mento e di omertà.
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Ad inizio secolo Alongi scrisse, citando le parole dell’onorevole Bon- faldini, che «la maffia è (…) prepotenza, è la solidarietà (…) che uni- sce (…) tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano trarre sussistenza non dal lavoro, ma dalla violenza, dall’inganno e dall’in- timidazione» . Già allora si riconosceva come tratto tipico del com60 -
portamento mafioso la forza di intimidazione, poi ripresa dall’art. 416-
bis c.p. in cui si richiede che i facenti parte dell’associazione «si av-
valgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva».
G. Fiandaca, La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un para
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digma, in Foro it., 1995, V, 21; G.A. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, op. cit., 308 ss.; Id., Societas sceleris, op. cit., 120; F.M. Iacoviello, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, in Cass. pen., 1995, 864; G. Spagnolo, L’associazione, op. cit., 24.
Si pensi anche al quadro probatorio, spesso costituito da confessioni dei c.d. “pen
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titi”, cui si sono trovati di fronte i giudici. Collaboratori di giustizia come Buscetta e Contorno hanno parlato di Cosa nostra come di un’organizzazione verticistica sec- ondo il seguente schema: la «famiglia» composta da «soldati», “uomini d’onore” coordinati in gruppi di dieci da un «capo-decina», costituisce la cellula di base del- l’organizzazione che su basi territoriali controlla e coordina le attività di un quartiere o di un centro abitato. Tre o più famiglie territorialmente contigue costituiscono un «mandamento» e nominano al loro interno, o anche fra persone esterne, un «capo- mandamento». I capi-mandamento costituiscono la «Commissione» o «Cupola», un organismo collegiale con competenze provinciali volto a regolare il funzionamento dell’organizzazione e a dirimere eventuali controverse fra famiglie. La commis- sione, presieduta da uno fra i capi-mandamento, c.d. «Capo» o «Segretario», trova, infine, quale organismo superiore una commissione inter-provinciale dai contorni segreti e misteriosi, v. V.B. Muscatiello, Il concorso esterno, op. cit., 189, nt. 58.
G. Alongi, La maffia, Palermo, 1977, 49. 60
La forza di intimidazione è la capacità dell’associazione stessa, e non dei soli singoli associati, di incutere timore per la sua stessa esistenza, avendo acquisito nel tempo una peculiare “fama criminale” attraverso atti di violenza e/o minaccia . 61
Si richiede che gli associati si avvalgano della forza di intimidazione ai fini dell’attuazione degli scopi tipizzati dalla norma. Proprio l’esp- ressione “avvalersi” ha suscitato la diatriba «se sia necessario che l’associazione si sia effettivamente avvalsa della forza di intimidazio- ne, ovvero sia sufficiente che essa si proponga di utilizzarla, anche se poi non se ne sia concretamente servita» . 62
Un primo orientamento ritiene necessaria la commissione effettiva di atti di violenza e/o minaccia: è l’interpretazione di chi considera l’associazione di tipo mafioso un reato a struttura mista e richiede non solo l’esistenza dell’associazione stessa, ma anche la realizzazio- ne, o perlomeno un inizio di realizzazione, del programma crimino- so . 63
Ad avvalorare tale conclusione sta il mero dato lessicale: la norma ri- chiede espressamente che gli associati «si avvalgano» della forza di intimidazione, laddove, invece, avesse voluto riferirsi al mero scopo
G. Spagnolo, L’associazione, op. cit., 26. 61
Per un’interpretazione nel senso che l’intimidazione da parte dei singoli associati non è sufficiente a qualificare come mafioso il sodalizio, v. Cass. Sez. I, 30 gennaio 1990, Abbattista, in Cass. pen., 1990, 1709 ss.
Cit. G.A. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo 62
mafioso, op. cit., 310.
È la posizione di autori del calibro di L. De Liguori, Art. 416-bis c.p.: brevi note 63
in margine al dettato normativo, in Cass. pen., 1986, 1522 ss.; G. De Vero, Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 115; G. Spagnolo, L’associazione, op. cit., 65.
di usare la forza, avrebbe dovuto ricorrere alle diverse locuzioni «si propongono» o «intendono avvalersi» . 64
Agli antipodi si pone l’orientamento che configura l’art. 416-bis c.p. come reato associativo puro: si incrimina il fatto di associarsi per il perseguimento di uno scopo, a prescindere dalla produzione di un ef- fetto intimidatorio o dalla concreta esecuzione di atti diretti ad intimi- dire. Si ritiene sufficiente lo scopo di commettere atti di violenza o minaccia per realizzare il programma associativo, l’intimidazione di- venta oggetto del programma, utile ai fini del perseguimento degli obiettivi finali . 65
In realtà entrambi gli orientamenti lasciano insoddisfatti: seguendo il primo si corre il rischio di non riuscire a colpire le associazioni mafio- se talmente forti e strutturate, le più pericolose, che, disponendo di una particolare “fama criminale”, non hanno bisogno che gli associati commettano specifici atti di intimidazione ; il secondo non trova con66 -
forto nel dato normativo che non richiede il fine di intimidire . 67
Secondo G. Spagnolo, L’associazione, op. cit., 49 ss., se il legislatore avesse vo
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luto dare rilevanza alle mere proiezioni programmatiche del sodalizio, avrebbe fatto ricorso alla diversa locuzione «intendono valersi», quindi «la formulazione letterale non consente di prescindere dall’esistenza della forza intimidatrice e dalla sua utiliz- zazione».
G. Fiandaca, Commento all’art. 19 legge 13 settembre 1982 n. 646, in Leg. pen., 65
1983, 261 ss.; Id., L’associazione di tipo mafioso nelle prime applicazioni giurisprudenziali, in Foro it., 1985, V, 301 ss.; G. Neppi Modona, L’associazione di tipo mafioso, op. cit., 897 ss.
Trib. Caltanissetta, 3 giugno 1985, Pilato, in Foro it., 1986, II, 565. 66
Trib. Bologna 24 ottobre 1986, Abbate, in Foro it., 1986, II, 211; esclude la suffi
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cienza dello scopo Cass. Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo, in Cass. pen., 1997, 3383 ss.
La soluzione può trarsi tenendo a mente un’acuta esemplificazione di G.A. De Francesco : l’associazione mafiosa che partecipa ad una 68
gara d’appalto di lavori pubblici. Può accadere, in primo luogo, che la dissuasione degli altri concorrenti dal partecipare alla gara sia perse- guita attraverso minacce di specifiche ritorsioni a loro danno (effettivo utilizzo della forza di intimidazione tramite minacce); oppure può ac- cadere che l’associazione si limiti al c.d. «avvertimento mafioso» «larvato» o «implicito», consistente, ad esempio, nell’avvisare antici- patamente i potenziali concorrenti che tale Tizio, noto boss mafioso, ha interesse all’assegnazione dell’appalto (anche qui si ha un vero e proprio reato di minaccia, la mera «spendita» del nome del capo risul- ta fin troppo «eloquente», avendo l'organismo raggiunto una forza in- timidatoria tale da non aver bisogno di un esplicito richiamo alle con- seguenze derivanti dal mancato abbandono della gara); infine, l’ipote- si di un’associazione che ha raggiunto una forza intimidatoria tale da non aver bisogno di ricorrere neanche all’«avvertimento» mafioso, sia pure implicito, la mera notizia che il boss mafioso ha deciso di parte- cipare alla gara determina l’immediato abbandono da parte di tutti gli altri potenziali concorrenti.
In questo terzo caso non abbiamo uno specifico comportamento del- l’associazione diretto ad utilizzare la propria forza intimidatrice, ciò nonostante, non avendo l’associazione avuto bisogno di ricorrere ad alcuna condotta in particolare, siamo al cospetto di un consorzio cri- minale dall’altissimo grado di pericolosità, con una carica intimidato- ria di ancor più elevata intensità, negarne la punibilità sarebbe al di fuori di ogni logica.
G.A. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, 68
Alla luce di quanto detto, l’interpretazione più corrispondente alla ra-
tio legis è quella che tende ad escludere la necessità del compimento
di concreti atti intimidatori da parte degli associati, piuttosto la forza intimidatrice deve derivare dalla “fama criminale” che l’associazione si è conquistata con precedenti atti di violenza e sopraffazione e dalla conseguente possibilità (ben nota a chi entra in contatto con l’associ- azione mafiosa) che gli associati possano anche in futuro ricorrere alla violenza al fine di conseguire i loro obiettivi.
È su questa soluzione che si è poi consolidata la giurisprudenza . 69
Lo sfruttamento della forza di intimidazione («si avvalgono (…) ne deriva») deve provocare una condizione di assoggettamento e omertà, qualora questa condizione dipenda da altri fattori, non sussistono i presupposti per l’applicazione dell’art. 416-bis c.p. 70
«Condizione di assoggettamento» è da intendersi come sottomissione incondizionata, “succubanza”, per cui i soggetti estranei all’associa- zione sono indotti ad assumere comportamenti conformi alle pretese e alle finalità della stessa; «omertà» significa reticenza e rifiuto genera- lizzato di collaborare con gli organi dello Stato aventi funzione inqui- rente e giudicante, manifestato solitamente attraverso condotte di fa- voreggiamento, falsa testimonianza etc. 71
Si discute se la condizione di assoggettamento e di omertà possa avere anche rilevanza interna, cioè nei confronti di ciascun associato mafio- so verso i capi dell’associazione , ma si deve dare risposta negativa 72
V. Cass. Sez. V, 25 giugno 2003, Di Donna, in Giust. pen., 2004, II, 636. 69
La Corte di Cassazione ha escluso la possibilità di applicare la fattispecie qualora 70
l’assoggettamento derivi dal fattore religioso: Cass. Sez. VI, 13 dicembre 1995, Abo El Naga, in Foro it., 1996, II, 478.
Trib. Torino 7 dicembre 1984, Alaimo ed altri, in Foro it., 1986, II, 566. 71
G. Turone, Le associazioni di tipo mafioso, Milano, 1984, 86. 72
visto che «il cemento che lega tra loro gli associati, più che dal timore e dalla soggezione, è costituito dalla comune adesione ad una specifi- ca subcultura» , alle sue regole interne e agli scopi associativi. 73