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vILLA CASteLLettI A SIgNA

Nel documento L'Ombrone pistoiese, il fiume che non c'è (pagine 104-108)

Villa Castelletti sorge ai margini della strada che collega il borgo di Lecore con Signa; nata con ogni probabilità come casa fortificata del contado fiorentino, lo stesso toponimo Castelletti potrebbe derivare dalla presenza di una fortificazione su cui è sorta la villa che nel tempo si è trasformata tanto da divenire, a partire dal XVI secolo, una vera e propria dimora che i vari casati fiorentini frequentavano per il loro diletto. Secondo alcune testimonianze la costruzione della villa risalirebbe all’inizio del Quattrocento sotto il patronato della famiglia Strozzi, con dimensioni più modeste rispetto a quelle attuali; l’abitato, composto soltanto di un piano terra ed un piano primo, era formato solo da quello che oggi è l’attuale ingresso e da due sale laterali, con l’ingresso al casale che si trovava sul lato opposto. Molte famiglie nobili entrarono in possesso della villa: tra i proprietari illustri si ricorda la famiglia Lapi, gli Uguccioni e la potente famiglia dei Cavalcanti, di cui faceva parte il poeta Guido, amico di Dante Alighieri, proprietaria del complesso architettonico già a partire dai primi anni del XVI secolo; un inventario, datato 1577, dà una descrizione completa di ciò che si trovava all’interno della villa. Tra il XVII ed il XVIII secolo la famiglia Cavalcanti effettuò radicali mo- diche all’edificio, aggiungendo al primitivo corpo centrale quattrocentesco due ali laterali e traslando l’ingresso principale sul lato Nord; venne realizzato un secondo piano su cui ancor oggi svetta un’altana, una loggia belvedere, oggi simbolo di Villa Castelletti. L’architettura del

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complesso architettonico, unitamente al paesaggio in cui è tutt’ora inserita, fu inclusa nella serie di incisioni del XVIII secolo di Giuseppe zocchi.

Alla morte nel 1727 di Alessandro Cavalcanti, ultimo erede della dinastia, la villa e gli altri beni passarono al cugino Taddeo della famiglia Mancini alla quale, per mancanza di eredi, successe nel 1749 Urbano Cattani, il quale vi si trasferì a partire dal 1750. Questo passaggio di successione avvenne senza non poche diatribe tra i vari casati, come ad esempio i Capponi e i Compagni, che ritenevano di poter godere di tutta o una parte di tale eredità; infatti essi impugnarono il testamento, ma il Magistrato Supremo di Firenze respinse il ricor- so. Una clausola testamentaria costringeva la famiglia che entrava in possesso della villa a cambiare il nome e l’arme; fu così che lo stesso Urbano Cattani prese il nome di Alessandro Cavalcanti. Questa villa da sempre è il fulcro di una tenuta agricola molto vasta, che raggiun- se il suo massimo splendore nella metà dell’Ottocento. Dai cabrei del XVIII secolo si appren- de dell’esistenza di una fornace, ancor oggi presente, così descritta:”più bocche di fornace da embrici, calcina e mattoni”; del mulino e del cosiddetto “molinuzzo” sul torrente Ombrone, compreso il frantoio, ancora attivi a questa data tuttavia non abbiamo più traccia.

Inoltre, come riportato dal catasto Generale Toscano Leopoldino, si apprende che la famiglia Cattani, ora Cavalcanti, nel territorio di Signa possedesse decine di case, circa quin- dici coloniche e tanti appezzamenti di terreni coltivati con viti, olivi e grano; alcune zone era- no destinate a bosco. Nel secolo scorso lo storico Pini descriveva la tenuta come “ricca di belle vigne simmetricamente disposte, e coltivata con la più raffinata Maestria dell’arte agraria, è il modello nel suo sviluppo agrario di tutta la provincia”. Lo stesso storico riporta che a fianco della Villa si trovava la burraia in cui veniva prodotto un burro di ottima qualità, attribuibile alla bontà del foraggio con cui veniva nutrito il bestiame, oltreché agli innovativi macchinari introdotti da Leopoldo Cattani Cavalcanti25, le cui vicende si legano nell’ Ottocento diretta- mente con la figura di questo suo proprietario, la cui opinione politica aveva infuso nei suoi concittadini il sentimento di amor patrio ancor prima che l’Italia venisse unita nel 186126. Il suo impegno fu rivolto al miglioramento dell’organizzazione agraria di tutto il territorio tanto da fondare in Signa una colonia agraria, l’Istituto Agrario Filantropico, indirizzata ai giovani meno abbienti27.

Quando Giuseppe Garibaldi soggiornò, ufficialmente per “ragioni di salute”, dal 20 maggio al 21 giugno 1867 a Villa Castelletti, questa diventò la sua “cancelleria diplomatica”, da cui di fatto elaborò il suo ideologia rivoluzionaria. In questo frangente Garibaldi elogiò in più occasioni l’operato del Cattani Cavalcanti: «(...) Ospite oggi dell’istituto Castelletti, vicino a Signa ed a poche miglia da Firenze, io sono testimonio oculare di quanto può il patriottismo di un uomo per fare il bene del suo simile. In quest’istituto agrario filantropico fondato dal benemerito Cavalcanti, deputato al Parlamento, diretto da lui, diretto con ingenti spese sue proprie, è portato ad invidiabile condizione (..); in quest’istituto io ho veduto il modesto figlio del contadino, nutrito, educato, accanto a quello del milionario, trattati con la stessa amorevo- lezza, istruiti anche alle virili discipline che portano l’uomo vicino al perfezionamento a cui lo destinò la Provvidenza, col lavoro e l’istruzione. Che Dio benedica questo benefattore dell’uma- nità! Che Dio infonda lo stesso benevolo sentimento a tutti i facoltosi della nostra Penisola. (...) Sorgano i ricchi proprietari italiani dall’apatia che lo straniero ci rimprovera e persino a migliorare le condizioni morali e materiali di questo nostro povero popolo della campagna particolarmente: primo, con istituti come questo (...); secondo, coll’accrescere alquanto mercede al contadino (...); terzo, oll’istruzione infine del figlio del povero (...)».28

In seguito a ulteriori successioni la tenuta divenne di proprietà della famiglia Mannelli- Riccardi, prima di passare, agli inizi del Novecento, ai Conti Montagliari, di origine germani- ca con il nome Meyer. Questi, in seguito al loro trasferimento in Italia, ottennero numerose

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benemerenze, tanto da meritare l’iscrizione alla nobiltà per concessione del re Vittorio Ema- nuele II. In questo periodo la famiglia fece realizzare il parco con piante rare che si estende fino al torrente Ombrone, così come oggi lo vediamo, in stile ottocentesco; furono altresì loro che fecero incidere sopra la porta d’ingresso della villa il loro stemma con il motto “non perder l’ora”. La villa oggi è di proprietà della famiglia Allegri ed è un punto di riferimento sul territorio per ricevimenti, congressi ed eventi in genere, destinando quelli che una volta furo- no gli annessi agricoli ad alloggi ad uso turistico. L’aspetto attuale della villa è Settecentesco con gli interni che mostrano diversi stili sovrapposti. Le porzioni più antiche sono costituite senza dubbio dalle cantine, con volte a crociera, ed il blocco principale d’ingresso al piano terra. In particolar modo, le due sale adiacenti all’atrio d’ingresso, con volta a padiglione, dimostrano una tecnica costruttiva tipica della seconda metà del cinquecento, così come altre sale al piano terra, i cui peducci delle volte ed alcuni portali in pietra arenaria ne sono una chiara testimonianza. A suffragio di ciò, il portale di ingresso sinistro del prospetto tergale,

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oggi inglobato in una delle due ali che ne determinano il caratteristico sviluppo planimetrico a “U”, riporta la dicitura: “Sen tom Cav Seni fid a sal MDXXXXV” a conferma dell’epoca di realizzazione. Di interesse sono anche i camini in arenaria resenti nelle due sale d’ingresso, anche se rimaneggiati in alcune parti decorative. La maggior parte delle sale presenta un soffitto ligneo a cassettoni, in alcuni casi dipinto con tecniche riconducibili agli inizi del XX secolo, periodo dei maggiori riadattamenti al corpo di fabbrica. La superficie del fabbricato è stata recentemente saturata attraverso la realizzazione di un giardino d’inverno, riportando lo sviluppo planimetrico a “U” ad una forma del tutto rettangolare. Le ampie scale di pietra serena sono state costruite nel 1686, quando la villa aveva già una struttura ben definita e per- tanto risultano asimmetriche rispetto al corpo di fabbrica. L’elemento più caratteristico della villa è senza dubbio l’altana; infatti dalla loggia si gode il panorama della campagna tra Prato e Firenze. Di fronte all’ingresso c’è il giardino all’italiana che accompagna la via di ingresso sopraelevata fino al viale di cipressi che unisce la tenuta con la viabilità pubblica.

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Le necropoli lungo la direttrice del fiume Ombrone, in prossimità della confluenza con l’Arno, rappresentano un’importante testi- monianza della radicata presenza etrusca sul territorio; queste sono: la necropoli di Prato di Rosello sul colle di Artimino ed il comples- so di sepolture gentilizie di Montefortini e Boschetti, in prossimità dell’ampia ansa che il letto dell’Ombrone fa in prossimità dell’abita- to di Comeana.

Il rinvenimento di queste testimonianze di grandissimo rilievo, risalenti a partire dal VII secolo a.C., in piena fase “orientalezzante” della civiltà etrusca e i cui reperti rinvenuti sono esposti nel Museo Archeologico di Ar- timino, sono il frutto di ricerche sul territorio intraprese dalla Soprintendenza per i Beni Ar- cheologici della Toscana a partire dagli anni Sessanta, fino ai progetti per la valorizzazione del territorio dei giorni nostri.

Sebbene le radici etrusche di Artimino fossero già note da tempo ed i ritrovamenti del tumulo di Grumaggio del 1942 a Poggio alla Malva e dei tre cippi funerari del podere Grumulo poco distante dalla Villa Medicea di Artimino ne fossero testimonianza, gli studi sul territorio che portarono alla scoperta dei siti funerari si concretizzarono soltanto con la scoperta della tomba di Montefortini e dei Boschetti, riportate alla luce in seguito a segnalazioni private tra il 1964 ed il 1965; il sito di Prato di Rosello emerse sul finire del 1966 in seguito a ricognizioni topografiche eseguite sul territorio. Tuttavia la presenza dei tumuli fu messa in evidenza solamente tre anni dopo, in seguito ad un incendio che bruciò la boscaglia lasciando il paesaggio spoglio, libero da ostacoli visivi.

Quando, nel gennaio del 1965, si preparava l’attività di scavo per la tomba di Montefor- tini, fu rinvenuta la struttura, pressoché affio- rante dal terreno, della tomba dei Boschetti, in seguito all’opera dei lavori agricoli. Nei venti giorni che ne seguirono, furono comple- tati i lavori di scavo del tumulo etrusco. Il ma-

nufatto così come si presentò mancava della sua copertura originaria, con ogni probabilità divelta dal passaggio dell’aratro; al suo interno erano rimasti soltanto confuse tracce del corredo funebre, a conferma di una sicura profanazione avventua in precedenza, fatto confermato dalla presenza sigillata, ancor oggi infissa nel terreno, della lastra in arenaria d’ingresso alla tomba.

Dal sito di Montefortini è ben visibile la collinetta artificiale sormontata da un piccolo bosco di querce la cui conformazione contra- sta con l’andamento lineare della campagna circostante; la sua naturale conformazione, con un diametro di circa 80 metri alla base e un’altezza di circa 11 metri, è stata par- zialmente modificata dalla moderna infra- struttura che congiunge l’abitato con Signa, passando per la Villa Castelletti.

È bene subito precisare che il sito ospita due ben distinte tombe la prima delle quali, sul lato nord-orientale del dosso, fu individuata in corrispondenza di una depressione con un

andamento in senso radiale, fenomeno che lasciava ipotizzare la presenza di un dròmos; il fatto diventò più evidente con l’affiorare, durante le prime operazioni di scavo, dei filari più alti della struttura. Già da subito furono rinvenuti frammenti del corredo funerario, chiara evidenza di un saccheggio opera di profanatori di tombe.

Il tumulo, circondato da un tamburo in pietra arenaria, si trova in posizione elevata rispetto al piano di campagna ed arretrato rispetto alla circonferenza attuale della collina; il calpestio è costituito da blocchi in pietra so- vrapposti verticalmente sormontati da tre file di lastre disposte orizzontalmente, a formare una piccola gradinata.

Nel punto in cui l’asse sepolcrale incontra ortogonalmente il tamburo della collina si svi- luppa un avancorpo a forma di basso podio, lastricato con elementi litici perfettamente rettangolari, nella porzione meridionale ed occidentale non più riconoscibile. La tomba presenta un dròmos ottimamente conservato

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