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Diritto e prove penali nello specchio del concorso esterno in associazione mafiosa

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Indice

Introduzione

I Capitolo: La fattispecie associativa e il concorso esterno in

associazione mafiosa

1. La “contiguità” criminale dal XVI secolo ad oggi p. 6 2. La condotta partecipativa e il concorso di persone nel reato p.17 2.1 Le teorie sulla non configurabilità delle condotte concorsuali nei reati

associativi p. 20

3. Associazione per delinquere e associazione di stampo mafioso p. 22 3.1 Gli elementi costitutivi del reato di associazione per delinquere ex art. 416 c.p.

p. 25

3.2 Gli elementi costitutivi del reato di associazione di stampo mafioso ex art. 416

bis c.p. p. 28

4. La condotta partecipativa tra modello causale e modello accusatorio p. 34 4.1 La “struttura mista” del reato di associazione mafiosa: l’elemento

organizzativo p. 35

5. Le ipotesi di contiguità mafiosa tipizzate all’interno dell’ordinamento giuridico

5.1 Il reato di favoreggiamento personale ex art. 378 c.p. p. 43

5.1.1 Le differenze tra il favoreggiamento, la condotta partecipativa e il concorso

esterno in associazione mafiosa p. 46

5.2 Il reato di assistenza agli associati ex art. 418 c.p. p. 49

5.2.1 L’assistenza agli associati rispetto al favoreggiamento p. 51

5.3 La circostanza aggravante ex art. 7 d.l. 152/1992 p. 52

5.3.1 Il rapporto tra la circostanza aggravante e il concorso nel reato associativo p. 57

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II Capitolo: Il concorso esterno in associazione mafiosa e la sua

evoluzione giurisprudenziale

1. Dieci anni d’indecisione giurisprudenziale p. 62 2. La prima pronuncia a Sezioni Unite: il “caso Demitry” p. 67 2.1 L’atipicità della condotta esterna: il concorso nell’altrui partecipazione e lo

status di fibrillazione dell’associazione p. 70

2.2 Il difficile inquadramento dell’elemento soggettivo del reato p. 74 3. Un passo indietro nell’affermazione del concorso esterno: due decisioni vicine nel tempo, ma totalmente discordanti

3.1 La pronuncia della V Sezione penale della Corte di Cassazione p. 76 3.2 Il “caso Villecco”: il concorso eventuale non è riscontrabile p. 79 3.2.1 Il rapporto tra il concorso materiale e il concorso morale p. 82 4. Uno nuovo intervento delle Sezioni Unite: il “caso Carnevale” p. 85 4.1 La partecipazione in associazione mafiosa e il concorso esterno: il dolo diretto

p. 87

4.2 Una peculiare ipotesi di concorso eventuale: l’aggiustamento di processi p. 90 4.3 Il segreto d’ufficio della camera di consiglio p. 92

5. L’accordo elettorale politico-mafioso: il “caso Mannino”

5.1 L’iter giudiziario p. 97

5.2 La decisione delle Sezioni Unite alla luce della sentenza “Franzese” p. 99 5.3 L’art. 416 ter c.p. e il patto di scambio favori/voti p. 106

5.4 Le modalità di manifestazione dell’accordo politico-mafioso e i limiti del

previgente art. 416 ter c.p. p. 115

6. Il “caso Dell’Utri” p. 126

6.1 La condotta concorsuale e la “teoria della strumentalità” p. 130

6.2 Il concorso esterno come reato permanente e il “doppio coefficiente

psicologico” p. 134

7. La mafia e il mondo imprenditoriale p. 137 7.1 Gli accordi di protezione tra mafia ed imprenditori p. 139

7.2 Imprenditore-vittima ed imprenditore colluso p. 142

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III Capitolo: Il concorso esterno alla prova del processo

1. Prove penali e “giusto processo” p. 149

2. Le deroghe al contraddittorio in tema di formazione della prova: l’art. 190

bis c.p.p. p. 155

3. Le deroghe al contraddittorio in tema di circolazione della prova: l’art. 238

c.p.p. p. 161

4. Le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni p. 165 5. La rilevanza probatoria delle massime di esperienza p. 174 5.1 Le regole dell’esperienza nell’interpretazione dell’accordo elettorale

politico-mafioso alla luce della recente riforma dell’art. 416 ter c.p. p. 182

6. La chiamata in correità dei collaboratori di giustizia p. 190 6.1 L’attendibilità del collaboratore di giustizia e i “riscontri estrinseci” p. 195 6.2 Le dichiarazioni de relato e la mutual corroboration p. 203

7. L’inquinamento della prova testimoniale e l’istituto delle contestazioni ex

art. 500, 4° comma c.p.p. p. 212

7.1 L’art. 500 c.p.p. tra riforma del giusto processo e pronunce della Corte

Costituzionale p. 213

7.2 L’ accertamento della condotta illecita nei processi avverso la criminalità

organizzata: l’art. 111, 5° comma della Costituzione e l’art. 500, 4° comma c.p.p.

p. 218

8. La compatibilità del “doppio binario” con l’art. 6 e l’art. 7 della C.e.d.u. p. 225

Conclusioni

Bibliografia

Ringraziamenti

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Introduzione

Il concorso esterno in associazione mafiosa è entrato a far parte dell’ordinamento giuridico italiano attraverso l’elaborazione dell’autorità giudiziaria chiamata a fronteggiare il dilagante fenomeno della contiguità mafiosa. L’attento studio dell’evoluzione delle associazioni mafiose ha permesso di scoprire che oggi l’attività criminale viene perpetrata anche grazie all’apporto di persone estranee al sodalizio (i cc.dd. punciuti) che, se si pretendesse di applicare la fattispecie associativa, andrebbero esenti da pena poiché essi non sono affiliati e non hanno neanche interesse a diventarlo. L’istituto del concorso eventuale nasce proprio con lo scopo di perseguire quelle condotte che non integrano i requisiti dell’art. 416 bis c.p., ma che risultano comunque significative per la conservazione o il rafforzamento delle cosche mafiose.

Vedremo nel corso della trattazione che detta ipotesi delittuosa ha preso forma nelle aule di giustizia poiché, in assenza di una definizione normativa, sono stati gli organi giudicanti a doverne definire gli elementi costitutivi. Partiremo, dunque, dall’analisi dell’istituto concorsuale in rapporto alla fattispecie associativa di cui all’art. 416 bis c.p. per poi vedere come esso si sia sviluppato, mediante le decisioni della Corte di Cassazione, in relazione alle singole ipotesi di concorso esterno.

A causa della suddetta carenza di tipicità, per circa vent’anni in giurisprudenza si sono alternati orientamenti completamente discordanti l’un con l’altro proprio per via del fatto che era il giudice a stabilire di volta in volta se il caso concreto integrasse o meno i requisiti del concorso eventuale.

Analizzeremo, quindi, gli istituti processuali essenziali ai fini dell’accertamento di siffatti reati, dalla collaborazione giudiziale alle contestazioni ex art. 500 c.p.p.,

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senza tralasciare l’importanza data alle massime di esperienza, fonte imprescindibile di conoscenza del fenomeno mafioso. In simili procedimenti, infatti, il contesto ambientale in cui il reato è commesso assume primaria rilevanza giacché permette di interpretare circostanze e condizioni che altrimenti risulterebbero prive di significato.

Noteremo, altresì, che la difficoltà di ottenere un riscontro della contiguità mafiosa e l’alto rischio di inquinamento delle fonti di prova resero indispensabile il ricorso al c.d. doppio binario, ossia un insieme di regole processuali che, seppur parzialmente in deroga al principio del contraddittorio, mirava a rendere più agevole la prova nel processo del concorso esterno e dei reati di mafia in generale. A tale scopo, furono introdotti istituti probatori ed investigativi utilizzabili solo ed esclusivamente nei procedimenti aventi per oggetto reati di particolare gravità quali, appunto, i delitti di stampo mafioso.

Un confronto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo fu, pertanto, inevitabile perché l’adozione di uno schema procedurale differenziato in relazione al reato contestato avrebbe potuto condurre ad un’insostenibile lesione del principio di uguaglianza.

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I capitolo: La fattispecie associativa e il concorso esterno in

associazione mafiosa

1. La “contiguità” criminale dal XVI secolo ad oggi

L’art. 416 bis c.p. entra a far parte dell’ordinamento giuridico italiano con la legge n. 646 il 13 settembre del 19821 con lo scopo di perseguire il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso.

La data dell’attuale formulazione della fattispecie non deve trarre in inganno in quanto il nostro ordinamento combatte l’associazionismo criminale da molto più tempo. Contestualmente a tal fenomeno, emersero immediatamente varie forme di contiguità criminale che oggi sarebbero sanzionate alla stregua del concorso esterno in associazione mafiosa.

A partire dal XVI secolo in tutta Europa si sviluppò il cosiddetto “banditismo”, una forma antesignana di criminalità organizzata.

In Italia questo fenomeno venne vissuto con maggiore difficoltà poiché dal punto di vista sociale metteva a dura prova la già precaria stabilità politica degli Stati in via di formazione. Prova ne sia che il banditismo continuò a imperversare sul territorio italiano per tutto il XIX secolo quando nel resto d’Europa era già stato ridotto sotto il livello di guardia2.

E’ possibile affermare, dunque, che la lotta giudiziaria contro le associazioni mafiose, iniziata nella seconda metà del XIX, si basò proprio sulle tecniche repressive tipiche della lotta al banditismo.

1 L. 13 Settembre 1982, n. 646, Misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, in banca-dati Normattiva

2 C. Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, Giappichelli Editore, 2003, p.

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All’epoca si contrapponevano due correnti di pensiero principali che delineavano i caratteri di questo fatto criminoso in modo molto diverso.

La prima sottolineava l’esigenza di dar vita ad un diritto speciale che si occupasse solo ed esclusivamente della lotta all’associazionismo.

La seconda, invece, riteneva più opportuno integrare il banditismo all’interno del diritto “ordinario” mediante la creazione di una nuova fattispecie criminosa. Questo avrebbe garantito una maggiore compatibilità con il sistema complessivo.

Con il tempo andò affermandosi l’idea che il banditismo costituisse un crimine a sé e così emerse una categoria criminosa a sé stante in grado di riassumerne i connotati: il latrocinium3.

A fianco di questo nuovo reato, nacque l’istituto della receptatio4 con lo scopo di punire il comportamento di coloro i quali, pur non essendo banditi, prestavano loro assistenza.

La discussione in merito alla pena da infliggere ai receptatores durò a lungo e si inserì in dibattiti dottrinali che già da tempo ruotavano attorno al concorso criminoso e alle varie forme di complicità nel delitto.

Le condotte di “ausilio” alle bande organizzate presentavano un grado di problematicità maggiore, poiché il loro inquadramento veniva influenzato dalla nascente prospettiva di punibilità delle organizzazioni dedite al delitto, indipendentemente dalla realizzazione dei singoli fatti criminosi.

L’esperienza della receptatio portò, in seguito, all’affrancamento dal concorso criminoso degli attuali reati di “favoreggiamento” e “ricettazione”.

3

L. Lacchè, Latrocinium. Giustizia, scienza penale e repressione del banditismo in antico regime, Milano, Giuffrè, 1998, p. 23

4 L. Lacchè, Latrocinium. Giustizia, scienza penale e repressione del banditismo in antico regime,

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Fu l’esigenza politico-criminale di fronteggiare la contiguità al brigantaggio e il fiancheggiamento alle forme di criminalità organizzata, a condurre ad una prima codificazione di fattispecie incriminatrici ad hoc.

Un primo riferimento va fatto al codice penale del Regno delle Due Sicilie del 18195. Esso non presentava ipotesi speciali di complicità con riferimento al banditismo e al brigantaggio, nonostante questi fenomeni fossero previsti nella parte speciale del codice.

L’art. 154 del codice penale napoletano prevedeva la “comitiva armata” composta da almeno tre persone perseguibili per il solo fatto della sua costituzione.

A fianco di questa disposizione troviamo poi l’art. 159 in cui si prevedeva che «coloro che scientemente e volontariamente somministrano armi, munizioni, strumenti di reato, alloggio, ricovero o luogo di riunione alle comitive armate, o alle loro divisioni o individui, benché non ancora abbian commesso misfatti o delitti, saranno puniti colla reclusione: salve sempre le disposizioni che li assoggettassero a pene maggiori per la loro complicità».

Tale disposizione indica senza equivoci l’autonomia della responsabilità del soggetto estraneo rispetto ai singoli reati commessi dai membri della comitiva.

Il legislatore del tempo dimostrò una forte maturità concettuale nel distinguere le condotte penalmente rilevanti sotto più profili. Da un lato, diversificò le condotte associative da quelle di sostegno esterne, dall’altro sottolineò la differenza tra chi agisce come complice nell’associazione da chi fornisce un sostegno inquadrabile nel mero fiancheggiamento.

5 Codice per lo Regno delle Due Sicilie (1819). Parte Seconda. Leggi Penali, Padova, Cedam,

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Fin dal principio emersero problematiche probatorie: era, infatti, complesso dimostrare il collegamento tra la condotta dell’estraneo e la realizzazione dei singoli crimini; ma, soprattutto, risultava di difficile individuazione il requisito psicologico necessario per incriminare l’extraneus. Da ciò conseguiva una ponderazione particolarmente attenta del trattamento sanzionatorio rimessa alla valutazione discrezionale dei giudici.

Onde, però, evitare di lasciare troppa libertà agli organi giudicanti, si cominciò a riflettere sul significato e sul grado di partecipazione psicologica di coloro che si avvicinavano al fenomeno criminoso.

Per la prima volta affiorò l’idea che colui che forniva un utile apporto dovesse avere, ai fini della sua punibilità, la consapevolezza del fatto che quell’individuo facesse parte della comitiva6.

A fianco del codice napoletano è interessante osservare l’esperienza toscana. Il codice del 18537 non prevedeva alcuna forma di incriminazione ad hoc delle condotte di ausilio al sodalizio criminoso e, tuttavia, vi trovavano spazio le fattispecie di favoreggiamento e ricettazione.

La prima puniva la condotta di chi, dopo il fatto, aiutava l’autore ad assicurarsi il profitto illecito o ad eludere l’autorità giudiziaria.

La seconda perseguiva il comportamento di chi fornisse alloggio o acquistasse o favorisse lo smercio di oggetti derivanti da delitti quali il furto, l’estorsione, la pirateria, la truffa, la baratteria marittima o la frode.

6 C. Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, cit., pp. 25-30 7 Codice Penale del Granducato di Toscana (1853), Padova, Cedam, 1995

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A seguito dell’unificazione italiana, il Governo dovette affrontare l’enorme diffusione del banditismo su tutto il territorio, in particolare nelle regioni meridionali8.

Celebre fu la Legge Pica9, promulgata dal Governo Minghetti il 15 Agosto 1863 e rimasta in vigore fino al 31 Dicembre 1865. Questa legge ebbe lo scopo di contrastare il brigantaggio mediante l’istituzione di Tribunali Militari e il conferimento di vasti poteri repressivi alle forze armate.

In quel periodo ostacolare comportamenti conniventi con le bande criminali era persino più importante che combattere i “banditi” stessi. Si era, infatti, creata una rete di legami stabili tra i membri di tali associazioni e gli abitanti di quelle zone.

Fu proprio in quegli anni che si ebbe la prima forma di riconoscimento giurisprudenziale del moderno concorso esterno in reato associativo.

Si ricordano, in particolare, due sentenze della Corte di Cassazione di Palermo che nel 1875 si pronunciò nei confronti di alcuni soggetti accusati di favorire la Banda Capraro, a quei tempi molto temuta nel territorio siciliano10.

Il Codice Albertino del 183911, rivisto nel 185912 e successivamente applicato su tutto il territorio italiano nel 1861, prevedeva all’art. 429 la punibilità di condotte quali la somministrazione di armi, munizioni, strumenti di reato, ricovero e alloggio. Si trattava di un “complicità necessaria presunta” poiché non

8 R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio, Bologna, Il Mulino, 1980,

p. 95. Nelle regioni meridionali la situazione era particolarmente delicata. Dimostrare la responsabilità penale per il reato di brigantaggio era estremamente difficile, proprio per via del supporto che i “briganti” trovavano nei cittadini stessi.

9 L. Pica, 15 Agosto 1863, Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Province infette, n. 1409

10 Corte di Cassazione di Palermo, sez. pen., 17 giugno 1875, Ciaccio Agostino e compagni, in Indice penale, 2000, pp. 421-425; Corte di Cassazione di Palermo, sez. pen., 1 luglio 1875, Russo

Antonino, in Indice penale, 2000, pp. 425-429

11 Codice penale per gli stati di S. M. Il re di Sardegna (1839), Padova, Cedam, 1993

12 S. Vinciguerra, I codici penali sardo-piemontesi del 1839 e del 1859, in S. Vinciguerra (studi

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si richiedeva la dimostrazione del nesso eziologico tra il servizio reso e l’attività della banda. Ciò permetteva di punire severamente coloro che cooperavano con essa, anche se il trattamento loro riservato era comunque inferiore rispetto a quello previsto per i direttori o i membri effettivi del sodalizio.

Qualora la condotta incriminata non avesse integrato uno dei casi tassativamente elencati all’art. 429, era possibile ricorrere all’ art. 103 che qualificava come complici «coloro che senza essere immediati esecutori del reato, avranno scientemente aiutato, o assistito l’autore o gli autori del reato nei fatti che lo hanno preparato, o facilitato, o consumato».

La Corte di Cassazione, partendo da tali riferimenti normativi, affermò che le condotte incriminate - concretizzatesi nel fornire vettovaglie e abiti, nello spiare i movimenti delle forze armate e nel permettere la comunicazione mediante corrispondenza tra i membri della banda – integravano la previsione generale dell’art. 103, più che dell’art. 429.

La Corte sostenne che se avesse inquadrato i comportamenti incriminati all’interno della fattispecie di cui all’art. 429, il trattamento sanzionatorio sarebbe stato eccessivamente gravoso, poiché gli autori di fatti posteriori al reato avrebbero subito la stessa pena dei membri effettivi dell’associazione.

L’organo giudicante rifletté sulla ricostruzione della fattispecie del reato associativo nella speranza di estendere il più possibile la sanzionabilità di ogni tipo di sostegno “sociale” alle bande.

In questo modo il concorso criminoso assunse una funzione incriminatrice ancillare rispetto ai singoli reati, nel senso che l’art. 429 venne utilizzato per punire in una logica di necessarietà le condotte tipizzate di assistenza alle bande

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armate, mentre l’istituto concorsuale ex art. 103 divenne lo strumento per punire tutti quei comportamenti che altrimenti sarebbe andati esenti da sanzione13.

Nei ragionamenti della Corte emerse per la prima volta il concetto di “concorso esterno” poiché ci si rese conto della capacità di queste associazioni di reperire diversi tipi di sostegno senza che questi si traducessero nella volontà di entrare a far parte del sodalizio.

La punibilità a titolo di partecipazione nella banda poteva, infatti, aversi soltanto in presenza della volontà specifica del soggetto di divenirne membro effettivo.

La Corte sottolineò che persino l’eventuale patto stipulato tra un soggetto e l’associazione avente per oggetto la prestazione di servizi a favore di quest’ultima, non costituiva prova dell’adoperarsi in qualità di “associato”.

Un ulteriore passo in avanti fu fatto con il Codice Zanardelli14 del 1889, con il quale si giunse ad una vera e propria unificazione dell’Italia sotto il profilo della legislazione penale.

In quell’occasione il legislatore cercò di creare una fattispecie il più possibile unitaria e comprensiva di tutti i comportamenti che nel tempo erano stati ricondotti all’associazionismo criminale15. Nel tentativo di eliminare elementi normativi troppo specifici, prese forma l’art. 248 che puniva l’associazione intesa semplicemente come un accordo fra più persone finalizzato alla commissione di delitti16.

Allo stesso tempo l’art. 249 mostrava sintonia con il modello piemontese e napoletano nella lotta alla “contiguità” criminale prevedendo espressamente il

13 C. Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, cit., pp. 45-48 14

P. Corso, L. Alibrandi (a cura di), Codice penale, Codice di procedura penale, Leggi

complementari, Codice Zanardelli, 2° edizione, Piacenza, La Tribuna, 2012 15 A. Ingroia, L’associazione di tipo mafioso, Milano, Giuffrè Editore, 1993, p. 8 16 G. Insolera, L’associazione per delinquere, Padova, Cedam, 1983, p. 43

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reato di “assistenza agli associati”. Questa norma faceva appunto riferimento a chi prestasse alloggio, ricovero e altre forme di sostegno elencatevi.

Giungiamo, infine, all’attuale Codice Penale Rocco17, frutto di un percorso legislativo durato cinque anni e promulgato il 19 Ottobre 1930 con Regio Decreto n. 1398.

Questo codice abbandona totalmente ogni riferimento a strutture associative specifiche, per prediligere una fattispecie generale ed astratta che risulti più flessibile e più facilmente applicabile ad ogni forma di criminalità collettiva18.

Possiamo riscontrare un’importante novità nel numero dei membri necessari per poter parlare di fenomeno associativo. Il Codice Zanardelli richiedeva la presenza di almeno cinque persone mentre il Codice Rocco ne pretende soltanto tre.

Durante l’evoluzione legislativa dello Stato italiano, il fenomeno mafioso si era fortemente affermato tanto che già prima dell’entrata in vigore del Codice Zanardelli il legislatore si era detto consapevole della necessità di distinguere il brigantaggio e il banditismo da ciò che poi fu definito “associazione di stampo mafioso”.

Per questo motivo, all’entrata in vigore del Codice del ’30, vi furono notevoli discussioni in merito alla possibilità di applicare la disciplina dell’associazione per delinquere alla mafia19. Questo perché, mancando un riferimento specifico alle singole associazioni, ci si domandava se la mafia in quanto tale potesse essere considerata un’associazione punibile ai sensi del nuovo Codice Penale.

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Codice Penale Rocco, r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398, è stato pubblicato nella G.U. del Regno, 26 ottobre 1930, n. 251

18 G. Insolera, L’associazione per delinquere, cit., p. 63. Con l’entrata in vigore del Codice Rocco

il vincolo associativo diviene reato quando, con la sua generica indeterminatezza, costituisce un pericolo permanente per l’ordine pubblico.

19 F. U. Blasi, Il reato di associazione per delinquere nel codice vigente e nel progetto del nuovo codice penale, in Giurisprudenza italiana, 1930, p. 225-227; G. M. Puglia, Il mafioso non è un associato per delinquere, in Scuola positiva, I, 1930, pp. 452-457

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E’ necessario attendere il 1982 per veder inserita nella trama codicistica la fattispecie di “Associazioni di tipo mafioso anche straniere” (art. 416 bis) 20.

L’introduzione di tale norma conclude un percorso storico durato decenni durante il quale il legislatore è entrato in contatto con diverse forme di espressione della criminalità organizzata. I concetti derivanti dalla prassi si traducono in un articolo che formalizza un elemento costitutivo essenziale e affermatosi da tempo in giurisprudenza: la forza d’intimidazione.

Si tratta di un fattore che racchiude in sé la pericolosità sociale dell’associazione mafiosa, la quale ritrova proprio in tale forza lo strumento essenziale per relazionarsi con i cittadini.

Come precedentemente detto, l’art. 416 bis c.p. non fa altro che tipizzare un elemento costitutivo del reato già da tempo riscontrabile in varie pronunce giurisprudenziali.

La Corte di Cassazione, infatti, in più occasioni aveva avuto modo di farlo emergere. Per esempio nella prima metà del secolo scorso aveva definito come violenza privata operata da un mafioso il comportamento di chi, alloggiando in un albergo, non avesse saldato il conto finale pur non operando alcuna minaccia o violenza espressa.

Ad integrare un siffatto elemento fu ritenuto sufficiente il timore ingenerato nei gestori del locale di subire ritorsioni. Essi, consapevoli del rapporto dell’ospite con la malavita, non tentarono neanche di chiedere il pagamento dovuto e

20 Articolo inserito ex l. 13 Settembre 1982, n. 646, Misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, art.

1, rubrica successivamente modificata ex art. 1, c. 1, lett. b-bis, d.l. 23 Maggio 2008, n. 92, conv. in l. 24 Luglio 2008, n. 125, Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica

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subirono l’illecito comportamento di costui a causa della fama criminale del sodalizio di cui egli faceva parte21.

Esistono tre sodalizi criminosi storici in Italia – mafia siciliana, ‘ndrangheta e camorra – ognuno con caratteristiche diverse, ma interessati ad acquisire un controllo pressoché totale sul territorio e basati su di un accordo associativo stabile e segreto.

La mafia segue un modello di tipo “gerarchico-piramidale”: alla base dell’organizzazione vi sono le “famiglie”, ognuna con un “capo famiglia” e i propri “uomini d’onore”. Esse sono estremamente ancorate al territorio e rispondono alla c.d. ”cupola”, composta dai rappresentanti delle famiglie contigue e presieduta dal “capo commissione”22. In un simile contesto, le attività cosiddette parassitarie vengono svolte sul territorio locale, mentre quelle di riciclaggio o reinvestimento si hanno prevalentemente su base internazionale.

La ‘ndrangheta, invece, è un’organizzazione sviluppatasi intorno a singoli nuclei familiari particolarmente diffidenti nei confronti di intromissioni provenienti dall’esterno. Essa realizza attività illecite, indifferentemente sul piano locale e internazionale, nelle quali è costante l’impiego della forza estorsiva, tuttavia la sua potenzialità criminogena deve essere ravvisata nella capacità di intessere relazioni con il mondo politico ed imprenditoriale.

Da ultimo la camorra che, ancora estremamente frammentaria, è caratterizzata da una pluralità di realtà criminali autonome, spesso in contrasto tra loro. Esse

21 Corte di Cassazione, II sez. pen., 30 marzo 1931, Balla e altri, in Giustizia penale, I, 1931, pp.

1265-1274

22 N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari nell’Italia repubblicana. 1943-1991, Roma-Bari, Editori

Laterza, 1992, p. 300; G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 114-115. I capi delle famiglie di una stessa provincia eleggono un “rappresentante provinciale” (salvo a Palermo dove più famiglie contigue sono controllate da un «capo mandamento» che è membro della “commissione provinciale”). A sua volta, i rappresentanti provinciali eleggono un rappresentante regionale che entra a far parte del vero organo di governo di Cosa Nostra, ossia della “Cupola”.

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agiscono prevalentemente su piano locale e sono particolarmente capaci di inserirsi in vari settori dell’economia e della vita sociale23.

A ciò si aggiungono i legami e le collaborazioni sempre più frequenti con organizzazioni straniere (cc.dd. intermafiosità) e la tendenziale assunzione del carattere di transanazionalità che porta queste associazioni ad inserirsi in aeree geografiche politicamente ed economicamente instabili grazie ad accordi con i gruppi criminali locali.

Emerge la capacità di queste organizzazioni di infiltrarsi nell’economia nazionale, negli appalti pubblici e in qualsiasi altra attività legale; mostrano una certa duttilità nell’adattarsi ai processi di modernizzazione della società, pur mantenendo la rigidità del legame associativo e senza per questo perdere l’occasione di investire in settori transnazionali.

Da ciò deriva l’ampliamento della “zona grigia”; il confine tra lecito ed illecito continua a ridursi a causa dell’abilità delle organizzazioni di procurarsi all’esterno forme di collaborazione, specialmente in ambito istituzionale e politico24. Il che implica l’aumento delle difficoltà, cui va incontro l’autorità giudiziaria, nel dimostrare l’illiceità di tali legami. Le associazioni risultano in grado di mutare

23 Rapporto sulla criminalità in Italia anno 2006, a cura del Dipartimento di pubblica sicurezza, in

www.interno.gov.it, 22 giugno 2007

24 R. Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove, Roma, Donzelli Editore, 2009, p. 114. La c.d. “zona

grigia” si distende tra chi è contro la mafia e chi invece è con la mafia. Ciò spiega la ragione per cui si ha la necessità di individuare una linea di demarcazione tra chi è vittima e chi è complice delle associazioni criminali; Varese, Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista

nuovi territori, Torino, Einaudi, 2011, p. XIII. La mafia è in grado, ormai, di inserirsi

perfettamente nell’economia legale; ciò complica notevolmente l’attività di accertamento dal momento che risulta difficile distinguere chi effettivamente subisce un pregiudizio, da chi invece ne ricava un vantaggio.

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continuamente il tipo di contributo esterno di cui si avvalgono rendendone, dunque, complicato l’accertamento processuale25.

2. La condotta partecipativa e il concorso di persone nel reato

Fin dalla nascita dei reati associativi si sono contrapposti due orientamenti in relazione alla configurabilità del concorso criminoso in queste ipotesi.

La domanda cui gli studiosi hanno da sempre cercato di rispondere è se sia possibile applicare la normativa del concorso di persona nel reato quando la natura stessa della fattispecie associativa presenta il carattere della plurisoggettività.

Tanto l’art. 416 c.p., che disciplina il reato di “associazione per delinquere”, quanto l’art. 416 bis c.p., che si occupa del reato di “associazioni di tipo mafioso anche straniere”, richiedono la presenza di almeno tre persone per integrare la fattispecie criminosa. Si tratta di “reati plurisoggettivi propri” per i quali il legislatore prevede espressamente la punibilità di tutti i compartecipi26.

Le prime obiezioni vennero mosse a partire dal fatto che l’istituto del concorso di persone nel reato appariva inconciliabile con una fattispecie che già postulava la partecipazione necessaria di più persone.

Tuttavia è innegabile la differenza tra la partecipazione in un’associazione e il semplice concorso di persone nel reato.

Prima di tutto il reato associativo prevede un accordo peculiare. Si tratta di un accordo duraturo, tanto da poterlo definire a tempo indeterminato, avente ad

25

M. Petrini, Il progressivo ampliamento del concetto di associazione mafiosa, in Bargi (a cura di), Il «doppio binario» nell’accertamento dei fatti di mafia, Torino, Giappichelli Editore, 2013, pp. 3-6.

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oggetto non solo la commissione di delitti, ma anche la collaborazione stabile con l’associazione.

Ciò significa che gli associati aderiscono ad un programma criminoso che non riguarda soltanto la realizzazione di reati nell’immediato, ma implica la disponibilità continuativa dei membri e la progettazione di reati futuri quantitativamente indeterminati27.

L’organizzazione associativa in questo caso è un elemento essenziale, così come è indispensabile che essa sia adeguata alla commissione di un numero indefinito di delitti28.

Per contro, il semplice concorso non richiede né il previo accordo, dal momento che la condotta concorsuale può realizzarsi senza alcuna determinazione preventiva nell’immediato dell’azione, né la reciproca volontà di concorrere. Tanto che il concorso potrebbe anche essere unilaterale, ossia senza che uno dei compartecipi sappia dell’apporto altrui29.

Qualora vi fosse l’accordo tra i concorrenti, questi sarà rivolto alla realizzazione di un singolo reato o tutt’al più a un numero limitato di crimini. Mancherebbe dunque la disponibilità duratura e un patto criminoso destinato a protrarsi senza un termine ben preciso.

Altro elemento di differenziazione è ricavabile dall’art. 115 c.p. che esclude la punibilità di coloro che si accordano al fine di commettere un delitto senza che tale intento giunga a compimento. A differenza del reato di associazione per delinquere, dove ai sensi dell’art. 416, 1° comma c.p. gli associati verranno puniti

27 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale,vol. 1, Bologna, Zanichelli Editore, 2002,

p. 466; G. De Francesco, L’associazione per delinquere e l’associazione di tipo mafioso, in

Digesto delle discipline penalistiche, Torino, Utet, 1987, p. 292

28 A. Cavaliere, Il Concorso Eventuale nel Reato Associativo, Napoli, Edizioni Scientifiche

Italiane, 2003, pp. 161-162

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per il solo fatto di costituire la struttura associativa, la disciplina del concorso di persone nel reato non considera rilevante il mero accordo se non si concretizza nella realizzazione del reato oggetto del programma30.

Se quanto detto è vero, non vi è ragione di escludere la compatibilità tra i reati plurisoggettivi necessari e le disposizioni sul concorso di persone. Questo anche ai fini di un’estensione delle condotte punibili. L’art. 110 c.p. potrebbe rivelarsi fondamentale nel sanzionare condotte atipiche che altrimenti non andrebbero incontro ad alcuna conseguenza punitiva.

E’ chiaro che potranno esserci delle eccezioni dovute alla presenza di disposizioni che regolano autonomamente alcuni aspetti della materia. Si pensi all’ipotesi dell’aggravante prevista all’art. 112, 1° comma, n. 1 c.p. che rende la pena più gravosa qualora a concorrere nel reato siano «cinque o più» soggetti. Dal momento che l’art. 416 c.p. già richiede la presenza di «tre o più persone» e al 5° comma prevede un’aggravante speciale in caso di «dieci o più» associati, si è consolidata l’interpretazione secondo la quale non vi è spazio applicativo per la disposizione generale contenuta nell’art. 112 c.p. 31

30 G. Insolera, L’associazione per delinquere, cit., pp. 241-242 e p. 280; F. Viganò, Oltre l’art. 416-bis: qualche riflessione sull’associazione con finalità di terrorismo, in G. Fiandaca e C.

Visconti (a cura di), Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Torino, Giappichelli Editore, 2010, p. 182. L’associazione criminosa viene perseguita come reato autonomo, a prescindere dalla contestazione dei singoli delitti-scopo; questo esplica il motivo per cui l’incriminazione per partecipazione non assorbe quella per la commissione dei singoli reati; Corte di Cassazione, I sez. pen., 22 febbraio 1979, Pino e altri, in Giustizia penale, III, 1980, pp. 494-495. In questa pronuncia la Corte sottolinea che il tratto distintivo tra l’associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato è proprio l’accordo criminoso. Mentre nel concorso avviene in via occasionale oppure accidentale ed è diretto alla commissione di un numero determinato di reati, nell’associazione per delinquere l’accordo è diretto alla realizzazione di un programma criminoso avente per oggetto una serie indeterminata di delitti. Conseguentemente, nel concorso la realizzazione dei reati esaurisce l’accordo, mentre nell’associazione per delinquere il vincolo è permanente e il fine ultimo delle azioni di ogni affiliato è rappresentato dall’attuazione del programma criminoso. Non è, infatti, necessario che ogni membro concretamente commetta tutti i reati-scopo e non assume rilevanza l’eventuale mancata consumazione dei delitti previsti.

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2.1. Le teorie sulla non configurabilità delle condotte concorsuali nei reati associativi

L’aspetto più complesso della questione riguarda l’ipotesi di concorso esterno nelle fattispecie associative - specialmente di stampo mafioso - ossia quella forma di contributo apportato da chi non entra e soprattutto non vuole entrare a far parte dell’associazione.

I contrari all’applicazione dell’art. 110 c.p. alle fattispecie associative fanno leva sulla tendenziale impossibilità di distinguere sotto un profilo logico-giuridico la partecipazione “interna” dal concorso esterno. Ciò rende, a loro avviso, superfluo l’istituto concorsuale32.

Fra i fautori di questo pensiero troviamo Contento33; egli sosteneva che i reati associativi fossero la realizzazione plurisoggettiva di un’organizzazione stabile e permanente volta all’esecuzione di un programma criminoso. Il singolo che apporta il suo contributo è come se andasse ad integrare una fattispecie monosoggettiva caratterizzata sul piano oggettivo dalla disponibilità di svolgere i compiti assegnati e sul piano soggettivo dall’affectio societatis - ossia il voler divenire membro dell’associazione.

Allo stesso tempo, però, anche chi concorre nel reato presenta inevitabilmente un requisito psicologico tale da rendere la sua posizione poco distante o addirittura coincidente con quella del partecipe “interno”. Contento parte dal

32 C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale. Parte generale, vol. 2, Torino, Utet, 2002, p. 128; G.

Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, Zanichelli Editore, 2001, p. 128. Secondo i due Autori non è possibile partecipare o concorrere nel reato associativo senza essere parte tout court dell’associazione. Le stesse argomentazioni sono riproposte per negare la configurabilità del concorso esterno; il reato associativo richiede, per definizione, l’assunzione del ruolo di partecipe. Non è possibile ipotizzare la condotta di un esterno che contribuisca alla vita dell’associazione, poiché un tal tipo di condotta andrebbe a coincidere con quella di partecipazione.

33 G. Contento, Il concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi, in Ricerche CNPDF e CNR sulla parte generale del codice penale, Milano, 1983; ed ora in G. Spagnolo (a cura di), Scritti (1960-2000), Roma-Bari, 2002, pp. 100ss

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presupposto che il termine di riferimento della condotta concorsuale non debba mai essere l’evento, bensì l’azione o l’omissione che costituisce il fatto di reato. Ma l’azione od omissione implicano necessariamente un minimo coefficiente psicologico che può esser ricondotto al concetto di affectio societatis.

Un altro esponente delle teorie contrarie all’applicazione della disciplina concorsuale ai reati associativi è Insolera, il quale sottolinea la necessità che la condotta partecipativa presenti una certa rilevanza causale rispetto alla vita dell’associazione e che, per quanto riguarda il profilo concorsuale, il termine di riferimento sia l’organizzazione nel suo complesso. Per questa ragione si avrebbe una vera e propria sovrapposizione tra gli elementi costitutivi della condotta concorsuale e di quella partecipativa.

I criteri di definizione del contributo punibile, secondo Insolera, sarebbero esattamente gli stessi: o il contributo è significativo e adeguato rispetto alla struttura organizzativa e ai suoi scopi – e quindi si rientra nella fattispecie di partecipazione in associazione – oppure si fuoriesce dal penalmente rilevante34.

Egli sostiene che la soluzione migliore sarebbe quella di optare per apposite tecniche di tipizzazione di condotte contigue alle organizzazioni criminali che permettano di evitare il ricorso all’istituto del concorso esterno. Questo istituto causa un indebolimento del rigore dei principi di tassatività e determinatezza con l’irrompere di valutazioni intuitive che non trovano riscontri empirici in senso stretto.

34 G. Insolera, Problemi di struttura nel concorso di persone nel reato, Milano, Giuffrè Editore,

1986, p. 149; G. Insolera, Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di Stato e gli

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Una tipizzazione delle singole condotte penalmente rilevanti eviterebbe di dar peso a condotte atipiche che si arricchiscono di significato soltanto nelle more del processo e che non possono essere individuate ex ante35.

Laddove si seguisse l’opinione di chi non ammette la configurabilità del concorso nei reati associativi, inevitabilmente si dovrebbe escludere anche il concorso esterno. Questo porterebbe a due possibili conseguenze: la condotta dell’esterno non viene punita poiché non raggiunge il limite minimo di rilevanza penale; oppure viene punita a titolo di partecipazione causando un’equiparazione ingiustificata tra chi è membro effettivo e dà un apporto stabile e chi dà un apporto ipoteticamente solo occasionale o comunque privo del requisito dell’inserimento del soggetto nella rete dei rapporti associativi36.

3. Associazione per delinquere e associazione di stampo mafioso

Prima di affrontare il tema dell’associazione di stampo mafioso, osserviamo la norma generale di riferimento per i reati associativi.

L’art. 416 c.p. sancisce che «quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre e sette anni».

E’ interessante notare anche il secondo comma: «Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni».

35

G. Insolera, Qualche risposta agli interrogativi sollevati dal concorso esterno nell’associazione

mafiosa, in G. Fiandaca e C. Visconti (a cura di), Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Torino, Giappichelli Editore, 2010, p.126

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La dottrina prevalente considera questa fattispecie un reato di pericolo37. La norma realizza un’anticipazione della tutela incriminando tutte quelle condotte idonee ad originare il rischio della commissione dei fatti oggetto del programma criminoso, i c.d. delitti-scopo38.

Si parla, infatti, delle fattispecie associative come “criminogene” dal momento che la tutela è rivolta ai beni offesi dai delitti-scopo39; inoltre si ha una tutela penale a prescindere dalla realizzazione del piano criminoso40, nonostante ai fini degli accertamenti processuali la prova principe dell’associazione sia certamente la commissione del reato.

La domanda che sorge spontanea è fino a dove può estendersi tale anticipazione. Vi sono tre possibilità in termini di scelta politico-criminale.

La prima è quella di prevedere la punibilità delle condotte fin dal momento della formazione di un’associazione che abbia il fine di offendere beni giuridici tutelati dall’ordinamento.

La seconda consiste nell’intervenire sul contenuto della fattispecie associativa, così da rendere perseguibili soltanto le condotte che davvero risultino un pericolo per i beni oggetto di tutela. Ciò significherebbe considerare la semplice

37 T. Padovani (a cura di), Art. 416, in Codice penale, Milano, Giuffrè, 2000, p. 1918; G. Fiandaca,

E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 467. La ratio dell’inquadramento di tale fattispecie come reato di pericolo si spiega dal momento che la mera esistenza dell’associazione determina un potenziale pericolo per l’ordine pubblico; ne consegue che, ai fini della punibilità, non è necessaria l’effettiva realizzazione del piano criminoso.

38 G. De Vero, Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Rivista italiana diritto e procedura penale, 1993, p. 97

39 G. Insolera, L’associazione per delinquere, cit., p. 126; G. De Vero, Tutela penale dell’ordine pubblico. Itinerari ed esiti di una verifica dogmatica politico-criminale, Milano, Giuffrè Editore,

1988, p. 149. Le fattispecie “criminogene” collocano il proprio disvalore offensivo nel pericolo che determinati reati si verifichino. La giustificazione di una siffatta anticipazione di tutela va ricercata proprio nell’esigenza di garantire l’ordine pubblico.

40 G. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, cit., p. 294. E’

innegabile il disvalore offensivo che l’associazione è in grado di esprimere come entità autonoma e con una struttura organizzativa rivolta alla realizzazione di attività criminose.

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associazione come priva di una idoneità lesiva tale da giustificarne la rilevanza penale.

Infine l’idea di una riforma complessiva delle fattispecie associative, in quanto ad oggi si ha la punibilità di atti meramente preparatori in correlazione ad una pluralità di delitti indeterminati41.

L’opzione maggiormente avallata è la seconda e in particolare l’accento viene posto sull’elemento dell’organizzazione42. I reati associativi mirano a prevenire un pericolo non immediato che implica la realizzazione di un numero imprecisato di delitti-scopo. Quindi l’aspetto che più li caratterizza è proprio l’organizzazione in quanto tale.

Ciò spiega l’inciso contenuto nell’art. 416 c.p., che tanto ha fatto e fa tuttora discutere: per ciò solo. Queste parole esplicano perfettamente il concetto dell’anticipazione di tutela43.

Taluni definiscono i reati associativi come reati a consumazione anticipata più che reati di pericolo. Questo perché siamo di fronte ad un pericolo diffuso dovuto

41 A. Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo, pp. 68-72. L’Autore sostiene che la

prima delle tre possibilità non possa esser seguita, in quanto comporterebbe un’eccessiva dilatazione della sfera del penalmente rilevante. Anche la terza prospettiva non è soddisfacente, in quanto volta a sostituire i reati meramente associativi con tecniche di tutela improntate ad una maggior tipizzazione. Si tratterebbe ad esempio di sostituire l’art. 416 c.p. con diverse figure associative a seconda del programma criminoso e dei beni giuridici potenzialmente in pericolo. (In tal senso si esprime G. De Vero, Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, cit., pp. 111-112. La diversificazione dei reati associativi in funzione delle tipologie criminose permetterebbe di creare fattispecie costruite in relazione alle esigenze concrete a seconda di come il rischio di un pregiudizio si presenta ogni volta e nel pieno rispetto del principio di tipicità) Se la prima opzione rischia di estendere a dismisura il novero delle condotte penalmente rilevanti, la teoria appena esaminata rischia di limitare eccessivamente il raggio di azione dell’autorità giudiziaria. Quest’ultima non avrebbe più modo di perseguire condotte con una potenzialità lesiva attuale, ma non tipizzate.

42 G. De Vero, Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, cit., p. 110 43

G. Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., p. 53-54. L’associazione diviene punibile per la sua sola esistenza, a prescindere dall’effettiva commissione dei delitti scopo. Questo perché il sodalizio è un’entità autonoma e indipendente, la cui punibilità non dipende dalle attività rivolte alla realizzazione del piano criminoso.

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al rischio di commissione di una pluralità di delitti44. Ed è proprio il concretizzarsi di tale rischio a giustificare la tutela anticipata45.

Abbiamo già evidenziato in precedenza uno degli elementi di maggior differenziazione tra i reati associativi e l’istituto del concorso di persone. L’art. 115 c.p. esclude espressamente la punibilità del semplice accordo stipulato al fine di commettere più reati se poi tali propositi non vengono realizzati. In ossequio a tale disposizione le critiche mosse all’impostazione esaminata si fondano sul fatto che il pericolo sufficiente, ai fini della punibilità della condotta, sia individuabile già a livello di atti meramente preparatori.

Si è parlato di “consumazione anticipata” proprio perché l’art. 416 c.p. sembra considerare delitti consumati condotte meramente preparatorie. Sono penalmente rilevanti gli atti soltanto rivolti ad un fine criminoso, indipendentemente dal suo raggiungimento, proprio perché lo scopo è tutelare quei beni che subirebbero un pregiudizio in caso di sua realizzazione46.

3.1. Gli elementi costitutivi del reato di associazione per delinquere ex art. 416 c.p.

Giungiamo così ad analizzare gli elementi costitutivi del reato di “Associazione per delinquere”.

44 G. De Vero, Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, cit., pp. 108-109. L’associazione per

delinquere incorpora il pericolo diffuso dell’immanente realizzazione di una pluralità di reati corrispondenti al programma criminoso che l’organizzazione ha stabilito.

45 G. De Vero, I reati associativi nell’odierno sistema penale, in Rivista italiana diritto e procedura penale, 1998, p. 322

46 A. Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo, cit., pp. 43 ss e p. 90. L’Autore

sottolinea l’allarme sociale che desta la mera costituzione di un’associazione capace di preparare e commettere, con mezzi idonei, una serie di delitti quantitativamente indeterminati. La tutela anticipata è giustificata dalla volontà di difendere quei beni che verrebbero lesi dalla commissione dei delitti-scopo; M. Valiante, L’associazione criminosa, Milano, Giuffrè, 1997, pp. 33-35

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Prima di tutto l’accordo. L’art. 416 c.p. richiede la presenza di almeno tre persone che si associno sulla base di un accordo idoneo e presumibilmente capace di durare a tempo indeterminato. Inoltre deve avere per oggetto la realizzazione di delitti-scopo – con conseguente lesione di beni giuridici tutelati dall’ordinamento. Si richiede altresì che si instauri una cooperazione stabile con gli associati a dimostrazione della volontà criminosa dei singoli membri47.

Altro elemento costitutivo è il programma delittuoso. L’associazione già di per sé deve essere idonea a realizzare determinati e concreti reati, ma ciò non basta. Serve che sia adeguata a commettere ulteriori delitti quantitativamente indeterminati. Il programma delittuoso ha la funzione di indirizzare l’associazione delineando il profilo delle tipologie di delitti e di conseguenza i fini perseguiti48. Solo conoscendo tali aspetti, si può risalire alla sua idoneità lesiva49.

Infine abbiamo l’organizzazione, non espressamente prevista dall’art. 416 c.p. , ma che giurisprudenza e dottrina richiedono almeno in qualità di struttura minimale50.

Per “organizzazione” si intende una struttura organizzativa adeguata alla realizzazione degli obiettivi criminosi51. Si tratta di un vero e proprio “ordine

47 F. M. Iacoviello, Ordine pubblico e associazione per delinquere, in Giustizia penale, 1990, pp.

58-59; V. Patalano, L’associazione per delinquere, Napoli, Casa editrice Jovene, 1971, pp. 223-224; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. VI, Torino, Utet, 1983, p. 196. L’Autore sottolinea che, accertata la stabilità del vincolo, qualora l’associazione venga scoperta poco dopo la sua costituzione senza che abbia avuto l’occasione di realizzare il proprio programma, sarà comunque perseguibile.

48 F. M. Iacoviello, Ordine pubblico e associazione per delinquere, cit., p. 58

49 A. Cavaliere, Il concorso eventuale nei reati associativi, cit. p 117. Gli atti preparatori alla

realizzazione del programma criminoso devono avere, quantomeno in origine, un’idoneità, concretezza ed adeguatezza tale da far presumere che l’associazione abbia una seria capacità lesiva. Il programma definisce l’associazione perché ne individua il raggio di azione e permette di comprenderne gli obiettivi.

50 G. Contento, Corso di diritto penale. Volume secondo, Bari, Editori Laterza, 2004, p. 417 51

G: Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 466; De vero, Tutela dell’ordine

pubblico e reati associativi, cit., p. 106. Soltanto un apparato stabile e suscettibile di essere

utilizzato in modo permanente per la commissione di reati può rappresentare un concreto disvalore offensivo; G. De Francesco, L’estensione delle forme di partecipazione al reato: uno sguardo

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sociale”52 che l’associazione si dà; in questo modo risulta a tutti gli effetti un’entità autonoma rispetto ai singoli associati. L’organizzazione permette una ripartizione di ruoli e competenze e implica la predisposizione di mezzi adeguati al programma delittuoso.

Abbiamo già accennato al fatto che l’organizzazione deve risultare idonea alla realizzazione del piano criminoso53; il giudizio su tale idoneità deve essere eseguito in concreto. Ciò significa che non ci si può limitare a verificare soltanto gli strumenti che ha a disposizione, ma bisognerà osservarne l’utilizzo e persino la capacità di impiego degli stessi. Da tale esame si può comprendere se l’associazione si fonda su un accordo capace di restare in piedi a tempo indeterminato o meno54.

Ciò detto emerge l’obiezione che, nonostante tutti gli elementi esaminati siano essenziali ai fini della punibilità, la mera assunzione di ruoli e competenze non possa essere sufficiente. Anche per evitare di ridurre i mezzi di prova alle sole dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, si ritiene necessaria una minima concretizzazione del semplice accordo in condotte esteriori55.

sistematico su alcune recenti proposte in tema di criminalità organizzata, in Indice penale, 2009,

p. 405. L’organizzazione deve essere stabile e permanente nel senso che il vincolo sui cui si fonda deve essere costituito con lo scopo di poter durare a tempo indeterminato, a prescindere dall’effettiva durata dell’associazione; in giurisprudenza, Corte di Cassazione, VI sez. pen., 31 gennaio 2012, n. 3886, Papa e altri, in Rivista penale, n. 2, 2013, p. 209

52 Immagine di V. Patalano, L’associazione per delinquere, cit., p. 89. La struttura organizzativa

garantisce l’ordine sociale dal quale scaturisce l’unità concreta che, distinta dai singoli associati, assicura al sodalizio il perseguimento dei propri fini. È proprio per il fatto che l’associazione si organizza, dandosi delle “norme” che ne regolano l’attività, che si distingue dal mero accordo.

53 A. Cavaliere, Il concorso eventuale nei reati associativi, cit. p 121. Idoneità lesiva non solo dei

mezzi utilizzati dall’associazione, ma anche degli atti effettivamente compiuti.

54

G. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, cit., p. 290; F. M. Iacoviello, Ordine pubblico e associazione per delinquere, cit., p. 60; V. B. Muscatiello, Il

concorso esterno nelle fattispecie associative, Padova, Cedam, 1995, p. 123 55 A. Cavaliere, Il concorso eventuale nei reati associativi, cit., pp. 124-125

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3.2 Gli elementi costitutivi del reato di associazione di stampo mafioso ex art. 416 bis c.p.

Sull’art. 416 c.p. si è modellato il reato di cui all’art. 416 bis c.p., che mostra alcuni punti in comune con esso, ma da cui si discosta per profili particolarmente significativi.

Anche in questo caso è richiesta la partecipazione di «tre o più persone». Una prima peculiarità la riscontriamo al secondo comma dove viene fatta una distinzione dei ruoli che potrebbero essere rivestiti all’interno dell’associazione di stampo mafioso.

Si tratta di “condotte qualificate” a partire dal semplice promotore – colui che in qualità di associato procura nuovi membri all’associazione56 – fino a giungere alla figura dei capi o dirigenti57 – coloro che esercitano continuativamente poteri autoritativi e funzioni direttive. Nel mezzo tra questi due estremi ritroviamo la figura di colui che partecipa alla costituzione dell’associazione – colui che ne permette la nascita e ne entra a far parte58 – e colui che contribuisce all’organizzazione – ha poteri decisionali in merito alla predisposizione di una struttura idonea al perseguimento dei fini associativi59.

56 G. Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, V edizione, Padova, Cedam, 1997, p. 83. L’Autore

ritiene che, trattandosi di un reato a consumazione anticipata, la condotta di “promozione” sia perseguibile anche nelle ipotesi in cui la costituzione dell’associazione non vada a buon fine;

contra G. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, cit. p. 298.

L’Autore sostiene che una siffatta condotta possa acquisire rilevanza penale soltanto qualora l’organizzazione venga effettivamente ad esistenza, nonostante non sia necessario che il promotore ne diventi membro; Padovani, Art. 416, cit., p. 1924

57 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 35; G. De Francesco, Gli artt. 416, 416 bis, 416 ter, 417, 418 c.p., in P. Corso (coordinato da) Mafia e criminalità organizzata, Torino

1995, cit., p. 30. I promotori e i dirigenti svolgono ruoli differenti, ma potremmo dire che rappresentano le due coordinate essenziali per la vita dell’organizzazione: i primi ne determinano la formazione, mentre i secondi ne assicurano la permanenza coordinando le attività associative.

58A. Cavaliere, Il concorso eventuale nei reati associativi, cit., p. 158. L’Autore ritiene che per

punire la condotta di chi contribuisce alla costituzione dell’associazione, è necessario che almeno nel primo periodo di vita di quest’ultima egli vi prenda parte; G. Spagnolo, L’associazione di tipo

mafioso, cit., pp. 84-85; T. Padovani, Art. 416, cit., p. 1925

59G. De Francesco, Gli artt. 416, cit., p. 29 ; G. Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, cit., p.

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Il terzo comma dell’art. 416 bis c.p. è probabilmente il più rilevante, dal momento che sintetizza il concetto del c.d. metodo mafioso.

Così recita: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare vantaggi o profitti ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali».

Partendo dalle finalità dell’associazione, notiamo subito che siamo di fronte ad un reato a dolo specifico. Ciò significa che si è in presenza di un reato che richiede un atteggiamento psicologico peculiare che il legislatore ha ritenuto di inserire all’interno della norma incriminatrice.

Il dolo specifico indica i fini che i membri dell’associazione desiderano raggiungere60; tali fini emergono come requisiti volti a garantire più che la mera punibilità di finalità soggettive, una tutela penale più selettiva, così da evidenziare le ragioni sostanziali poste alla base dell’incriminazione61.

Ancora una volta si può notare una forte anticipazione di tutela. Proprio perché il dolo specifico consiste nella sola finalità di commettere delitti, ai fini della punibilità non è necessario che questi vengano realizzati. E’ chiaro che allo stesso

60G. Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., p. 65. L’elemento soggettivo del reato

di cui all’art. 416 bis c.p. si sostanzia nella volontà degli associati di contribuire ad un determinato piano criminoso.

61 L’art. 18 Cost. sancisce al primo comma il divieto di istituire associazioni che perseguano fini

vietati dalla legge penale. Ciò permette di giustificare un’anticipazione di tutela tale, da non richiedere che il fatto di reato si sia concretamente realizzato.

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tempo l’associazione dovrà risultare idonea e funzionale alla realizzazione di tali fini, altrimenti si rischierebbe di punirla sulla base del mero dato volitivo62.

Veniamo adesso al requisito della forza di intimidazione. Si tratta di una vis che promana dal vincolo associativo e che dà origine ad una condizione di assoggettamento e omertà63.

Per assoggettamento64 s’intende la sottomissione psichica alla volontà dell’associazione in una logica di permanente intimidazione diffusa che prescinde dal perpetuarsi di singoli atti intimidatori.

Con omertà si fa riferimento ad un atteggiamento di insistente rifiuto ad ogni forma di collaborazione con l’autorità giudiziaria a causa del timore provato nei confronti dell’associazione. Può concretizzarsi in favoreggiamento, testimonianze false o reticenti, assistenza agli associati e così via65.

E’ evidente che queste due condizioni psicologiche saranno riscontrabili in soggetti terzi che subiscono il potere e l’operato dell’associazione66.

E’ sufficiente che la forza d’intimidazione esista in qualità di carica intimidatoria che l’associazione possiede a prescindere da violenze o minacce espresse. L’importante è che appartenga all’associazione in quanto tale e non ai singoli associati, i quali a loro volta possono avvalersene67.

62 G. De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, Torino, Giappichelli Editore, 2008, pp. 410-413 63A. Cavaliere, Il concorso eventuale nei reati associativi, cit., p. 94. E’ essenziale sottolineare che

la forza d’intimidazione caratterizza l’associazione in quanto tale. Essa ha una carica intimidatoria autonoma, che può anche tramutarsi nella c.d. “fama criminale”, e di cui si avvalgono gli associati per realizzare i delitti-scopo oggetto del programma criminoso. Così anche Spagnolo,

L’associazione per delinquere di tipo mafioso, cit., p 28, secondo cui l’associazione incute un

timore diffuso nella società, per via della sua forza, ma soprattutto della sua predisposizione ad avvalersene.

64 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., pp. 471-472

65 G. Spagnolo,L’associazione per delinquere di tipo mafioso, cit., p. 38; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 472

66

T. Padovani, Art. 416 bis, cit., p. 1936

67 E’ lo stesso art. 416 bis c.p. a richiedere che gli associati si avvalgano della “forza di

intimidazione del vincolo associativo”; forza d’intimidazione che sarà un elemento caratterizzante l’associazione e da cui trarranno beneficio tutti coloro che ne entreranno a far parte. Ecco perché

(31)

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In associazioni ormai consolidate come Cosa Nostra, si ritiene che la forza d’intimidazione possa esaurirsi nella fama criminale. Quando la presenza delle organizzazioni criminali su di un territorio è ormai assodata, a maggior ragione non è fondamentale la ripetizione di violenze o minacce. Il solo riferimento all’associazione basta ad ingenerare quel sentimento di timore capace di dare origine all’assoggettamento68. Lo stesso non può dirsi per le nuove associazioni che ancora devono farsi un nome. Per quest’ultime non si potrà parlare di mera fama criminale, ma sarà necessario riscontrare atti d’intimidazione effettivamente posti in essere69.

Giungiamo così al significato dell’avvalersi. Per spiegare questo concetto è opportuno far riferimento a due correnti di pensiero molto distanti fra loro in merito alla concezione del reato di associazione.

Vedremo più approfonditamente in seguito che da una parte vi è chi sottolinea il carattere misto della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., in contrapposizione a chi, dall’altra, valorizza la natura puramente associativa del reato, andando a ricercare il metodo mafioso sul fronte dell’elemento intenzionale. Questo secondo orientamento sostiene che sia sufficiente la volontà di far parte dell’associazione e, in particolare, di avvalersi della sua forza d’intimidazione per essere perseguibili70.

non sempre è necessario che i singoli membri si adoperino con violenze o minacce, talvolta è sufficiente far riferimento all’appartenenza all’associazione per ingenerare la condizione di assoggettamento ed omertà; De Francesco, L’associazione per delinquere e l’associazione di tipo

mafioso, cit., p. 309

68 T. Padovani , Art. 416 bis, cit., p. 1935

69 A. Cavaliere, Il concorso eventuale nei reati associativi, cit., p. 95 70

G. De Francesco, L’associazione per delinquere e l’associazione di tipo mafioso, cit., p. 312. Se si identifica il metodo mafioso con l’intenzione dell’agente di avvalersi della forza dell’associazione sarà possibile ravvisare gli estremi del reato anche nei casi in cui il sodalizio non abbia ancora posto in essere attività rientranti nel programma criminoso.

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