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La tutela dell’incapace maggiorenne secondo la Codificazione Italiana del

Nel 1806, ad eccezioni delle isole di Sicilia e Sardegna, il Code Napolèon entrò in vigore anche nel territorio italiano con la denominazione di Codice di Napoleone il Grande pel Regno d’Italia e vi restò operativo fino alla caduta di Napoleone, avvenuta nel 1814121

. Nonostante la breve vigenza, esso segnò profondamente il panorama giuridico italiano non solo nel periodo immediatamente successivo alla sua abrogazione, ma anche in quello successivo riverberando i suoi effetti fino alla codificazione del 1942.

Il felice connubio costruito dal codice francese, fra il sistema di diritto comune romano ed i principi di libertà e uguaglianza di stampo rivoluzionario, non lasciarono insensibili le legislazioni statutarie successive122.

Quasi tutti gli stati preunitari, infatti, modellarono i propri codici sulla base di quello francese.

Al momento della nascita del Regno d’Italia i codici vigenti sul territorio erano ben cinque123.

L’incertezza giuridica che caratterizzava il nostro paese mal si conciliava con l’idea di un regno unito.

Scartata l’ipotesi di adottare come codice unitario sia il codice Albertino che quello per il Regno delle Due Sicilie, si dette avvio ai lavori preparatori per la nuova codificazione.

121

Cfr. A. Ascoli – F. Cammeo, Parte generale del diritto privato francese moderno, Milano, 1906;

122Cfr. D. Poto, Giuristi Subalpini tra avvocatura e politica. Studi per una storia

dell‟avvocatura piemontese dell‟Otto e Novecento, 2006;

123

A. Ascoli – F. Cammeo, op.cit., p.13: ‹‹Alla costituzione del regno d‟Italia dunque

cinque codici civili vigevano nelle varie regioni del regno, il codice o leggi delle Due Sicilie, l‟Albertino per gli Stati del re di Sardegna, il Parmense per i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, l‟Estense per il ducato di Modena, e il codice austriaco per la Lombardia, oltre il Regolamento Gregoriano per gli Stati Pontefici, il codice Napoleone a Lucca e il diritto comune vigente in Toscana e in gran parte negli Stati Pontefici, salve le leggi speciali››:;

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Dopo una serie di progetti finalmente si giunse quello definitivo, ad opera del ministro Guardasigilli Pisanelli124.

La nuova codificazione raccolse molto dall’eredità lasciata dai precedenti statuti, finendo per essere essa stessa costruita sul modello della codificazione francese.

Sulle orme del Codice napoleonico, anche il Codice civile italiano si caratterizzò per un preminente rilievo attribuito alla proprietà privata, al cui incremento e persistenza si inspirò la disciplina dedicata alla famiglia e alle successioni.

‹‹La categoria dell‟essere è subordinata a quella dell‟avere: chi possiede è125.

Nel panorama della tutela dedicata alla persona, tralasciando i precedenti offerti dalla codificazione austriaca che investì il territorio italiano preunitario solo marginalmente, la codificazione italiana del 1865 offrì una novità rilevante soprattutto in tema di status126.

Innovando rispetto a quanto statuito dai codici preunitari e dal codice Albertino, le norme del nuovo Codice italiano dedicate allo stato delle persone furono essenzialmente condensate in due disposizioni, gli artt. 1 e 3127 del Libro Primo, i quali riconobbero il godimento dei diritti civili non più soltanto ai cittadini ma anche agli stranieri128

.

In tema di capacità, invece, la legislazione del 1865 non si occupò di apprestarne una regolamentazione compiuta, benché non mancassero disposizioni a questa indirettamente collegate129.

124Cfr. R. Bonini, Dal codice civile del 1865 al codice civile del 1942, in I

cinquant‟anni del Codice civile. Atti del convegno di Milano, Vol. I, Milano, 1993;

125

P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-

comunitario delle fonti, I, Roma-Napoli, 2006, p. 168;

126Cfr. G. Alpa, Status e Capacità, La costruzione giuridica delle differenze

individuali, Roma-Bari, 1993;

127Art. 1: ‹‹Ogni cittadino gode dei diritti civili, purchè non ne sia decaduto per

condanna penale››; Art. 3: ‹‹Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini››: Codice civile del Regno d’Italia, Torino, 1865;

128Cfr. G. Alpa, op.cit.;

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In relazione alla disciplina dettata a favore dei soggetti affetti da disturbi psichici, il legislatore del 1865 non si discostò molto dal modello di stampo francese.

Come il Code Napolèon anche il Codice civile italiano adottò, come strumento cardine della materia, l’istituto dell’interdizione.

La normativa italiana non si limitò, però, a riproporre pedissequamente l’impostazione francese.

Innanzitutto, sul piano generale, è interessante sottolineare la novità introdotta dalla disposizione di apertura del Capo II del Titolo X, l’art. 324 c.c.

Quest’ultimo, infatti, a differenza della previgente impostazione, non conteneva più l’enumerazione delle diverse forme sotto le quale lo stato di alienazione poteva palesarsi ma, al contrario, introdusse a fondamento della sentenza di interdizione un’unica causa generale: l’infermità di mente130.

Alla base della scelta intrapresa dal legislatore vi fu, essenzialmente, la scarsa conoscenza medicata sviluppatasi in merito agli stati psicologici dell’individuo.

In assenza di un’adeguata linea guida medica, infatti, qualsiasi criterio giuridico di stampo classificatorio fu ritenuto inidoneo a rappresentare compiutamente il vasto panorama clinico esistente131.

La complessità della materia e i drammatici effetti che l’istituto dell’interdizione era in grado di produrre sulla vita della persona interdetta apparvero, sin da subito, ben chiari agli interpreti.

Come riportato da autorevole dottrina: ‹‹L‟interdizione come fatto, è la negazione di ogni libertà personale e civile; come oggetto è la protezione

130Art. 324: ‹‹Il maggiore di età ed il minore emancipato, il quale si trovi in

condizione di abituale infermità di mente che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, deve essere interdetto››: Codice civile del Regno d’Italia, Torino, 1865;

131Cfr. T. Ferrarotti, Commentario teorico pratico comparato al codice civile italiano, Torino, 1872;

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della persona e dei beni. Come istituto ha la sua ragione di essere nell‟obbligo che ha la società di assumere la tutela delle persone incapaci››132.

Ed ancora: ‹‹La interdizione, non bisogna dissimularlo, è durissima e umiliantissima condizione del cittadino; sorgente di tristi e dolorose memorie anche dopo che sia cessata o revocata››133.

Il dettato codicistico non subì alcuna influenza dalla generale consapevolezza maturata in merito alla gravosità dell’istituto.

L’inumana condizione a cui l’interdetto era destinato trovava, infatti, la sua ragion d’essere all’interno dell’art. 335 del c.c. il quale sanzionava, con l’istituto della nullità, qualsiasi atto posto in essere dall’interdetto134.

Il rigoroso dettato normativo non mancò di sollevare accesi dibattiti che, sulla scorta di quanto già affrontato in relazione all’impianto codicistico francese, erano protesi a rintracciare residui ambiti di autonomia da riconoscere al soggetto interdetto e salvarlo, così, dall’alienazione sociale a cui era destinato.

Oltre ad alcune specificazioni di carattere terminologico135 , i maggiori sforzi interpretativi si concentrarono soprattutto sulla natura degli atti posti in essere dall’interdetto.

Accanto a coloro che ritenevano invalido qualsiasi atto compiuto dall’interdetto, si andò consolidando una dottrina di segno

132L. Borsari, Commentario del codice civile italiano, Vol. I, Torino-Napoli, 1871, p. 1064;

133

Ivi, p. 1066;

134Art. 335: ‹‹Gli atti fatti dall‟interdetto dopo la sentenza d‟interdizione, od anche

dopo la nomina dell‟amministratore provvisionale sono nulli di diritto››: Codice civile

del Regno d’Italia, Torino, 1865;

135Nello specifico si fece riferimento al significato da attribuire all’espressione ‹‹sono nulli di diritto›› contenuta nell’art. 335 su indicato. Si veda, in merito: J. Mattei, Il

codice civile italiano nei singoli articoli, Vol. I, Venezia, 1873, p. 588: ‹‹Le parole, “sono nulli di diritto”, non sono esatte. Prese alla lettera, significherebbero che gli atti emanati da un interdetto sono assolutamente inesistenti, di modo che la nullità da cui fossero affetti sarebbero opponibili non solo dall‟interdetto, ma anche da coloro che avessero contratto seco lui; e sarebbe inoltre perpetua, cioè opponibile in ogni tempo. Ma tale non è il pensiero della legge: questi atti sono solamente annullabili: la nullità è relativa e temporanea, e, come dice il capoverso del nostro articolo, può domandarsi utilmente dal tutore, dall‟interdetto, dai suoi eredi od aventi causa, a sensi dell‟art.1300, entro cinque anni, computabili dalla cessazione dell‟interdizione o dalla di lui morte››;

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diametralmente opposto, propensa a suddividere i diritti di cui era titolare l’incapace in due macro categorie.

Nella prima furono ricompresi quei diritti il cui esercizio poteva essere scisso dal godimento (ricadendo, pertanto, sotto l’applicazione dell’art. 335), nella seconda, invece, diritti in cui l’interesse morale era prevalente e il cui godimento non poteva, in alcun modo, essere scisso dall’esercizio e, quindi, in grado di essere esercitati direttamente dall’interdetto, purché quest’ultimo si trovasse in condizione di capacità naturale136

.

Seguendo questa impostazione ne sarebbe derivata la possibilità, per l’interdetto, di impugnare il suo matrimonio, riconoscere il figlio naturale, esercitare la patria potestà, essere testimone nei testamenti, ricorrere per Cassazione contro la sentenza che aveva pronunciato o revocato la sua interdizione137.

A sostegno di tale costrutto si evidenziò come, in ambito giurisprudenziale, esplicita rilevanza veniva attribuita soprattutto alla capacità amministrativa dell’interdicendo, assunta come parametro di giudizio per valutare l’idoneità o meno dell’individuo alla gestione dei propri affari138.

I dibattiti illustrati non ebbero seguito e non facendo la legge alcuna distinzione esplicita, tutti gli atti furono considerati nulli di diritto e l’impostazione preclusiva andò consolidandosi.

Una possibile ragione alla base di tale scelta è da rintracciare, come da qualcuno rilevato, nella generale mal considerazione vigente anche nel panorama italiano dell’epoca, verso coloro che erano affetti da disturbi psichici.

136Cfr. J. Matteri, op.cit.; L. Borsari, op.cit.; 137Cfr. G. Lisella, op. cit.;

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Quest’ultimi, infatti, erano considerati addirittura ‹‹peggiori dei bruti139›› e quindi non in grado di esprimere alcun valido consenso.

La scelta compiuta segnò, però, un punto decisivo per l’inquadramento generale dell’istituto.

La generale conoscenza (o meglio, non conoscenza) afferente alla malattia mentale aveva condotto l’ordinamento a creare un istituto che, nei suoi tratti essenziali, mirava ad affaticare una condizione umana di per sé già provata e difficoltosa.

Dichiarato interdetto e privato di ogni margine di autonomia, l’individuo era quindi sottoposto alle cure di un tutore scelto dal Consiglio di Famiglia la cui disciplina era costruita, per rimando dell’art. 329 c.c. 140, sul modello di quella minorile.

La disciplina offerta dagli artt. 277 c.c. e ss., dedicati prevalentemente alla gestione del patrimonio pupillare, contenevano un quadro di norme molto ricco atto a scandire le singole fasi dell’amministrazione.

La gestione realizzata dal tutore sul patrimonio dell’interdetto risultava, grazie a tale rimando, destinataria di un complesso di norme abbastanza organico.

Giova ricordare però che la causa della tutela dell’interdetto è diversa da quella minorile pertanto, come sottolineato da un’attenta dottrina, il relativo sistema amministrativo poteva risultare nella pratica più complesso e oneroso, in quanto finalizzato al recupero della salute dell’infermo141.

139Così la Relazione n. 139 della Commissione Senatoria sul progetto del primo libro

del codice civile, presentato dal ministro Guardasigilli Pisanelli (relatore Vigliani)

riportata da G. Lisella, op. cit., p. 34; 140

Art.329 ‹‹L‟interdetto è in stato di tutela. Le disposizioni relative alla tutela dei

miori sono comuni alla tutela degli interdetti››: Codice civile del Regno d’Italia,

Torino, 1865;

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Di tali nobili intenti la disciplina codicistica ne fu alquanto scarna, non dedicandone alcuna specifica disposizione come accadde, invece, nel Code Napolèon con l’art. 510.

Alla cura personale dell’interdetto era in sostanza dedicata una sola disposizione, l’art. 330, il quale letteralmente si limitava ad affidare la qualità di tutore in primis al coniuge, indi al padre o alla madre.

La scelta compiuta dal legislatore fu quindi, secondo la ricostruzione degli interpreti, quella di affidare (o, meglio, addossare) la cura dell’interdetto agli affetti familiari, e di ricorrere al ricovero negli stabilimenti a ciò destinati solo per quei soggetti che presentavano episodi violenti e pericolosi: in questo caso la gestione personale dell’infermo sarebbe stata scandita dalla direzione dello stabilimento di internamento142.

Nonostante gli elaborati sforzi interpretati condotti dalla dottrina, il vuoto normativo lasciato dalla codificazione ebbe pesanti ripercussioni sulla realtà sociale, “abbandonata” da un legislatore poco interessato ai bisogni dei più fragili.

A conferma di quanto detto credo sia interessante riportare alcuni passi tratti dalla relazione, stilata a seguito di un ispezione generale nei manicomi di tutto il Regno avvenuta nel 1891, da due degli psichiatri più importanti di quel periodo, Augusto Tamburini e Cesare Lombroso che. assieme a Rutilio Ascenzi, scrissero: ‹‹[…]In nessuna parte d‟Italia abbiamo trovato veruno speciale provvedimento per la tutela degli averi degli alienati, lacuna che esiste anche nella stessa Legge toscana. Una volta che un individuo è recluso nel manicomio, nessuno è ora chiamato a provvedere a‟suoi beni mobili o immobili. Tutto quanto di valore egli potesse avere presso di sé, qualora manchino i più stretti congiunti, rimane sottratto alla sorveglianza della legge. La stessa tutela dei beni, sottoposta alle pure norme del Codice civile, non comincia allorquando si procede, a termini di legge, all‟inabilitazione o all‟interdizione: ma questi provvedimenti d‟ordinario non

142Ivi, p. 1077;

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vengono presi che sotto i reclami d‟urgenza, per gli interessi non tanto del malato quanto dei parenti, che senza quello non potrebbero compiere certi atti […] La sorveglianza sui manicomi tanto pubblici che privati è presso noi quasi dappertutto nulla: e là dove esiste è assai deficiente […] La sorveglianza sul modo come i malati sono tenuti e trattati, come i regolamenti sono osservati, come le prescrizioni dell‟igiene sono adempiute, come le nuove costruzioni o provviste rispondano alle esigenze e ai progressi della tecnica manicomiale, fanno, si può dire, ovunque assoluto difetto››143.

La normativa dedicata al maggiorenne incapace si completava con l’istituto dell’inabilitazione, introdotto per la prima volta nel Codice Civile del 1865, finalizzato a colmare il vuoto esistente fra l’assoluta incapacità e la piena capacità d’intendere144.

Le forme di inabilitazione contemplate nel Capo III del Tit. X erano essenzialmente due: la prima di natura giudiziale, promossa per infermità di mente non grave e per prodigalità, la seconda di tipo legale, di cui erano investiti automaticamente i sordo muti e ciechi dalla nascita al raggiungimento della maggiore età, sempre che l’autorità giudiziaria non li avesse giudicati abili a provvedere alle proprie cose per l’educazione ricevuta.

La creazione della figura del curatore, la cui nomina era riservata al Consiglio di famiglia o di tutela, finalizzata all’assistenza dell’incapace più che alla sua sostanziale sostituzione, segnò un progresso che non passò inosservato agli occhi degli interpreti145.

143

Relazione tratta da: A. Scartabellati, L‟umanità inutile, la “questione follia” in

Italia fra la fine Ottocento e inizio Novecento, e il caso del Manicomio Provinciale di Cremona, Milano, 2001, pp.142-143;

144Come si evince dalla Relazione sul progetto del Primo Libro del Codice civile n.49, tratta da G. Cresta, Dalla cura furiosi all‟amministrazione di sostegno, Persona e Danno, 2009, ‹https://www.personaedanno.it/generalita-varie/dalla-cura-furiosi-all- amministrazione-di-sostegno-giuseppe-cresta›(20/06/2009): ‹‹[…] questa misura

intermedia è di molta utilità per provvedere a quei casi in cui le facoltà mentali di un individuo, senza trovarsi in tale disordine o turbamento da far luogo all‟interdizione, non presentano però una pienezza di capacità o sembrano difettose di quel grado, necessario per gli affari di maggior importanza […]››;

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Nel lungo periodo che va dal 1865 al 1915 la disciplina dedicata al diritto delle persone restò sostanzialmente immutata.

L’immobilismo che caratterizzò la normativa fu rotto, nel 1877, da due leggi, la n. 4166 e la n. 4167, che introdussero rispettivamente l’abolizione del carcere per i debitori e la capacità concessa alle donne di fare da testimoni negli atti pubblici e privati mediante la modifica degli artt. 351 e 788 c.c.146

146Cfr. R. Bonini, op.cit.;

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