TRATTAZIONE DEI CONCETTI
3.20. VIOLENZA STRUTTURALE
La coniazione di questo termine rappresenta un momento importante nell’evoluzione dei peace studies, oltre che un chiaro esempio di come il linguaggio possa dare concretezza alle nostre idee e svolgere una funzione fondamentale nella nascita di nuovi concetti, i quali senza un nome o, più precisamente, senza un significante che li rappresenti, non potrebbero essere riconosciuti dalla nostra mente.
Prima del termine in questione venivano percepiti come violenza, e pertanto definiti come tale, solo l’offesa e il danno che uno o più individui possono tramite le loro stesse azioni arrecare ad altri - intesi sia singolarmente che come gruppo - con cui vengono direttamente a contatto. Questo tipo di violenza può essere sia materiale, quando per esempio compromette l’integrità fisica delle vittime, che morale o verbale, quando colpisce a livello emotivo e psicologico. Alla voce violenza i dizionari tuttora si riferiscono essenzialmente a questo tipo di fenomeno, per esempio il Sabatini Coletti441 la definisce tendenza all’uso della forza, aggressività, asprezza, durezza di un atto, e poi ancora furia, impeto, veemenza. Questa è stata più precisamente definita da Galtung violenza diretta, per l’immediata connessione tra l’autore della violenza e la sua vittima.
Come evidenzia Graf442 in una sua sintesi delle più importanti teorie di Galtung, anche Hannah Arendt443 nella sua opera sul potere e la violenza, e René Girard444, che si sofferma su violenza e mimesi, pur avendo entrambi dato un contributo importante agli studi in questo campo, si limitano essenzialmente al concetto di violenza diretta.
E’ del 1969 l’articolo, pubblicato nel Journal of Peace Research da lui fondato, in cui Galtung descrive per la prima volta la violenza strutturale445, punto di approdo 441 Cfr. Sabatini Coletti 2006. 442 Cfr. Graf 2009, pag. 38. 443 Cfr. Arendt 1970. 444 Cfr. Girard 1987.
445 Galtung Johan, “Violence, Peace and Peace Research”, Journal of Peace Research, Vol. 6, No 3, 1969, pagg. 176-190.
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della sua complessa teoria sociale; negli anni successivi lo studioso approfondirà ulteriormente l’analisi del fenomeno, giungendo a conclusioni che si possono sintetizzare nel suo celebre paradigma: violenza diretta - violenza strutturale - violenza culturale (→).
La violenza strutturale, definita dallo stesso Galtung anche indiretta, trae origine dal sistema sociale ed economico, dalle leggi, dalla burocrazia, dagli accordi politici, e oggi potremmo dire anche dai meccanismi della globalizzazione. A differenza di quella diretta non ha episodi eclatanti, di cui vediamo con i nostri occhi le immediate conseguenze, ma è un processo dove la connessione tra la causa della violenza e i suoi effetti viene persa in una lunga catena di azioni e fenomeni, che allontana la vittima dai responsabili; questi ultimi non sono perseguibili perché l’ingiustizia che sta alla base della violenza strutturale è resa perfettamente legale dal sistema stesso che la genera. Inoltre chi è vittima di questo tipo di violenza non solo non ha alcun contatto con coloro che stanno al vertice di questa catena, ma non ha nemmeno i mezzi - culturali, politici, economici - per contrastare il sistema. Come evidenzia ancora Graf446, l’analisi di Galtung non si limita all’autore, agli scopi, ai mezzi e nemmeno alla vittima. La sua peculiarità sta nell’attenzione al tipo di relazione tra l’autore della violenza e la vittima; la violenza strutturale nasce infatti da un rapporto tra queste due parti che non è personale, bensì sulla base dello status sociale, del sesso, dell’età e così via, rapporto mediato dalle strutture che si frappongono tra questi individui.
I tre miliardi di persone che vivono oggi al di sotto della soglia della povertà, con meno di due dollari al giorno, non sono semplicemente più sfortunati di noi: c’è qualcosa di ingiusto nel sistema per cui la ricchezza è distribuita in modo così iniquo. Sono per esempio vittima di violenza strutturale tutti coloro che non hanno accesso ad adeguate cure sanitarie, ad un minimo di istruzione, che vivono nell’indigenza, spesso in aree malsane o fortemente inquinate.
I criteri di individuazione della violenza indiretta non sono fissi, rigidi, come per la violenza diretta; essi si rapportano al momento storico, all’epoca e alle potenzialità dell’individuo in quel contesto: morire di tubercolosi oggi è senz’altro un segno di violenza strutturale, ma certamente non lo era al tempo in cui per questa malattia non
c’erano cure adeguate; avere un’aspettativa di vita di circa trent’anni, a causa di malattie e privazioni, è oggi un segno di violenza, non lo era tuttavia in tempi passati, quando questa era l’età media anche per gli strati sociali più alti; pure l’analfabetismo è oggi un segno di violenza, perché l’alfabetizzazione è un requisito indispensabile per poter vivere dignitosamente, ma sappiamo che non è sempre stato così. La violenza strutturale crea dei deficit nei bisogni fondamentali, primari dell’uomo, e genera frustrazione, odio, desiderio di vendetta, la violenza genera violenza.
Si ritiene che le teorie di Galtung abbiano avuto indubbiamente un peso in tutti quegli studi, che proprio negli anni immediatamente successivi447 hanno messo in discussione il concetto di sviluppo (→), capovolgendo radicalmente il significato positivo solitamente associato a questa parola: non può essere considerato positivo ciò che si realizza nel mancato rispetto dei diritti umani, tramite lo sfruttamento di lavoratori sottopagati e privati di fondamentali diritti, a danno dell’ambiente e delle persone che vi vivono, a vantaggio di una stretta minoranza di privilegiati, che detiene il potere e decide le regole del mercato. Tutta la riflessione sugli effetti del cosiddetto sviluppo è stata possibile mettendo a fuoco particolari aspetti di questo fenomeno, che sono stati a un certo punto riconosciuti come violenti. Quanto sopra ci viene confermato dal fatto che il concetto di sviluppo sostenibile (→), che nasce proprio in seguito a questa riflessione e che può essere considerato il contrario dello sviluppo, così come questo viene inteso nella lingua standard, si basa su un modello di economia, che si realizzi senza la violenza strutturale. Anche i recenti studi sul genere, sulle problematiche relative all’oppressione e alla discriminazione delle donne, trovano nelle teorie di Galtung una solida base epistemologica e fanno spesso esplicito riferimento al concetto di violenza strutturale. Betty Reardon, in uno dei suoi numerosi studi sulle problematiche del genere, afferma:
Oppression is the most significant manifestation of structural violence. Most frequently it is based on sex, race, class and, in some cases, on culture, age or politics. […] If, as asserted by such peace researchers as Johan Galtung, it is true that all unequal relations are essentially conflictual, there has been a battle between the sexes since the earliest days of civilisation448.
447 Per una trattazione della connessione tra sviluppo economico e violenza strutturale cfr. Galtung 1996, pag. 197 e segg.
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Un aspetto della violenza strutturale dei tempi recenti è dato dalla condizione degli immigrati senza permesso di soggiorno. Per l‘irregolarità della loro posizione sono costretti a vivere ai margini della società, “invisibili” dal punto di vista legale, in quanto non possono rivendicare diritti negati o denunciare soprusi subiti, senza far emergere la loro situazione irregolare, che li rende particolarmente vulnerabili; per via di questa invisibilità è più facile lo sfruttamento di queste persone, che spesso non viene nemmeno denunciato dai media. Su questo nuovo aspetto della violenza strutturale, che coinvolge un rilevante numero di persone, destinato a crescere nei tempi prossimi, si sofferma Grubner in un suo contributo, in cui viene focalizzata la situazione delle donne immigrate e in particolare di quelle assunte come aiuto domestico in case private449.
Dal punto di vista linguistico è interessante il termine in tedesco che la studiosa propone per designare questo tipo di violenza, akteurslose Gewalt, violenza senza attori, mentre per la violenza diretta la studiosa riprende un termine pure usato da Galtung, personal violence, reso in tedesco come personalisierte Gewalt, violenza personalizzata450. Nella teoria di Galtung l’origine della violenza diretta viene individuata nella frustrazione che provoca la violenza strutturale, per i deficit che crea nei bisogni primari dell’individuo; il violento è pertanto a sua volta una vittima. Nello studio della Grubner invece viene evidenziato come nel caso di queste donne la violenza strutturale, che si manifesta appunto nella loro condizione di esclusione e oppressione, sia anche la causa della violenta diretta che spesso devono subire, proprio perché non possono difendersi con mezzi legali. Si dimostra quindi come la violenza strutturale possa non solo sfociare nella violenza diretta della parte più debole, ma anche aprire la strada a quella della parte socialmente e/o economicamente più forte, in un mondo sempre più diviso tra inclusi ed esclusi451.
449 Questa riflessione su violenza e donne migranti si colloca all’interno di un più ampio discorso sulle differenze di genere, sul lavoro domestico come occupazione sottopagata, o per nulla pagata, tradizionalmente visto come un ovvio, scontato lavoro delle donne. Cfr. Grubner 2009.
450 Cfr. Grubner 2009, pag. 195; cfr. Galtung 1969 pag. 173.
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CITTADINANZA GLOBALE
Categoria
grammaticale Locuzione sostantivale, sostantivo derivato femminile, attributo
Origine Il concetto di cittadinanza globale comincia ad affermarsi
negli ultimi decenni del XX secolo nell’ambito di un’ampia riflessione, che porta a indagare sui vantaggi e sui limiti del fenomeno della globalizzazione.
Definizione In questo concetto di cittadinanza confluiscono sia
l’obiettivo di una partecipazione attiva e responsabile alla vita politica e sociale, che una nuova consapevolezza dell’interdipendenza di tutti i Paesi dal punto di vista economico e ambientale, che porta a guardare oltre le problematiche riferite ai singoli Stati. La cittadinanza pertanto diventa globale, interculturale e sopranazionale, in un’ottica olistica, tipica della cultura di pace, che ci permette di individuare le interrelazioni dei vari aspetti e fenomeni del mondo piuttosto che vederli separatamente e contrapposti tra loro. Questa visione porta al tempo stesso al riconoscimento dell’eguale valore e dignità delle particolarità locali, e rifiuta ogni tendenza egemonica e ogni pretesa di superiorità di una cultura su altre.
La capacità di agire da cittadini globali, supportata da adeguate competenze e conoscenze dei fattori di interdipendenza di cui sopra, è l’obiettivo dell’educazione alla cittadinanza globale, la quale si inserisce nell’ambito dell’educazione alla pace.