l’Irc. Mentre nella scuola elementare e media il proble-ma non si pone, nella scuola superiore assume contorni più complessi e di proble-maggiore urgenza. È infatti prassi comune (e la ricerca lo ha confermato ampiamente anche nella realtà trentina) l’adozione di scale diverse di giudizi per la valutazione dell’Irc. In passato si ricorreva agli aggettivi scarso, suffi ciente, molto, moltissimo per valutare inte-resse e profi tto dell’alunno nell’Irc. Oggi quegli aggettivi sono caduti in disuso e sono stati spesso sostituiti da altre espressioni, che pongono problemi di altro genere.

In primo luogo, la legittimità di una simile operazione è fuori discussione, vi-sto che il regolamento dell’autonomia prevede che criteri e modalità di valutazione siano fi ssati dalle singole scuole nel rispetto della normativa nazionale2 (e questa è sicuramente rispettata una volta che non si faccia ricorso a voti e ad esami). In secon-do luogo, però, occorre tenere conto del possibile disorientamento dell’utenza che, soprattutto in caso di trasferimento da un istituto all’altro, potrebbe trovare giudizi identici con signifi cati diversi o giudizi diversi che hanno lo stesso valore (quanto meno, nei documenti uffi ciali sarebbe necessaria una nota che illustri la scala di giu-dizi adottata). Non è infi ne indiff erente la scala che si intende adottare: per ragioni di continuità ci sentiremmo di sostenere l’adozione della scala di aggettivi in uso nel primo ciclo (non suffi ciente, suffi ciente, buono, distinto, ottimo),3 ma la creatività delle

2 DPR 275/99, art. 4, c. 4.

3 La CM 85/04, nel quadro di una revisione delle modalità di valutazione che valorizza l’autonomia di

scuole potrebbe utilmente misurarsi con altre possibilità che consentano una mag-giore precisione. In eff etti questa scala di giudizi risulta essere adottata dal maggior numero di Idr intervistati nel corso della ricerca, ma sarebbe auspicabile realizzare un confronto più ampio che possa condurre per esempio ad una scelta condivisa al livello dell’intera provincia trentina, anche per cancellare il sospetto che la varietà delle opzioni sia legata all’incertezza della disciplina o alle preferenze soggettive degli insegnanti.

Inoltre va ancora notato che nel corso degli anni sono cadute del tutto in disuso le indicazioni originarie che raccomandavano di valutare distintamente interesse e profi tto (nelle pagelle di qualche decennio fa erano ancora presenti due spazi per la valutazione dell’Ir), ma è prassi comune da lungo tempo dare una valutazione unica che si deve intendere comprensiva di entrambi i parametri. Se comunque si dovesse scegliere, crediamo che la maggior parte degli Idr opterebbe per la valutazione del profi tto, che oggi appare più coerente con la collocazione scolastica dell’Irc.

Nel documento Al passo coi tempi (pagine 187-192)