È oggi ben noto lo slittamento semantico riguardante il titolo con cui la Trinità viene riconosciuta nelle fonti coeve e di poco successive.
163 DOLCE (Barocchi), 1557, p. 204.
164 Ibidem.
Anche se l’opera continua ad essere riconosciuta in Europa, soprattutto, come Gloria, resta aperto il problema di quale sia il titolo più appropriato per il dipinto. Come si accennava, il titolo più ricorrente nei documenti coevi è infatti, senza dubbio, quello con cui è maggiormente conosciuta nel mondo anglosassone, Trinità (o
Adorazione della Trinità) che ho scelto di utilizzare come principale
anche in questo lavoro, per certi versi compiendo una virata lessicale rispetto ai principali studi recenti d’ambito europeo. Si tratta di una scelta di tipo filologico, che pare tanto più necessaria quanto è certo che quest’opera fu concepita, prodotta, consegnata e inventariata come
Trinità e che, nonostante la sovrapposizione di altri titoli, è questo
quello che viene usato per primo, con maggiore frequenza e da tutti i protagonisti direttamente implicati nell’opera. Oltre che nella fase di esecuzione a Venezia, usato da Tiziano e Vargas nelle comunicazioni all’imperatore riguardanti l’invio, nei riferimenti successivi dell’Aretino, del Dolce e del Vasari, nella lettera di tredici anni successiva di Tiziano al cardinale Alessandro Farnese, solo per citare le fonti principali, appare con questo titolo anche negli inventari di Carlo V. Le ragioni dello slittamento semantico furono ipotizzate (e ridimensionate) da Wethey:
Likewise the late inventory of pictures which Philip II sent to the Escorial in 1574 specifically describes it as the “Judgment with portraits of the Emperor Charles V who is in glory” (heaven) (“el Juycio con los retratos del Emperador Carlos quinto que está en gloria”). To speak of a deceased person as “está en gloria” is common Spanish usage and therefore does not imply any esoteric iconographical significance166.
Nessun «significato iconologico esoterico», scrive Wethey, ma neanche non esoterico, aggiungiamo, è implicito al titolo Gloria, la cui origine dovrebbe quindi risalire all’uso del termine “estar en gloria” come sinonimo di paradiso o aldilà, usato nell’inventario di Filippo II del
1574 per indicare che il padre, ritratto nel dipinto, era morto sedici anni prima. Da qui, secondo Wethey, ebbe origine la deduzione di Padre Sigüenza167, confessore di Filippo II, che fu il primo a riconoscere l’opera come “la gloria del Ticiano”168 nel 1605, descrivendola poi, in ogni caso, come una Trinità con la famiglia reale169.
Non mi è dato sapere se quando Wethey si riferisce ad un «significato iconologico esoterico» collegato al titolo Gloria sottenda una critica latente all’interpretazione panofskiana (che tuttavia non cita nella sua bibliografia di riferimento). Il catalogo dei Religious Paintings tizianeschi dello storico dell’arte statunitense e lo studio sui Problems
in Titian dell’iconologo tedesco vengono pubblicati entrambi nel 1969170, entro il contesto accademico nordamericano. Il dubbio parrebbe legittimato dal fatto che proprio Panofsky è colui che più a fondo s’interroga sulla convergenza lessicale tra i titoli per indagare il significato iconologico dell’opera171, a cui, oltre a quelli citati, va aggiunto anche un altro, ennesimo titolo, Paradiso, che Tiziano usa in una lettera al doge Girolamo Priuli del 1566 (doc. 30)172. In questo
167 José Martínez de Espinoza (1544-1606), maggiormente noto come José de Sigüenza, fu priore, bibliotecario e storico dell’Ordine di San Girolamo. Vedasi: DBE, 2009-2013, XXXIII, pp. 299-302. È l’autore della Vida de San Jerónimo e della
Historia de la orden de San Jerónimo (SIGÜENZA, 1595; SIGÜENZA, 1600;
SIGÜENZA, 1605). Ne useremo qui l’edizione critica SIGÜENZA (Weruaga Prieto), 2000.
168 SIGÜENZA (Weruaga Prieto), 2000, II, p. 671.
169 Ibidem.
170 Tra gli studi panofskiani del 1969 ve ne sono alcuni scritti precedentemente.
171 Vedasi PANOFSKY, 1969, p. 63-71.
172 Lettera di Tiziano al doge Girolamo Priuli e alla Signoria di Venezia, Venezia, fine 1566: ASV, Senato terra, filza 48; in PUPPI, 2012, p. 284 (doc. 232); qui doc. 30. Scrive: «[...]humilmente son comparso a supplicarla, che havendo alli giorni passati novamente fatto metter a stampa di rame a comune comodo de’ studiosi della pittura un disegno del Paradiso et diversi altri pezzi di diverse altre inventioni con mia gran fatica et spesa, neuno altro, se non che avrà cagione da me, possa intagliare di detti disegni nelle città di questo Illustrissimo Dominio, né altrove intagliati vendere sotto qualsivoglia forma et modo per XV anni continui.» Secondo BIERWIRTH, 2002, p. 96,
scritto egli chiede il privilegio esclusivo delle stampe tratte da un disegno dell’opera, corrispondenti a quelle che aveva fatto eseguire lo stesso anno a Cornelis Cort (fig. 12). È grazie anche all’uso di questa ulteriore denominazione, ci indica Wethey, che il titolo Gloria, nel senso del termine come paradiso nell’uso spagnolo, si è cristallizzato e legittimato come denominazione principale del dipinto.
Analizzando quanto scrive Panofsky su questo dipinto, egli tenta soprattutto un recupero dell’«interpretazione imperiale» dell’opera tizianesca come Juycio Final173, cercando di dedurre anche gli altri titoli (Trinità, Gloria e Paradiso) s’intersechino e confluiscano in una lettura iconologica coerente:
L’interpretazione imperiale tende ad essere trascurata dagli studiosi moderni. Effettivamente, essa diverge sotto vari aspetti dal quadro, in particolare perché in un vero Giudizio Universale Cristo dovrebbe apparire, secondo le parole di Sant’Agostino, «non nella forma in cui Egli è uguale al Padre, ma nella forma in cui Egli è Figlio dell’Uomo». Tuttavia Carlo V non impiegò il termine «Giudizio Finale» senza buone ragioni; e alcuni dei caratteri che distinguono La Gloria da tutte le analoghe composizioni si possono spiegare con il desiderio dell'imperatore di possedere un quadro che combinasse in un’unica rappresentazione i due ultimi capitoli del De Civitate Dei di Sant’Agostino: un’opera che suggerisse l’«Eterna beatitudine della Città di Dio» (da cui il «Paradiso» di Tiziano), dove il tempo non esiste più, e contemporaneamente alludesse al Giudizio Universale, che segna il momento in cui il tempo sta per finire ma non è ancora stato eliminato a favore dell’eternità.174
Il padre dell’iconologia sembra muovere anzitutto le sue valutazioni da una domanda: in che senso l’opera rappresenta un Giudizio? Questo titolo è stato riconosciuto come quello più intimo e personale, più affine al significato che Carlo V attribuì al dipinto nei suoi ultimi giorni a Yuste, indissolubilmente legato alla funzione ascetica e al significato escatologico che gli furono attribuiti nel momento della morte dell’imperatore. L’indicazione della Trinità come Giudizio è tuttavia
173 PANOFSKY, 1969, p. 68.
174 Uso in questo caso, per facilitare la lettura, l’edizione italiana: PANOFSKY 2009
eccezionale. Panofsky sembra dedurre che il suo uso straordinario fosse da leggere come un indizio ermeneutico, fino ad allora sottovalutato, interpretato come una sorta di forzatura o errore del committente, dettato dalla vocazione di adattare il significato dell’immagine alla sua personale volontà di contemplare l’opera nei suoi ultimi istanti di vita, immaginandola come la visualizzazione terrena del giudizio che l’avrebbe atteso al trapasso.
A sostegno dell’idea dell’“errore”, ha avuto un certo peso il fatto che l’indicazione imperiale della Trinità come Giudizio è anche quella, in sé e per sé, iconograficamente più improbabile: mancano tutti gli elementi classici dello schema fondamentale dell’opposizione tra i beati e i dannati, generalmente risolto, nelle rappresentazioni tradizionali di
Giudizio Universale, attraverso figure che salgono in paradiso e altre
che cadono negli inferi. Diverge inoltre, come si accennava, dal titolo con cui il dipinto viene indicato negli Inventari dei beni di Carlo V. Tuttavia, come si vedrà, non sbaglia affatto Panofsky a considerarlo come un indizio ermeneutico.
È interessante notare come proprio dalla sovrapposizione dei titoli Panofsky deduca uno gli argomenti della lettura del dipinto, che rimane ad oggi, pur con alcune variazioni e adattamenti, quella maggiormente accreditata. Secondo la lettura del padre dell’Iconologia, proprio nella congiunzione tra i temi di Trinità, Paradiso (o Gloria) e
Giudizio sarebbe riconoscibile una parafrasi visiva del De Civitate Dei
di Sant’Agostino175, chiave di lettura ad oggi accettata per spiegare la singolare iconologia del dipinto e l’ancor più singolare sovrapposizione di tanti e diversi titoli.
175 Sant’Agostino, De Civitate Dei (La città di Dio), scritto tra il 413 e il 426. Ne ho usato per un confronto l’edizione italiana AGOSTINO (Carena), 1992. Per una panoramica sui contenuti dell’opera rimando ad AGOSTINO (Fitzgerald), 1999, pp. 408-418.
1.7 Una Trinità tra Vecchio e Nuovo Testamento: analisi