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La situazione macroeconomica: la caduta dei prezzi delle comodità ed il ruolo degli emerging market

4. LE CRISI DI MERCATO

4.3 Recenti sviluppi economici: il rallentamento del 2015

4.3.1 La situazione macroeconomica: la caduta dei prezzi delle comodità ed il ruolo degli emerging market

Dopo una ripresa partita intorno al 2011, negli ultimi anni il commercio internazionale ha rallentato ancora la propria crescita. I primi segnali si sono visti nel 2014, mostrandosi in modo lampante a partire dal 2015.

Nonostante la produzione mondiale abbia continuato a crescere, come mostra la crescita del Gross World Product (GWP), i traffici mondiali sono diminuiti del 10% (Figura 4.).

C’è da chiedersi se tale decremento abbia natura del tutto nominale o debba imputarsi a cause anche strutturali.

http://www.mit.gov.it/mit/mop_all.php?p_id=08957 79

Per la trattazione i dati e le informazioni sono stati attinti da:

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- UNCTAD, Key Statistics and Trends in International Trade: Trade Analysis Branch division on International

Trade in Goods and Services, and Commodities, UNITED NATIONS PUBLICATION, Palais des Nations, 1211

Geneva 10, Switzerland, 2016

- UNCTAD, Trade and development report, 2016, United Nations Conference on Trade and Development,

UNITED NATIONS PUBLICATION, Palais des Nations CH-1211 GENEVA 10 Switzerland , 2016

- UNCTAD, Review of maritime transport 2016, (UNCTAD/RMT/2016), UNITED NATIONS PUBLICATION, Palais

des Nations, CH1211 Geneva 10, Switzerland, 2016

In effetti gran parte della diminuzione è avvenuta in termini nominali, sia per la caduta dei prezzi delle commodity, causata da una insufficiente domanda mondiale aggregata, sia per l’apprezzamento del dollaro nei confronti di tutte le altre valute.

(Fonte: Rielaborazione dati da UNCTAD, Key Statistics and Trends in International Trade: Trade Analysis Branch

Division on International Trade in Goods and Services, and Commodities, 2016)

In Figura 5. le variazioni percentuali dei prezzi delle principali commodity registrate dal 2010 al 2016. Uno dei principali motivi del fenomeno deflativo, è stato l’approvvigionamento ed i livelli di scorte di questi beni sono stati più elevati della crescita della domanda.

Particolarmente esemplificativo il prezzo del petrolio, che dal 2014 al 2015 è passato dai 100$ ai 50$ a barile, con un decremento del 47%, il più importante tra tutte le altre commodity. Il calo dei prezzi del greggio infatti, spiega la contrazione di quasi il 37% dell’indice dei prezzi delle materie prime, perfino più grave del calo del 20% del 2009.

Figura 5. Variazioni % prezzi commodity

2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016

Commodity di cui:

24,6 24,6 -2,0 -3,2 -7,1 -36,7 -14,5

Figura 4. Variazione percentuale annua GWP e Traffici

-16 -12 -8 -4 0 4 8 12 16 Anni 2000-2015 00 05 08 09 10 15 GWP Traffici mondiali

(Fonte: Rielaborazione dati da UNCTAD, Trade and development report, 2016)

Il dollaro invece, ha registrato un incremento del 15% nel 2015, facendo si che il deprezzamento delle altre valute riducesse il valore delle esportazioni denominate in dollari, anche qualora si registrino valore positivi se registrate con monete nazionali. Il risultato è stato che, lo stesso quantitativo di beni potesse essere acquistato con minore quantità di dollari. La decrescita non si esaurisce con la spiegazione fin ora fornita, residua una parte corrispondente ad un declino in termini reali. C’è da chiedersi infatti, perché i prezzi delle commodity siano caduti, ovvero perché si sia contratta la domanda mondiale per tale categoria di beni.

I motivi di questo andamento non sono soltanto congiunturali, ma potrebbero essere legati a fenomeni strutturali, quali ad esempio il diverso ruolo esercitato dalle reti produttive internazionali, costituite da imprese multinazionali, dalle loro affiliate e da fornitori che producono in paesi diversi. Dopo una fase di grande sviluppo, la frammentazione internazionale della produzione potrebbe aver ridotto il suo impulso espansivo sugli scambi, una volta raggiunta una configurazione di maggiore equilibrio nella divisione internazionale delle diverse fasi dei processi produttivi. Le catene globalizzate del valore, hanno reso le economie più integrate, ma anche più vulnerabili e sensibili alla diffusione degli shock.

Infatti si può affermare che la discesa dei prezzi sia dipesa da:

-

una modesta crescita nell’economia mondiale;

-

una scarsa domanda da parte degli emerging markets, che hanno progressivamente modificato la propria catena del valore.

Il Pil mondiale, pur registrando una crescita, nel 2016, ha misurato per il sesto anno consecutivo una modesta espansione, come mostra la Figura 6. vi è stato un rallentamento nei paesi sviluppati, mentre le economie in transizione vivono un periodo di stagnazione, a fronte di una crescita sostenuta ma non più pari al passato, dei paesi in via di sviluppo, dovuta soprattutto alle economie asiatiche.

Alimenti 7,4 17,8 -1,4 -7,4 -4,1 -14,8 -0,7 Materiali grezzi 38,3 28,1 -23,0 -7,4 -9,9 -13,6 -4,7 Minerali, oro e metalli 41,3 14,7 -14,1 -5,1 -8,5 -22,0 -11,4 Greggio 28,0 31,4 1,0 -0,9 -7,5 -47,2 -23,6 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016

(Fonte: UNCTAD, Key Statistics and Trends in International Trade: Trade Analysis Branch division on International

Trade in Goods and Services, and Commodities, 2016)

Tra i fattori strutturali, molte economie avanzate, hanno delle problematiche legate alle proprie strutture demografiche.

L’economia americana ha rallentato nel 2016. Lo scorso anno lo slancio avuto tramite il risanamento del sistema bancario e la più aggressiva politica monetaria, ha arrestato il suo corso. I disoccupati sono diminuiti ai livelli registrati prima che la crisi colpisse e si sono iniziati a vedere sostanziali guadagni. Tuttavia, a causa del numero delle famiglie in difficoltà con alti livelli di debito e di esportatori che lottano con un dollaro eccessivamente forte, secondo i dati Unctad, non ci sono garanzie che l’economia possa godere di un robusto periodo di crescita in tempi brevissimi.

L’Eurozona da segnali ancora più deboli, anche a causa della recente Brexit, che pone le basi per una nuova fonte di incertezza. La crescita economica europea continua ad essere frenata dalla scarsa domanda interna; sporadici i segnali di un miglioramento dei salari reali.

Figura 6. World Output Growth 2008-2016, UNCTAD

2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 World 1,5 -2,1 4,1 2,8 2,2 2,2 2,5 2,5 2,3 Paesi sviluppati di cui: 0,1 -3,6 2,6 1,5 1,1 1,1 1,7 2,0 1,6 Stati Uniti -0,3 -2,8 2,5 1,6 2,2 1,7 2,4 2,6 1,6 Italia -1,1 -5,5 1,7 0,6 -2,8 -1,8 -0,3 0,8 0,8 Regno Unito -0,5 -4,2 1,5 2,0 1,2 2,2 2,9 2,3 1,8 Giappone -1,0 -5,5 4,7 -0,5 1,7 1,4 0,0 0,5 0,7 Paesi in via di sviluppo di cui 5,2 2,4 7,8 5,9 4,8 4,6 4,4 3,9 3,8 Est Asia 6,9 5,9 9,7 7,8 6,0 6,3 6,2 5,4 5,5 Cina 9,6 9,2 10,6 9,5 7,7 7,7 7,3 6,9 6,7 Sud Asia 4,8 4,4 9,1 5,5 3,1 5,0 6,3 6,1 6,8 Africa Sub- sahariana 6,1 5,8 6,7 4,7 4,6 5,2 5,8 3,5 2,8 America Latina 3,7 -2,1 5,9 4,5 3,0 2,7 1,1 0,2 -0,2

Anche l’economia del Regno Unito ha caratteri di debolezza dato il livello di indebitamento ed un deficit commerciale persistente.

Il Giappone raccoglie i frutti delle decadi passate, caratterizzate da una crescita bassa ma persistente, accompagnata da un basso tasso di disoccupazione (attualmente del circa 3%), un basso livello di indebitamento e una solida posizione nei pagamenti. Nonostante ciò, come le altre economie sviluppate, il Giappone ha osservato in modo significativo il ridursi della quota dei salari in termini reali negli ultimi decenni, registrando uno tra i più consistenti cali delle economie sviluppate, anche se in parte per ragioni demografiche, senza vedere una ripresa degli investimenti.

Nelle economie sviluppate si richiede una risposta più equilibrata, combinando una posizione fiscale espansiva derivante sia dalle decisioni di spesa e di imposta, dalle politiche monetarie e creditizie di sostegno, sia da una maggiore regolamentazione finanziaria e da misure re- distributive e programmi sociali che migliorino il benessere. Inoltre è necessario che parte delle misure politiche sia presa a livello multilaterale.

Dall’altro lato, alcune delle economie emergenti che avevano innescato la dinamica del super- ciclo delle materie prime, come la Cina, hanno raggiunto un livello di maturazione che difficilmente permetterà loro di mantenere i recenti tassi di crescita nell’imminente futuro. Con la diminuzione dei traffici, vi è stata una diminuzione sia del livello delle importazioni che delle esportazioni mondiali. Le maggiori economie quali Stati Uniti, Cina, Giappone, India ed Unione Europea, hanno contratto le loro esportazioni non solo in valore, ma anche in volumi. Ma soprattutto, la Figura 7. mostra la contrazione della domanda di importazioni in alcune economie trainanti, quelle dell’Asia, America Latina ed altri paesi in transizione. È principalmente per questo motivo che il mercato continua a muoversi in una situazione di deflazione: chi esporta non riesce a mantenere a lungo la propria posizione sul mercato vedendo un continuo ridursi dei ritorni finanziari.

Figura 7. Import-Export

2009 2015

Declino percentuale Incidenza sul declino mondiale

Declino percentuale Incidenza sul declino mondiale Paesi sviluppati -25 -22 64 54 -11 -11 51 50 Est Asia -17 -16 14 16 -12 -4 26 9 Sud Asia -25 -25 6 6 -10 -15 5 8

(Fonte: UNCTAD, Trade and development report, 2016, 2016)

Guardando agli ultimi 30 anni, soltanto nel 2009 si è vissuta una riduzione così forte del commercio mondiale, con un -15%.

Se pur similare è stato l’arresto che i traffici hanno subito, diverse sono state le cause e le circostanze. Prima di tutto nel 2009 la crescita del commercio internazionale si è arrestata a seguito della crisi dei subprime, e lo ha fatto tanto quanto la crescita del prodotto globale per circa tre anni. Cosa che non è avvenuta nel 2015, quando invece i traffici si sono dimostrati incoerenti rispetto al livello del GWP.

La crisi del 2015 è avvenuta in un periodo di crescita economica più o meno sostenuta, e non in seguito ad una crisi finanziaria ed economica mondiale.

Nel 2009 cadde la domanda dei paesi sviluppati, nel 2015 invece sono i paesi in via di sviluppo quelli che più hanno contribuito al declino delle importazioni. Come si può vedere in Asia le importazioni si sono ridotte di circa tre volte le esportazioni. La stessa, nel 2009 ha vissuto una caduta delle importazioni, del 17%, poiché vide colpita la propria manifattura, e delle esportazioni, con più o meno lo stesso ritmo, poiché si era contratta la domanda nei paesi sviluppati. Se in quell’anno l’Asia dell’Est ha contribuito insieme agli altri paesi in via di sviluppo ad una caduta di un terzo delle importazioni globali, dopo la crisi finanziaria globale, la ripresa fu sostenuta principalmente grazie a queste economie in via di sviluppo e a quelle in transizione, i cui flussi commerciali, in particolare le importazioni, erano cresciuti molto più rapidamente di quelli dei paesi sviluppati, contribuendo a circa tre quarti dell’incremento delle importazioni globali nel periodo 2011-2013.

Anzi, nonostante la crisi finanziaria del 2008, i paesi in via di sviluppo hanno accresciuto i propri volumi di imp/exp del 10% annuo: le importazioni sono cresciuta relativamente di più

America Latina -16 -17 2 2 -13 -17 4 4 Africa Sub- Sahariana -10 -29 1 3 -11 -28 2 6 Economie in transizione -36 -41 5 7 -32 -31 8 10 Ovest Asia/ Nord Africa -35 -43 8 13 -8 -22 4 13

Import Export Import Export Import Export Import Export

2009 2015

Declino percentuale Incidenza sul declino mondiale

Declino percentuale Incidenza sul declino mondiale

rispetto le esportazioni per i paesi in via di sviluppo, e l’opposto è successo per i paesi sviluppati. La ragione sta nella crescita della domanda da parte degli emerging market.

Nel 2015 invece, i paesi dell’Asia dell’Est in via di sviluppo hanno inciso molto di più sul rallentamento dei traffici rispetto al 2009 - con una percentuale di incidenza del 26% sul declino importazioni globali, per un totale del 50% insieme agli altri paesi in via di sviluppo - , e molto meno sul recupero.

Infatti il 2014-2015 ha segnato un cambiamento nelle forze trainanti del commercio internazionale. A partire dal 2014, la crescita aggregata delle importazioni nei paesi in via di sviluppo è notevolmente rallentata. Per la prima volta dopo molto tempo, i mercati d’importazione più dinamici sono state le aree avanzate. In minor grado, ma anche le esportazioni dei paesi asiatici sono molto diminuite.

Queste economie, e soprattutto la Cina, che hanno trainato la crescita dei traffici internazionali degli ultimi 25 anni, ora entrano in un nuovo stage di sviluppo, passando da un modello basato sulle esportazioni e sugli investimenti fissi lordi ad uno incentrato sui consumi interni, da uno che punta sugli input esterni ad uno focalizzato sul mercato domestico. A tutto ciò va aggiunto un sempre più marcato riguardo per i servizi rispetto all’industria manifatturiera.

L’Est Asiatico ha partner in tutto il mondo, sia tra i paesi sviluppati che tra quelli in via di sviluppo, ciò significa che ogni sua trasformazione economica ha ripercussioni su moltissime altre economie.

4.3.2 Il ruolo della Cina nell’economia mondiale.

L’ultimo paragrafo si è concluso parlando delle economie in via di sviluppo e di come esse giochino un ruolo importante nel commercio mondiale ormai da decenni.

Hanno sostenuto la ripresa post-subprime, mentre ad oggi mostrano un rallentamento che necessariamente si ripercuote su tutti quei paesi facenti affidamento sulle loro importazioni ed esportazioni.

Tra gli emerging market dell’area orientale, ce n’è uno che è decisamente il più influente, dal quale le altre economie in via di sviluppo sono fortemente dipendenti: la Cina.

I cambiamenti che intervengono in questo paese, sono quindi fondamentali per poter comprendere anche le sorti del resto del mondo.

La Cina tra crisi finanziaria, crisi immobiliare e riduzione della domanda mondiale.

La Cina ha vissuto negli ultimi due anni una crisi finanziaria che è stata paragonata a quella del ’29 per gli Stati Uniti, registrando il Pil più basso dagli anni ’90, dopo decenni di crescita. Le importazioni reali della Cina sono diminuite del 2,2% nel 2015 - prima cifra negativa da decenni - a causa della crescita più lenta della produzione, colpita da una debole domanda estera, e degli investimenti privati, nonché del riequilibrio interno.

Oltre alla domanda in calo da parte delle economie sviluppate, l’aumento della concorrenza da parte di altri produttori più economici ha influenzato ulteriormente le esportazioni della Cina, con un calo dello 0,9% nel 2015. Tale calo del commercio cinese ha colpito altre regioni: la Cina infatti è il più grande mercato delle esportazioni per alcune economie manifatturiere in sviluppo dell’Asia, come la Repubblica Coreana, Singapore, Taiwan, Thailandia, Vietnam….

Tutto si fa concreto il 12 Giugno 2015, “lunedì nero” per Pudong, centro nevralgico della Borsa cinese a Shanghai, giorno in cui esso perse oltre il 35% del suo valore.

Il mercato finanziario cinese era cresciuto del 150% nel 2015: la vertiginosa discesa dei prezzi, unita alla stringente politica anti-corruzione voluta dal governo, che ha impedito la fuoriuscita dal paese di ingenti capitali non proprio pulitissimi, ha fatto sì che una consistente liquidità rimanesse dentro ai confini nazionali e si riversasse in Borsa. Come da ogni eccessiva speculazione, è nata una bolla che prima o poi è scoppiata: non appena la tendenza si è invertita, è scattato il panico negli investitori che hanno cominciato a svendere i propri portafogli.

La crisi finanziaria cinese ha inasprito ancor di più il fenomeno di calo dei prezzi delle commodity e soprattutto del petrolio, visto che la Cina è stata per decenni il suo maggior consumatore. Ciò ha avuto ripercussioni su altri paesi.

Ma i problemi della Cina sono stati anche altri. Vediamo di riassumerli tutti in tre punti: • crisi finanziaria;

• crisi immobiliare;

• discesa della domanda aggregata mondiale e dei prezzi delle commodity.

La crisi immobiliare è scaturita poichè il governo cinese, negli ultimi anni, ha costruito immobili sia in Cina che in Paesi africani rimasti però invenduti, dato che il prezzo non era praticabile dai salari della popolazione. Si sono create vere e proprie città fantasma.

Per spiegare le conseguenze provocate dalla diminuzione della domanda mondiale, occorre fare un excursus più lungo. Sino alla crisi la Cina ha usato una politica mercantilistica per sostenere la crescita, ovvero ha usato una manodopera a basso costo ma molto qualificata, che le ha permesso, grazie anche all’efficienza delle infrastrutture e del governo, di produrre una grandissima quantità di beni, competitivi e a basso prezzo, da vendere sui mercati internazionali, ovvero da esportare. Ha rappresentato la fabbrica del mondo per molto tempo, il motore trainante dell’economia mondiale. Le grandi esportazioni realizzate hanno generato un surplus che è stato reinvestito per la maggior parte in buoni del tesoro americani. Per mutuo interesse gli Usa non hanno ostacolato lo sviluppo cinese, anche perché questo consentiva loro di sostenere il proprio debito.

Quando però, a seguito della crisi, sia Usa che Europa hanno diminuito la propria domanda aggregata, la Cina non è più riuscita a realizzare le stesse proficue esportazioni di un tempo. Si è cominciato a porsi il problema del mercato interno, un mercato con grandi potenzialità dato il numero di abitanti, ma non sviluppato. Affinché un mercato sia sviluppato, Ford diceva che si dovrebbero mettere i lavoratori nella condizione di acquistare, aumentando quindi i salari. Con un aumento del costo del lavoro però, le merci prodotte in Cina avrebbero un maggior costo. La Cina però non ha intenzione di rinunciare a due obiettivi di difficile conciliazione: lo sviluppo del mercato interno e il mantenimento delle quote di mercato.

Ha risolto il trade-off, scegliendo di svalutare la propria moneta, lo yuan. Infatti svalutando la moneta, le merci all’estero diventano più competitive, senza il bisogno di diminuire il costo del lavoro.

Dall’export allo sviluppo del mercato interno, a rimetterci sono gli Stati Uniti in particolare modo. Da ciò nascono le due parole del presidente americano, Trump, che identifica la Cina come manipolatrice di valuta e l’imposizione di dazi pesanti sulle esportazioni cinesi in America.

La svalutazione inoltre, ha portato e porta ad una forte diminuzione dei guadagni degli investitori, di chi compra azioni: il dividendo, pagato in una moneta che è svalutata, chiaramente diminuisce in proporzione. Questo, unito allo scoppio delle due pericolose bolle, sta portando ad una fuga di capitali dalla borsa cinese che è crollata, per cercare un rendimento maggiore all’estero.

Infatti, la situazione al 2015 è stato un livello dei risparmi lordi annui di 5.000 miliardi di dollari, pari al 75% della somma di quelli di Europa e Stati Uniti ed al 48% del Pil cinese. Gli investimenti lordi invece si attestavano intorno al 43% del Pil, sostenuti da un rapporto

Credito/Pil del 260%. Il sistema risparmiava più di ciò che poteva investire in modo proficuo sul territorio; un risparmio proveniente per la metà dalle famiglie ed il restante da imprese e settore pubblico. Tale surplus, come prima della crisi finanziaria è stato impiegata all’estero. Se questo fosse continuato si sarebbe formata un’eccedenza nel saldo con l’estero ingestibile per il resto del mondo. Il crescente innalzamento del credito ha voluto evitare tutto ciò ma ha provocato fragilità finanziaria. Si è scelto di mantenere gli investimenti a livelli antieconomici. “Le autorità cinesi sono in una trappola: o bloccano la crescita del credito, lasciano che gli investimenti si contraggano e generano una recessione interna, un'enorme eccedenza nel saldo con l'estero o entrambe le cose, oppure continuano a far crescere il credito e gli investimenti ma inaspriscono i controlli sui deflussi di capitali.” 81

Un aumento del credito sostiene gli investimenti ma è necessario che avvenga ciò che dice l’ultima parte dell’inciso di sopra. Se alla concessione di credito si sommano gli enormi flussi di risparmio, aziende e cittadini vogliono investire i propri soldi all’estero.

“Supponiamo che le autorità cinesi adottino, invece, la politica alternativa di una rapida liberalizzazione sia degli afflussi che dei deflussi di capitali, affidando all'espansione del credito il compito di sostenere la domanda interna. È possibile, ma improbabile, che il flusso di denaro che entra in Cina dall'estero compensi il flusso verso fuori, perché sia gli stranieri che i cinesi diversificano i loro portafogli di investimenti. Anche questo provocherebbe tre grattacapi: il primo è che gli squilibri macroeconomici interni persisterebbero; il secondo è che il settore finanziario diventerebbe ancora più fragile; il terzo è che questo sistema finanziario enorme, complesso e fragile diventerebbe pienamente integrato con quello del resto del mondo, a sua volta ben lontano da una piena stabilità. Invece della crisi finanziaria cinese che molti ormai ritengono imminente, crescerebbero enormemente le possibilità di un'altra crisi mondiale, stavolta con al centro la Cina invece degli Stati Uniti. Sono problemi di enorme portata, che dovrebbero essere discussi in modo approfondito fra Stati Uniti e Cina (e altri). Hanno implicazioni serie per quanto riguarda gli scambi commerciali, ma non hanno nulla a che fare con la politica commerciale. Richiedono una valutazione congiunta della politica macroeconomica e finanziaria, e anche un'attenzione alla gestione della bilancia dei pagamenti cinese: soprattutto i controlli valutari, il tasso di cambio e le riserve valutarie. ” 82

thttp://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-04-05/la-finanza-cinese-minaccia-tempesta-economia- 81 mondiale-114854.shtml?uuid=AEbiasz http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/commenti-e-idee/2017-04-05/la-finanza-cinese-minaccia- 82 tempesta-economia-mondiale-114854.shtml?uuid=AEbiasz

La risposta di Pechino è stata quindi quella di cercare di bloccare le fuoriuscite, impedendo investimenti verso l’estero superiori ai 5 milioni di dollari. Ciò ha rotto molti degli accordi commerciali con l’estero ed ha reso difficile la vita alle compagnie straniere in Cina.

Per mitigare tali effetti ha agito sui mercati monetari alzando i tassi di interesse, allettando gli