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Il turnaround in pratica: il Piano di ristrutturazione per conciliare le dimensioni di impresa

5. CRISI D’IMPRESA E TURNAROUND

5.2 La strategia di turnaround: il ripensamento del business e la formula strategica del domani

5.2.2 Il turnaround in pratica: il Piano di ristrutturazione per conciliare le dimensioni di impresa

Il modo per conciliare le varie dimensioni di impresa, diverse ma interconnesse, le varie dimensioni della formula competitiva, è la stesura del Piano di Ristrutturazione.

Esso si compone essenzialmente di:

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un Piano Industriale

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un Piano Finanziario

Il primo è di norma redatto dal management dell’impresa, con l’aiuto talvolta di consulenti esterni. e riguarda la predisposizione della nuova strategia.

Quello finanziario invece è predisposto da esterni con l’obiettivo di identificare le possibilità future dell’azienda in termini di performance, le rinegoziazioni dei debiti e i fabbisogni di risorse.

Il fine di entrambi è il raggiungimento dell’equilibrio economico-finanziario nel breve periodo e di quello patrimoniale nel lungo periodo.

Il Piano industriale per la previsione dei flussi prospettici.

Il piano industriale, o business plan, si compone si compone di una parte qualitativo- descrittiva e di una analitica.

Quella qualitativa fornisce prima di tutto una spiegazione dell’azienda circa la sua struttura ed i business presidiati, che funge da introduzione.

Il piano continua con la definizione delle fonti di unicità e di criticità dell’azienda, il più delle volte con il ricorso ad un’analisi swot. Si passa poi ad un’analisi di mercato, ovvero del contesto competitivo in cui l’azienda si trova immersa.

Da qui si passa alla parte analitica. Una parte rilevante di esse è dedicata alle attese circa le dinamiche future dei principale driver di valore del mercato: di norma l’attenzione è posta sull’evoluzione dei prezzi.

Il business plan si chiude con un’altra analisi, quella dei ricavi e dei costi - operativi e di struttura - storici, per poi ipotizzare scenari futuri.

La previsione dei costi e dei ricavi è funzionale alla determinazione dei valori futuri di:

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EBITDA

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EBIT

Per quanto riguarda la parte patrimoniale, ci si limita a calcolare il Capitale investito netto futuro atteso.

Il motivo per cui l’analisi si circoscrive al calcolo di questi tre driver è quello di arrivare a formulare assunzioni riguardanti esclusivamente il business, e di escludere la parte finanziaria, che dovrà essere trattata a parte.

Il fine ultimo del business plan è quello di determinare i flussi operativi netti che saranno disponibili per tutti gli investitori, sia in equity che in capitale di debito.

Nel caso del risanamento, la rimunerazione spettante ai soci assume naturalmente un valore pari a zero: tutta l’attenzione sarà incentrata sui creditori, in particolare quelli finanziari. Si dice che di norma i flussi attesi futuri coprono un arco temporale di 3-5 anni, ma in realtà la previsione si protrae anche oltre, al fine di determinare la quantità di denaro che l’azienda sarà in grado di produrre per rimunerare gli istituti finanziari.

Il piano finanziario come strumento per la ristrutturazione dell’esposizione finanziaria.

Sulla base del Piano industriale si va a “montare” il piano finanziario, ovvero la proposta di risanamento finanziario, che ha come obiettivo principale la ristrutturazione del debito.

Ovvero, sulla base dei flussi che il piano industriale ha ipotizzato l’azienda potrà produrre, sarà anche ipotizzato come l’azienda potrà rientrare dalla propria posizione debitoria.

La proposta sarà tarata sulla gravità della situazione che la società vive. Si troveranno situazioni facilmente risolvibili con un rischeduling del debito, con qualche anno di moratoria. In altri casi meno fortunati e semplici, il debito potrà essere convertito in strumenti

partecipativi. Nella maggior parte dei casi comunque lo strumento di base è il consolidamento. Esso consiste in una ri-contrattazione dei termini del del debito esistente, pervenendo ad uno slittamento nel tempo dei pagamenti delle quote di capitale e/o degli interessi. In pratica i debiti di breve periodo vengono trasformati in debiti di lungo periodo, agendo sul lato delle fonti. I debiti di breve periodo sono posizioni passive che l’azienda ha nei confronti di dipendenti, fornitori, banche e Stato. Le trattative cambiano a seconda che si tratti di un soggetto rispetto ad un altro.

Il credito vantato dai dipendenti è molto difficile da gestire per l’azienda, dato che esso si ricrea costantemente; inoltre, va trattato con una certa attenzione, dato che disincentivate, le risorse migliori potrebbero lasciare il posto.

I fornitori invece potrebbero accettare un consolidamento, ma ciò dipende in gran parte dal proprio potere contrattuale e dal proprio coinvolgimento. Non di rado capita che essi richiedano anche una partecipazione al capitale.

La situazione più delicata è quella dei debiti bancari, complicatasi anche a seguito dell’introduzione dei Basilea. I debiti in questo caso vengono classificati su dei livelli attraverso un rating. Il rating si calcola sulla capacità reddituale, il valore delle attività patrimoniali, le attività comportamentali, finendo per influire sulle modalità e le possibilità di ricevere un finanziamento.

È chiaro che un’impresa in crisi non possa vantare un alto rating, di conseguenza dovrà dimostrare ulteriori garanzie per avere accesso al credito: fideiussioni, ipoteche su beni… Se la banca accetta il consolidamento, a quel punto esso può avvenire tramite una trasformazione od una erogazione: entrambe portano allo stesso risultato, ovvero un debito a lungo termine, ma nascono in modi diversi.

Con l’erogazione, di fatto un istituto eroga un finanziamento che copre delle passività nei confronti di altri istituti di credito, ma ciò viene mascherato attraverso un’operazione di investimento o attraverso la concessione di garanzie che siano spesso sovrabbondanti rispetto alle somme che si ottengono.

La trasformazione, “con rientro nel tempo”, viene richiesta quando un soggetto non è in grado di coprire immediatamente un debito a breve termine e viene accettata dalla banca quando pur di non perdere il proprio credito decide di rinegoziarne i termini.

Il soggetto che viene pagato più lentamente è lo Stato, perché ha dei tempi di reazione molto più lunghi. La segnalazione da parte sua arriva soltanto tre anni dopo la dichiarazione di insolvenza dell’impresa, che ha guadagnato anni di dilazione. A quel punto però, il costo del

debito diventa molto più elevato, con maggiorazioni che arrivano fino al 40% dell’importo originario.

Sin ora si è parlato di agire su fonti esterne, dipendenti, fornitori, banche. Una fonte diversa è quella del socio, intesa in senso ampio, sia come il soggetto che fino a quel momento ha tenuto le redini dell’impresa, sia un terzo soggetto entrante.

Entrambi possono apportare risorse finanziarie e ribilanciare patrimonialmente l’impresa; un terzo può anche intervenire trasformando una posizione debitoria in una partecipazione al capitale, diventando di fatto socio: nessun apporto di risorse viene a crearsi in questo caso, ma si alleggerisce la posizione debitoria dell’impresa.

L’entrata di soggetto terzo nelle dinamiche dell’impresa, come gran parte delle altre situazioni sopracitate, comportano cambiamenti giuridici e di governance, ma richiederanno anche la relazione di un business plan che sia allettante, che dimostri capacità reddituali per il futuro e prospettive di guadagno.

Un soggetto esterno, sarà interessato a conoscere tutto il processo di turnaround, le risorse distintive dell’azienda, le sinergie che si potrebbero creare dalla nuova strategia.

Ritorna ancora un ennesimo collegamento tra strumenti diversi, tra dimensioni diverse della stessa azienda, in virtù che questa sia un sistema organico e senza soluzione di continuità. Alla fine del processo si può prevedere un rifinanziamento, come strumento per uscire dalla ristrutturazione, nel caso in cui ovviamente il piano è stato rispettato.

Qualsiasi sia la soluzione trovata, non si può prescindere dall’accettazione della proposta da parte di tutti, o di una parte qualificata, dei creditori finanziari: essi devono essere convinti che il piano di ristrutturazione sia più conveniente per loro della liquidazione.

Nel mondo dello shipping, le circostanze che possono spingere i creditori verso la direzione della continuità aziendale potrebbero essere:

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il fatto che la vendita sia il più delle volte una vendita distressed, forzata, rende agli occhi di un terzo la relativa proposta poco preferibile;

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il mercato sia prossimo al recupero o che l’azienda abbia stipulato dei validi e remunerativi contratti time-charter, motivi per cui sia preferibile tenerla in vita;

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l’azienda operi in segmenti specialistici, non tanto in riferimento agli asset quanto al know-how necessario per operarvi, e che quindi si abbia un occhio di riguardo prima di procedere alla liquidazione;

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l’azienda dimostri di aver elaborato piani validi sul lato dell’efficienza e che sia quindi in grado di recuperare.

Gli istituti bancari italiani, nella maggioranza dei casi, è difficile che spingano verso una soluzione fallimentare o liquidatoria; è più frequente che decidano di vedere il proprio credito, ma molto di rado ostacolano la continuità.

Entrando più nei meriti della questione, i ‘piani in continuità’ che una società può proporre, possono essere divisi in due macro-gruppi:

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i piani sottostanti a nessun articolo

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i piani sottostanti ad un articolo della legge fallimentare

Il primo caso è quello in cui basti discutere con i propri principali creditori per giungere ad un accordo, un semplice contratto di modifica della propria posizione debitoria.

Moby ha nel recente passato stipulato un accordo di questo genere.

Al contrario, se si ricorre alla legge fallimentare, la società ha la possibilità di aderire ad uno dei seguenti articoli:

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art. 67

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art. 182 bis.

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art. 160

Nel prossimo paragrafo vedremo meglio di cosa si tratti.