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A TTIVITÀ D ’ IMPRESA , ETICA E SCOPO DI LUCRO : L ’ IMPRESA SOCIALE NELLA NUOVA DISCIPLINA DETTATA DAL D.L GS

4. M ODELLI ECONOMICI , OBBLIGHI GIURIDICI E PRINCIPI ETICI : VERSO UN NUOVO DIALOGO

4.4 A TTIVITÀ D ’ IMPRESA , ETICA E SCOPO DI LUCRO : L ’ IMPRESA SOCIALE NELLA NUOVA DISCIPLINA DETTATA DAL D.L GS

155/2006

Seppur brevemente, occorre chiarire il rapporto intercorrente fra RSI ed impresa sociale. Non bisogna, difatti, confondere l’impresa che decide di optare per comportamenti socialmente responsabili con la categoria dell’ente non profit.

Se è vero, come abbiamo avuto modo di esaminare, che l’esigenza di farsi carico delle preoccupazioni ecologiche o sociali nasce per entrambe le categorie dal medesimo presupposto della moderna crisi dello Stato sociale - per cui aspetti che prima erano prerogativa propria del settore pubblico sono finiti per gravare sull’iniziativa privata – tali istituti devono comunque essere tenuti distinti87.

Il modo di operare dell’impresa socialmente responsabile e dell’ente non profit non è, difatti, assimilabile. Il macro-elemento che differenzia le due categorie, anche ad uno sguardo poco attento, è costituito dalla mancata distribuzione degli utili (cd. vincolo del non distribution constraint) che caratterizza gli enti non profit88. Tale peculiarità, che costituisce caratteristica necessaria del mondo del non profit italiano ed estero, è infinitamente distante dal mondo della responsabilità sociale. Quest’ultima, invero, non caratterizza

87

Per una analisi storica del processo, e delle strette interconnessioni fra autonomia privata ed interesse statuale, si legga l’art. 1, comma 1, L. n. 266/1991 in tema di disciplina delle organizzazioni di volontariato.

88

Sul vincolo del non distribution constraint si legga il fondamentale contributo di H. B. HAMSMANN, The role of non profit enterprise, in 89 The Yale Law Journal, 1980, pag. 835 ss.

esplicitamente una tipologia di impresa, in quanto è adattabile ad ogni schema, dalla società di capitali a quelle di persone, dall’impresa agricola alla multinazionale89. Inoltre, assumere l’impegno di comportarsi in modo virtuoso nei confronti dei portatori di interessi è una scelta che ha il dichiarato scopo finale di aumentare il business e gli utili dell’imprenditore. La RSI, in realtà, deve correttamente considerarsi quale una modalità di atteggiarsi dell’impresa, un valore giuda per la stessa, e non una sua classificazione.

A fronte di tale fondamentale distinzione, è altrettanto vero come, in alcuni casi, i progetti operativi del settore non profit e delle imprese socialmente responsabili spesso si siano incontrati90.

L’unicità di tale modello è stata in parte erosa dal D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 155, emanato in attuazione della legge delega n. 118 del 2005, che ha dato ingresso nel nostro ordinamento alla figura dell’“impresa sociale”91.

89

Tale è il principio della cd. neutralità dei modelli organizzativi. Sulla opportunità di tale scelta, si veda R. DI RAIMO, Introduzione, in L’impresa non lucrativa, Atti del seminario di Benevento del 25 settembre 2007, in Riv. dir. Impresa, 2007, pag. 439

90

Si pensi, ad esempio, come le organizzazioni non profit, fino all’emanazione del D.Lgs. 155/2006, abbiano fatto ricorso, per porre in essere attività prettamente economiche, al modello cooperativo.

91

Come osservato da G. BONFANTE, Un nuovo modello d’impresa: l’impresa sociale, in Diritto commerciale e societario, n. 8, 2006, pag. 929, “si tratta di una novità di grande rilievo sul piano istituzionale fortemente voluta dagli operatori del cosiddetto terzo settore, che possono così svolgere attività dal contenuto economico e imprenditoriale, da un lato, mantenendo la propria specificità di organizzazione no-profit a dall’altro, evitando di incorrere nei pericoli della procedura fallimentare. Il risultato è stato ottenuto affiancando alle varie tipologie di imprenditore, così come definito dall’art. 2082 c.c., un nuovo tipo che si aggiunge, senza sovrapporsi, alle nozioni di imprenditore commerciale, piccolo imprenditore e imprenditore agricolo”.

Tale impresa è connotata dai caratteri generali degli altri modelli commerciali di impresa, ma se ne differenzia sostanzialmente per vari motivi92. In primis, l’ambito di attività è rigorosamente limitato al settore di utilità sociale, così come definito dall’art. 2 dello stesso decreto93. In secondo luogo perché non può esservi uno scopo di lucro, inteso come lucro soggettivo, in tutte le sue forme dirette e indirette94.

92

Sulla tendenza degli organismi non profit a svolgere attività di impresa, si v. B.A. WEISBROD, To Profit or not to profit, The commercial transformation of the Non-profit sector, Cambridge, 2000

93

Ai sensi dell’art. 2 rientrano nel concetto di utilità sociale le attività di: a) assistenza sociale; b) assistenza sanitaria; c) assistenza socio-sanitaria; d) educazione, istruzione e formazione; e) tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; f) valorizzazione del patrimonio culturale; g) turismo sociale; h) formazione universitaria e post-universitaria; i) ricerca ed erogazione dei servizi culturali; l) formazione extra-scolastica; m) servizi strumentali alle imprese sociali, resi da enti composti in misura superiore al 70% da organizzazioni che esercitano un’impresa sociale. Non rientrano invece nell’ambito di attività dell’impresa sociale le attività degli organismi che per statuto limitino l’erogazione dei servizi ai soli soci. Pertanto, affinché l’attività economica di tale impresa possa essere ritenuta “socialmente utile” occorre che i ricavi derivanti dalle attività “sociali” siano superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi dell’organizzazione.

94

L’art. 3 del decreto stabilisce che gli utili e gli avanzi di gestione devono essere destinati allo svolgimento delle attività o ad incrementi del patrimonio, con la conseguenza che è vietato distribuire utili, avanzi, fondi e riserve agli amministratori, soci, partecipanti, lavoratori, collaboratori.

Come rileva G. BONFANTE, Un nuovo modello d’impresa: l’impresa sociale, cit., pag. 930, tuttavia “il divieto di perseguire lo scopo di lucro è a maglie assai più larghe di quanto a prima vista appaia. Così per quanto riguarda i soci nulla si dice in ordine alla restituzione del capitale e soprattutto relativamente alla possibilità di rivalutazione dello stesso. Ove, in particolare, quest’ultima operazione fosse possibile (ma lo spirito del provvedimento più che il dato letterale sembrerebbe far propendere per il no) la lucratività delle società titolari di imprese sociali rientrerebbe dalla finestra attraverso la possibilità di recesso anticipato del socio. Del resto anche i limiti indiretti alla distribuzione di utili sono tutt’altro che chiaramente definiti ove si consideri che si fa riferimento a fumosi corrispettivi massimi praticati per gli amministratori del medesimo settore, con possibilità di incremento fino al 20%, e ai corrispettivi massimi per i lavoratori del settore, anche qui con possibilità di deroghe”.

La novità legislativa prodotta dal D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 155, pone ancor più in rilievo le possibili convergenze tra la struttura di un’impresa socialmente responsabile e quella di un progetto non profit svolto con lo strumento dell’impresa sociale. Tuttavia l’elemento fondamentale, che è appunto quello dello scopo di lucro, permane a caratterizzare i due modelli ed a differenziare in modo netto le due figure.

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A NECESSITÀ DI UNA NUOVA CATEGORIA

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