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TERRA TRA MITO, ASTROLOGIA E LETTERATURA DEL ’900

Nel documento LINGUAGGIO ASTRALE (pagine 103-114)

le sue sorelle, bloccata drammaticamente (in La casa di Bernarda Alba) prima di un incontro amoroso agognato, affronta la madre così: “Basta ormai con le grida da

carcerieri!” – Adele strappa un bastone a sua madre e lo spezza in due - “Ecco che cosa ne faccio io al bastone del comando. Non faccia un passo di più. Su di me co-manda solo Pepe e nessun altro”. Sono sempre le donne a sentire con la forza dei

leoni la voce dominante della natura e dell’istinto (amore per il maschio, desiderio di maternità) e si ribellano alla costrizione di un mondo chiuso, repressivo, che non tiene conto della sete individuale di vita e amore.

Il mondo di Garcia Lorca, popolato di boscaioli, contadini, possidenti terrieri,

brac-cianti...disegna l’ambiente del mondo mediterraneo andaluso, così vicino nel profondo al mondo meridionale del nostro Giovanni Verga:26simile il bruciante senso della fatalità, simile il contorno dei paesaggi e dei gesti, con il riferimento co-stante alla terra dei padri.

Ma l’intera corrente letteraria italiana del verismo proietta nei romanzi l’analisi del-le profonde cause deldel-le questioni sociali e dell’incalzare deldel-le lotte politiche e socia-li, legate, sempre, sebbene in modo più esplicito o implicitamente consequenziale, a problematiche “di terra”: con Verga il siciliano Capuana, la sarda Deledda, i napole-tani Di Giacomo e Serao, il romano Pascarella, i toscani Fucini e Pratesi..

E nella memoria incalza il senso del destino che incombe nei personaggi di Verga, sulla pesantezza delle loro esistenze, sull’austera fatica della quotidianità. Nei ro-manzi verghiani le forze dell’uomo lottano giorno per giorno contro l’ostilità della sorte, ma non c’è scampo alla necessità di campare lavorando senza riposo. Non a caso si parla per i suoi personaggi di “psicologia del vinto”: non tanto perché la sconfitta sia inevitabile, quanto perché ogni suo personaggio si piega alla forza – negativa - della natura e a quel senso di fatalismo che rende impossibile sottrarsi agli eventi. Tutti i sentimenti, tutte le pene degli uomini e delle donne di Verga

sono riportati ad un unico grande motivo: quello in assoluto più taurino, quello economico. Il sentimento ultimo è il dolore: causato dalla perdita, di beni e

cose, oppure causato dalla paura di perdere. E’ il possesso il nodo centrale delle sue opere, inteso nella sua materialità di terra, prodotti della terra e cose. Sensualità e

desiderio non si animano che per “la roba”, per la terra, per il denaro, segni tangibili di quanto costruito.

Terra e reminiscenze pagane nelle Langhe come in Lucania

La luna e i falò,27 ultimo romanzo di Cesare Pavese, l’opera più matura scritta ap-pena prima della morte, in cui realismo e lirismo trovano il punto più alto di equili-brio, svolge il tema del ritorno: ritorno al paese, alle radici della terra. Le origini non sono solo da ricercarsi nell’infanzia, nel passato, nella memoria. Sono simboli-camente da ricercarsi anche nel substrato dei miti e dei riti collegati alla terra. Sono gli antichi riti della cultura contadina, di cui parla il titolo stesso del roman-zo, annodati e segnati da antiche credenze – i falò – ma anche dell’immanente

incidenza degli eventi naturali e ciclici – le stagioni, le lune – che fissano e

im-mobilizzano il mondo arcaico della campagna. La luna e i falò – ripetersi di vita e morte. “La luna...bisognava crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un

pi-no, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfi-no gli innesti, se Perfi-non si fanPerfi-no ai primi giorni della luna, Perfi-non attaccaPerfi-no”.28 Il fuoco brucia, uccide, ma ha capacità fecondatrici, di rinnovamento, e la cenere ridiventa terra: “Si vede che fa bene alle campagne… le ingrassa”.29I riti collegati alla sacra-lità della terra non possono che evidenziare la profonda immutabisacra-lità della terra, come della vita dei contadini, nelle pagine di Pavese prive di umanità e di pietà. E le vite dei singoli individui sfociano tutte in tragedia: la follia di Valino che incendia tutto e si uccide, il dramma di Silvia e Irene, e per ultimo di Santa, che conclude il romanzo con un ulteriore falò, quello del suo corpo, perché fucilata e bruciata co-me spia. Si direbbe che tutte le morti non siano che morti rituali: alla terra si è ne-cessariamente legati da una condizione di cupo fatalismo. Brucia il corpo di Santa, e l’ultimo bagliore di un rito sacro consente di restituire alla terra, purificate, le for-ze paniche delle passioni umane.

Il cuore vero di La luna e i falò è il senso di immutabilità della terra, che consen-te il realizzarsi del ritorno alle origini. Il protagonista, Anguilla, torna dall’America alla terra d’origine, il paese dove è stato bambino. Qui la terra è le Langhe, l’acre mondo rurale dove le storie delle generazioni si depositano e si sedimentano, conci-mando l’humus con la loro energia, di fatica e di dolore. La terra non è mai dolce; non è la madre buona cui si desidera tornare (del resto il protagonista neanche co-nosce la propria madre naturale, essendo stato abbandonato). Non rappresenta un mondo consolante e accogliente. E’, al contrario, un mondo chiuso e opprimente (“Che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia

nien-te della luna e dei falò?”).30 E’ una terra crudele, ferina, che pretende sangue, morte, crudeltà rituale. Eppure i figli di questa terra, come Anguilla, come Pavese stesso, non possono fare a meno di riannodare i fili del passato.

Il ritorno è una sorta di discesa nelle profondità della terra, là dove forse risie-dono tutti i mostri, anche quelli dell’uomo Pavese, che non riuscì mai a risolvere se stesso nel suo rapporto con le donne, con le “madri”. Si rende necessario affrontare

l’inconscio: tornare al paese, alla terra d’origine, ai falò, ai fuochi fatui dei fantasmi

interiori, inguaribilmente segnati dalle ossessioni.

Terra significa soprattutto immutabilità, fissità, forza di inerzia. Tutto sembra ri-manere uguale: “Stessi rumori, stesso vino, stesse facce di una volta. I ragazzotti

che correvano in mezzo alle gambe alla gente erano quelli; i fazzolettoni, le coppie di buoi, il profumo, il sudore, le calze delle donne sulle gambe scure, erano quelli. E le allegrie, le tragedie, le promesse in riva a Belbo”.31E ancora, fino nei particolari:

“Arrivai sotto il fico, davanti all’aia, e rividi il sentiero tra i due rialti erbosi. … il sal-to dal prasal-to alla strada era come una volta – erba morta sotsal-to il mucchio delle fa-scine, un cesto rotto, delle mele marce e schiacciate”. ”Seguitai a salire, e vidi il por-tico, il tronco del fico, un rastrello appoggiato all’uscio – la stessa corda col nodo

pendeva dal foro dell’uscio. La stessa macchia di verderame intorno alla spalliera sul muro. La stessa pianta di rosmarino sull’angolo della casa. E l’odore, l’odore della casa della riva, di mele marce, d’erba secca e di rosmarino”.32“Entrai nell’aia ... dissi ch’io su quell’aia c’ero stato bambino. Chiesi se il pozzo era sempre là dietro.33

“Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale...la gente era passata, cre-sciuta, morta; ...eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stra-dette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sem-pre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora”.34

Fortissimo è il legame pagano con la terra, sebbene sentito solamente (ahinoi) con sentimento negativo anche in Carlo Levi, che scriveva in Cristo si è fermato

a Eboli:35“Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, so-lidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale… l’uomo non sa distinguere dal suo sole, dalla sua be-stia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità … né la speranza… ma la cupa passività di una natura dolorosa”. E ancora, sul senso della natura in

quanto espressione divina: “Tutto, per i contadini, ha doppio senso. La

donna-vacca, l’uomo-lupo, il Barone-leone, la capra-diavolo… tutto partecipa alla divi-nità, perché tutto è realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli ani-mali, Cristo come la capra”.

Terra e cibo in letteratura

E che dire del valore del cibo, che esprime in letteratura via via significati ideologici, valori sociali, idee morali, e così via?

La concretezza e la materialità della cultura contadina si esprimono nei gesti quotidiani legati al cibo. Non dimentichiamo che è il cibo a consentire

tangibil-mente di prosperare, è il cibo a dare misura della capacità del contadino di produrre e dunque della sua ricchezza. Cibo è metafora di un potere non soltanto orale. E’

metafora di sicurezza sociale e di stabilità dell’esistenza stessa. E in

letteratu-ra il cibo è spesso l’elemento fondamentale di molti momenti, sociali: si adopeletteratu-ra per suggellare concretamente patti, accordi, alleanze, il cibo anzi può dare il colore e l’intonazione di un’intera scena o di un episodio. L’odore, il sapore e il tessuto del cibo stesso sono metafore per esprimere la natura di un rapporto o di un avveni-mento. Per non parlare del modo con il quale il cibo viene assunto. La stessa attività del nutrirsi e del nutrire, offrendo o rifiutando cibo, può spiegare per analogia il ca-rattere di un personaggio, può funzionare persino da foreshadowing, da ombra fu-gace che lasci presentire lo svolgimento di un avvenimento, può spiegare situazioni di rapporti sociali, posizioni vicendevoli dei personaggi, impostazioni psicologiche. Persino la collocazione dei personaggi nello spazio rispetto al cibo (senza affrontare l’interpretazione in chiave sociale del sistema schematico d’assegnazione dei posti a tavola), disegna una situazione. Se, per esempio, un personaggio volta le spalle mentre mangia, o a chi mangia, o viene allontanato da un luogo in cui altri man-giano, allora è probabile che si voglia evidenziare l’esclusione da un gruppo o da

una comunità, o si voglia rilevare la negazione di un rito d’ospitalità. L’assunzione di cibo insieme con altri o l’esclusione dalla mensa suggeriscono interpretazioni d’ag-gregazione e disd’ag-gregazione. Quando prevale l’elemento terra in un pezzo di lettera-tura è molto probabile che il cibo si accoppi ai passaggi fondamentali della storia e sottolinei un fulcro della vicenda. Cibi belli grassi e abbondanti accompagnano i tempi felici, cibi poveri sottolineano il freddo della povertà e del dolore.

Cibo e società

Il cibo e il suo uso sono potenti indicatori delle differenze sociali: ad esempio

evidenziano lo stato di subordinazione dei giovani agli anziani e delle donne agli uomini. Se osserviamo la cosa dal punto di vista sociologico la stessa socializzazio-ne dei pasti imposocializzazio-ne l’accettaziosocializzazio-ne di norme regolative dell’istintività: i popoli primi-tivi mangiavano quando sentivano fame, in maniera anarchica, non si ponevano un problema di regolarità. Al contrario, la riunione attorno ad una tavola secondo orari stabiliti fa perdere naturalezza all’assunzione del cibo.

Lo strutturalismo ha volto lo sguardo alle regole, spesso implicite, che direzionano le regole sociali relative al cibo. Così considerano fondamentale l’opposizione fra il crudo e il cotto, perché cuocere il cibo significa trasformare la natura in cultura. Se-condo Claude Levi-Strauss36 la trasformazione del cibo è un vero e proprio lin-guaggio, un sistema di comunicazione (come il linguaggio verbale o il sistema di parentela). “Leggere” le pratiche alimentari dunque consente di interpretare cultura e società, penetrandone la struttura, e permette di giungere a scoprire forme uni-versali costanti nelle diverse società.

Anche il gusto è legato alla differenziazione sociale: dipende da educazione, abiti culturali, conoscenze, disponibilità di denaro e di beni. Analizzare i gusti lascia individuare posizioni sociali, pensieri, credenze dei soggetti.

Nel passato, e fino al Medioevo, l’assunzione di cibo secondo quantità pantagrueli-che era considerata un obiettivo del tutto positivo. Grasso era bello, si potrebbe dire parafrarasando uno slogan nostro contemporaneo. Oggi invece l’abbondanza di cic-cia è considerata negativamente: si preferiscono i magri che sanno autocontrollarsi, comprimere i propri bisogni di istintualità – chi sa controllarsi in campo alimentare si suppone per somiglianza che sappia in generale razionalizzare qualunque impul-so o appetito. Se l’uomo medievale era apprezzabile per la sua capacità di affronta-re la vita con la forza degli istinti naturali (l’appetito, la forza fisica, il poteaffronta-re per mezzo del corpo), oggi è giudicato bene ed è considerato superiore l’uomo che ne-ga la propria fisicità (pochi bisogni corporei, forza d’astensione dagli impulsi natu-rali). L’obeso non è solo considerato brutto, ma sotto sotto anche “cattivo”.

Qualcuno certamente ricorderà uno splendido film di Buñuel, Il fascino discreto

della borghesia, in cui i protagonisti vivevano in una società dominata da regole

che controllavano l’assunzione di cibo: lì era considerata un’operazione sconvenien-te, sordida e piuttosto sporca, di cui vergognarsi. E infatti, non potendola eliminare, i protagonisti la compivano di nascosto in luoghi appositi, segreti e asettici, tanto

simili alle nostre toilettes. Nello stesso film, per contro, assolvere alle proprie fun-zioni escretorie era tutt’altro che disdicevole, anzi, un’azione socializzante, da com-piersi insieme con gli altri, tutti seduti insieme con politeness sui propri cessi, im-mersi in amabile conversazione. Il film induceva un’interessante riflessione anche sul senso che attribuiamo alle pratiche alimentari e sull’azione di mangiare come azione comunicativa.

Mansfield: la critica sociale attraverso il cibo

Vi è un’autrice (molto in alto sulla vetta delle mie personali preferenze fra gli scrit-tori del ‘900), Katherine Mansfield,37che ha saputo ironizzare e giocare con l’im-magine del cibo, centrando sul rapporto fra cibo e personaggi la propria dissa-cratrice attenzione. L’autrice ha veicolato nei suoi racconti attraverso il cibo, fer-mando in modo indelebile e tagliente i suoi giudizi, la sua personale antipatia per quelle persone e quei gruppi umani che considerava rozzi. In un racconto, intitolato

In una pensione tedesca, In a german pension del 1911, come ogni altro suo

rac-conto completamente privo di intreccio, rivolge al cibo quotidiano il suo attentissi-mo occhio satirico. Il racconto è narrato in prima persona e l’Io narrante, perso-naggio di giovane signora inglese, in cui è trasparente vedere la stessa autrice, si trova a tavola con un gruppo di tedeschi. A tavola i tedeschi parlano di cibo, di montagne di cibo già ingurgitate in precedenza, e intanto mangiano a quattro pal-menti, senza risparmio di macchie di zuppa e di parole di critica verso gli inglesi, a loro parere esagerati consumatori di ogni sorta di alimenti. Criticano: “Zuppa, pane

fresco, carne di maiale, tè, caffè, frutta al forno, miele, uova, pesce freddo, rogno-ne, pesce bollito e fegato...”La narratrice inappetente intanto fa piccoli assaggi.

Vor-rebbe dire che non è vero che gli inglesi mangiano tanto, ma arriva il vitello con crauti e patate. E sono rutti. E intanto parlano di toeletta. E giù crauti. E mentre mangiano le signore si puliscono i denti con le forcine dei capelli. La narratrice ri-fiuta il piatto. Arriva la sferzata: “…lei è vegetariana?”. “Ma certo. Ormai non

man-gio carne da tre anni”. “Im-pos-si-bi-le! Ha figli?”. “No”. “Ecco cosa succede a com-portarsi così”. …La cena continua con bollito e salsa di ribes. Intanto herr Hoffmann

si asciuga il sudore con il tovagliolo e già che c’è dà anche una nettatina alle orec-chie. Arrivano le albicocche al forno. Abbuffandosi chiedono all’inglese qual è la pietanza preferita di suo marito ma lei non lo sa. Stupore e orrore generale, espres-so con bocche assatanate piene di ciliegie. Sentenziano: una donna non può aspet-tarsi la fedeltà del marito se non sa una cosa così. E la cena finalmente termina: “Mi

chiusi la porta alla spalle”. E via, i tedeschi liquidati per sempre. Dopo aver letto il

racconto diventa impossibile stare ancora a tavola con un tedesco con naturalezza senza temere che si metta le dita nel naso.

Nel bellissimo racconto Garden Party38 veniamo introdotti nel mondo ideale di Laura e di Laurie, sorella e fratello. Tutto è perfetto: il tempo, tiepido e senza nuvo-le, le rose sbocciate a centinaia. Anche il montaggio della pagoda per il party all’a-perto ha note ideali, con quel bel toc-toc che fanno gli operai con i loro martelli di

legno. E le bandierine per i sandwich. E le sfogliatelle alla panna. Solo un piccolo neo: è morto un giovane uomo nella povera casa appena sotto la loro proprietà. Ri-nunciare alla festa? O almeno alla banda musicale? Ma non esageriamo! Il party si fa, così ben riuscito. E in un moto di grandiosa generosità si decide che i residui del party saranno portati alla vedova, con un cestino. E in quel paniere con le tartine avanzate la Mansfield ripone tutta la stupidità e l’insensibilità dei ricchi, affinché ci rimanga impressa per sempre. Il suo tagliente e indelebile giudizio, ancora una vol-ta, passa attraverso il cibo e l’uso che se ne fa.

Andrea Camilleri e gli archetipi della sicilianità

Il milione e mezzo di appassionati lettori di Andrea Camilleri39gustano senza par-simonia i sapori espressivi che dalle sue storie sembrano avvertire del non lontano legame con una civiltà più arcaica, o meglio ancora avvisano di un persistente

le-game fra luoghi e personaggi e valori di terra. Certo l’autore non ha staccato

dalla propria memoria né dal cuore (e tantomeno dallo stomaco) il cordone che lo lega alla sua gente. Che dire di Montalbano che non riesce neppure a pensare, né a tranquillizzarsi, né a lavorare, e che persino antepone a una bella donna un piatto di “purpeddi” o una ricetta qualunque, per carità, di quelle di cui dispone la cucina si-ciliana, purché sia un’opera d’arte. Da “camillerista” convinta nata in Piemonte ho come gli altri suoi appassionati lettori la pretesa di capire “tutto”, quando leggo la lingua siculo-fantasiosa dei suoi romanzi. Me li pappo in un sol boccone. Camilleri mi tiene legata attraverso i suoi libri ad una Sicilia che mi sarebbe quasi estranea, se l’universale oralità di Montalbano non mi rendesse digeribilissimi i modi di ragiona-re e viveragiona-re dei conterranei dell’autoragiona-re. Cragiona-redo davvero che i suoi libri si lasciano in-corporare con tanta facilità – e tanto piacere - grazie agli archetipi universali legati alla terra che ci affidano la chiave della narrazione di questo cantastorie.

Isabel Allende: eros e cibo

Chissà se la garbata scrittrice cilena Isabel Allende era cosciente di riunire, nel suo libro Afrodita,40 almeno quattro elementi considerati dall’astrologia squisitamente taurini: cibo, eros, vista e parola (anche Tolemeo definiva il segno del Toro come un segno ricco di vocalità). Nel libro di Allende si trovano esplicite associazioni: “Il cibo,

come l’erotismo, entra dagli occhi”. “I grandi amatori sanno che per una donna il migliore afrodisiaco sono le parole”. E ancora “Gli afrodisiaci sono un ponte gettato tra gola e lussuria”. “…Sesso e cibo sono fra le poche cose che uomini e donne con-dividono”.

Nel suo libro ci ha proposto, con la naturalezza dello stesso vivere, il connubio eter-no e intramontabile fra amore e cibo, fra piacere della gola e piacere erotico, fra ap-petito sessuale e apap-petito alimentare. Stuzzicando la nostra curiosità abbina arte sensuale del cibo e virtù amatorie: abbinamento vecchio come il mondo? Sì, ma non è che se ne parli poi tanto. Forse perché non piace alle religioni dedite, anziché al piacere del corpo e dei sensi, alla filosofia della sofferenza e del sacrificio (la

reli-gione cattolica, quella puritana, quella calvinista...). Che però non si vergognano poi di indulgere in modo segreto, con scarsa parsimonia e abbondante ipocrisia, verso la debolezza della carne. Anche per questo in Occidente si è sempre finto di ignorare

Nel documento LINGUAGGIO ASTRALE (pagine 103-114)