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3. Novità in tema

3.2 Sentenza n 7739 del 28 Febbraio 2012: il caso D&G

3.2.2 La vicenda processuale

L’Agenzia delle Entrate, preso atto di questa complessa operazione di riorganizzazione aziendale, ha mosso alcune contestazioni che si sono poi tradotte in denunce penali di fronte all’autorità giudiziaria. La prima contestazione che viene mossa è che la cessione del marchio dalle persone fisiche alla società lussemburghese era in realtà una cessione simulata, avente come principale ed unica finalità quella di conseguire un indebito vantaggio fiscale. Oltretutto tale vendita

401 Il prezzo del marchio era stato preventivamente stimato dalla società di consulenza PriceWaterhouseCoopers intorno ad un valore di 355 milioni di euro.

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L’articolo 12, paragrafo 2, del Modello Ocse di Convenzione contro le doppie imposizioni, definisce le royalty compensi di qualsiasi natura corrisposti per l’uso o la concessione in uso di beni immateriali.

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simulata, secondo l’Agenzia delle Entrate è avvenuta ad un prezzo sottostimato404 e la società Gado s.a.r.l. era in realtà solo formalmente lussemburghese. A fronte di tali obiezioni il Pubblico Ministero ha contestato il reato di truffa ai danni dello stato, secondo l’art. 640, comma 2 del codice penale405

. Inoltre viene contestato anche il reato di infedele dichiarazione406, in quanto in sede di cessione dei marchi, sottostimando il prezzo non è stato dichiarato il reale plusvalore derivante da tale cessione.

Tuttavia il GUP, il 1° Aprile 2011 dichiara con sentenza il non luogo a procedere nei confronti di tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste”, ritenendo infondate tutte le accuse mosse nei loro confronti. Innanzitutto il GUP sostiene che l’operazione di cessione dei marchi non sia simulata, ma sia reale ed effettiva. Essa, infatti, risponde ad esigenze legittime extrafiscali legate alla contitolarità della holding, considerata un elemento di debolezza per il sistema bancario. L’operazione posta in essere è cioè sorretta da valide ragioni economiche ulteriori rispetto alle mere ragioni di risparmio fiscale. Il GUP arriva a questa conclusione prendendo in esame, tra tutti gli elementi di prova forniti dal PM, in particolare le mail che l’Italia mandava agli amministratori lussemburghesi. Tale elemento di prova, secondo il GUP era neutrale, nel senso che non deponeva né a favore né contro, perciò non aveva un reale valore probatorio.

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In particolare si evince dalla sentenza che il reale valore del marchio stimato dall’Agenzia delle Entrate ammonterebbe a € 1.193.712.000. In virtù di questa constatazione l’Agenzia conclude che il prezzo pattuito e quindi dichiarato differisce dal valore di mercato, ovvero dal valore a cui il marchio avrebbe dovuto essere ceduto in condizioni normali di mercato.

405 Art. 640 c.p.: “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032. La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 309 a euro 1.549:1) se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare;2) se il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l'erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell'autorità;2 bis) se il fatto è commesso in presenza della circostanza di cui all’articolo 61, numero 5). Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un'altra circostanza aggravante”.

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Art. 4 decreto 74/2000: “Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, e' punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente: a) l'imposta evasa e' superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a lire duecento milioni; b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, e' superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, e' superiore a lire quattro miliardi”.

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Per ciò che concerne l’accusa di aver sottostimato il valore di cessione, il GUP sostiene che tale corrispettivo è frutto della libertà di iniziativa economica delle parti, secondo l’art. 41 della Costituzione. Il GUP ritiene poi inammissibile, quanto meno in sede penale407, la rivalutazione del reddito imponibile sulla base del criterio presuntivo legale del valore normale, in quanto “la cessione di un bene immateriale verso il corrispettivo di un prezzo determinato dalle parti sia un caso del tutto estraneo a quella disposizione, poiché rientrante nella categoria dei redditi diversi di cui agli articoli 67 e seguenti dei T.U.I.R.”408.

Inoltre, in riferimento alla truffa aggravata, la sentenza esclude la sussistenza degli artifici contestati poiché la cessione del marchio è stata posta in essere alla luce del sole, ne costituiscono infatti prova gli incarichi assegnati ai professionisti, gli atti riguardanti la costituzione delle società ed infine la denominazione ad esse assegnata. Il GUP conclude che vengono quindi a mancare gli elementi propri del reato, infatti affinché vi sia una truffa ai danni dello Stato è necessario che vi siano dei raggiri, e per esserci un raggiro occorrono degli artifici. La sentenza si conclude poi sostenendo che, per quanto riguarda l’esterovestizione, gli imputati hanno fatto proprio un diritto ed una libertà riconosciuti in sede europea, ovvero quello di ubicare liberamente la propria impresa nel territorio europeo che si desidera409.

A fronte di tale pronuncia del Tribunale di Milano il Procuratore della Repubblica e l’Agenzia delle Entrate, quale parte civile, impugna la sentenza di non luogo a procedere con ricorso diretto in Cassazione410. Tale ricorso muove dal fatto che il PM ritiene che il GUP non abbia valutato in modo adeguato le prove che l’Agenzia delle Entrate aveva prodotto, in particolar modo non prende in considerazione il fatto che non appena la Guardia di Finanza inizia le verifiche, la sede della Gado viene immediatamente trasferita in Italia. Inoltre il PM disapprovava

407 Il GUP sostiene che tale inammissibilità derivi principalmente da due ragioni. Innanzitutto il valore

normale è ontologicamente incompatibile con quanto richiesto per integrare il reato di dichiarazione infedele, inoltre in sede di accertamento della responsabilità penale risultano essere non applicabili le presunzioni legali. Per quest’ultima motivazione il GUP fa riferimento alla sentenza n. 5490 del 6 Febbraio 2009 dove si affermava che: “in sede penale il giudice non può applicare le presunzioni legali, sia pure di carattere relativo, o i criteri di valutazione validi in sede tributaria . Deve invece, procedere d’ufficio agli accertamenti del caso”.

408 Tribunale di Milano, Ufficio Gip, Dott. Luerti, 1° Aprile 2011. 409

Il diritto alla libertà di stabilimento è espressamente sancito negli artt. 49 ss., del TFUE (Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea). Tale principio era già stato precedentemente invocato nella sentenza Cadbury-Schweppes- Corte di Giustizia, 12 Settembre 2006, causa C-196/04.

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la metodologia utilizzata dalla società che aveva stimato il valore del marchio (Pwc) poiché essa non aveva preso in esame il fatto che l’operazione di cessione non avveniva tra operatori italiani, ma tra una società italiana ed una lussemburghese, provocando dei notevoli risvolti in campo fiscale che ne avrebbero alterato il valore411.

La prima questione presa in considerazione dalla Cassazione è di natura processuale-penalistica e si riferisce alla legittimità dell’impugnazione della sentenza da parte dell’Agenzia delle Entrate. La Cassazione, a tal proposito, ritiene che l’Agenzia delle Entrate può costituirsi parte civile perché fa le veci dello Stato, che ne è la parte danneggiata e pertanto qualunque legittimazione procedimentale e processuale spetta ope legis all’Agenzia412.

La Cassazione poi, di fronte all’accusa mossa dall’Agenzia delle Entrate, e soprattutto dal Pubblico Ministero, di condanna per reato di truffa aggravata ai danni dello stato413 (art. 640 c.p.) risponde invocando il cosiddetto principio di specialità414. Secondo tale principio415 il reato di cui all’art. 640 del codice penale, costituisce una fattispecie generica, per cui doveva in realtà essere contestato quantomeno il reato di omessa dichiarazione, in base all’art. 5 del D.Lgs. 74/2000416. La Gado s.a.r.l. infatti,

411 Il valore del marchio dipende infatti dall’entità dell’imposizione fiscale, poiché una minore

imposizione si traduce in maggiori utili che comportano anche un maggior valore dell’azienda.

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La Corte di Cassazione, in tal senso, rigetta quanto formulato in difesa dagli imputati, i quali avevano ritenuto che spettasse solo al Ministero dell’Economia e delle Finanze, in quanto parte offesa dal reato, impugnare la sentenza di non luogo a procedere. VIZZARDI M., La Cassazione sul caso Dolce e Gabbana: elusione fiscale e truffa aggravata ai danni dello Stato, in www.penalecontemporaneo.it, 22 Giugno 2012.

413 Secondo il PM il fatto di aver venduto i marchi alla società lussemburghese costituisce dapprima

un raggiro, e conseguentemente un artificio che ha indotto in errore l’Agenzia delle Entrate, procurando ad essa un danno che si traduce in un ingiusto risparmio fiscale per la società. Ci sono pertanto tutti gli elementi idonei a contrastare tale reato.

414 “Tutti i reati tributari descritti dal D.Lgs. 74/2000 sono da ritenersi in rapporto di specialità rispetto al delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, qualora la condotta incriminata abbia come mera finalità l'evasione o l'elusione della obbligazione tributaria. Il delitto di truffa aggravata potrà eventualmente concorrere con i reati fiscali del decreto sopra citato soltanto qualora dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all'evasione fiscale”. VIZZARDI M., La Cassazione sul caso Dolce e Gabbana: elusione fiscale e truffa aggravata a danni dello Stato, cit.. 415

Il principio di specialità era stato precedentemente affermato anche dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 1235 del 19 Gennaio 2011. Esso compare inoltre anche nel codice penale all’art. 15, il quale recita: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.

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Art. 5 decreto 74/2000: “E' punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, quando l'imposta evasa e' superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte a lire centocinquanta milioni”.

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essendo solo formalmente lussemburghese, ma realmente italiana non ha adempiuto all’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi in Italia, avendolo tuttavia compiuto solamente di fronte al Fisco lussemburghese. In virtù di tali considerazioni la Corte di Cassazione espunge completamente dal processo il reato di truffa.

Infine la Cassazione riversa nuovamente sul giudice di primo grado la questione sulla contestabilità o meno del reato di dichiarazione infedele secondo l’art. 4 D.Lgs. 74/2000. Tuttavia tale rinvio avviene in sede dibattimentale, e non più in quella preliminare. Dopo 7 mesi di dibattimento di primo grado, il Tribunale di Milano il 19 Giungo 2013, in composizione monocratica, si pronuncia per una parziale condanna. La società risulta esterovestita e viene contestato il reato di cui all’art. 5 del D.Lgs. 74/2000, ovvero il reato di omessa dichiarazione di tutti i redditi che avrebbero dovuto essere dichiarati in Italia, derivanti dalle royalties percepite dalla Gado s.a.r.l. tra il 2004 e il 2007. Il giudice monocratico condanna quindi gli stilisti ad 1 anno e 8 mesi di reclusione e tuttavia li assolve per il reato di infedele dichiarazione, in quanto “il fatto non sussiste”. La decisione muove dal fatto che, in generale, i comportamenti elusivi possono portare ad una infedele dichiarazione, se essi risultano contestabili in presenza di una norma specifica antielusione. Tuttavia, nel caso in esame, la specifica operazione di cessione di un marchio da parte di persone fisiche non rientra tra quelle specificatamente elencate nel comma 3 dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. Essa pertanto può essere contestata in virtù del generale principio non codificato dell’abuso del diritto, con la conseguenza che la condotta posta in essere non risulti penalmente rilevante.

La Corte d’Appello di Milano, il 30 Aprile 2014 conferma totalmente tale pronunciamento e condanna gli stilisti ad 1 anno e 6 mesi di reclusione, per evasione ai sensi del reato di cui all’art. 5 del D.Lgs. 74/2000 (omessa dichiarazione).

Tuttavia all’esito dell’udienza del 24 Ottobre 2014, la III sezione penale della Cassazione ribalta la decisione presa in Appello, annullando senza rinvio la precedente sentenza della Corte d’Appello, “perché il fatto non sussiste”. Infine, il 30 Ottobre 2015 è stata depositata la sentenza n. 43809 della III Sezione Penale della Cassazione che ha reso note le motivazioni poste a sostegno dell’assoluzione dei due stilisti da tutte le accuse di evasione e di elusione.

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3.2.3 La rilevanza penale dell’elusione codificata: i motivi della