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Abhinavagupta commenta e sviluppa le teorie dei suoi predecessori, accettan-

Te orie e vi sioni de ll ’es perienza

13. Abhinavagupta commenta e sviluppa le teorie dei suoi predecessori, accettan-

done o confutandone l’argomentazione utilizzata per interpretare i punti chiave dell’opera di Bharata, riassumendo lo stato del dibattito. Cfr. Y.S. Walimbe, Abhi-

navagupta on Indian Aesthetics, Delhi, Ajanta Publications, 1980.

14. Abhinavagupta, Ad NS´ I, 107a, in R. Gnoli, The Aesthetic Experience according to Abhinavagupta, Varanasi, Chowkhamba Sanskrit Series Office, 19682, p. 94 (d’ora

Teorie e visioni dell’esperienza “teatrale” Edoardo Giovanni Carlotti 14

invece l’equilibrio fluttuante tra due personalità diverse che, non permettendo l’attribuzione alla presenza sulla scena di un’identità precisa e univoca, prepara il terreno alla genera- lizzazione della percezione e alla coscienza di una singolarità nell’esperienza.

D’altro canto, ciò che viene rappresentato non è un’entità astratta, perché la riconoscibilità di personaggi e situazioni necessita tratti di peculiarità, il che giustifica l’uso drammati- co di narrazioni e personaggi dell’epica, in quanto è possibile una percezione diretta soltanto se i suoi oggetti sono real tà fisiche definite. Tuttavia, la percezione diretta non è il fine ultimo dell’esperienza, ma serve a innescare un più comples- so processo cognitivo:

Il tea tro perciò è materia di cognizione tramite una for- ma speciale di ri-percezione (anuvyavasa¯ya). In primo luogo, invero, grazie a costumi, trucco e altre forme di rappresen- tazione, la presunzione di essere davanti alla percezione diretta di un particolare attore (Caitra, Maitra, ecc.) e del suo particolare spazio e tempo cessa di esistere; in secondo luogo, dato che la percezione diretta non può verificarsi senza almeno un minimo di particolarizzazione, si è fatto ricorso a nomi come Ra¯ma, ecc. Il fatto che questi sono nomi di personaggi famosi elimina infatti la possibilità che uno che declama le loro imprese meritevoli d’attenzione possa provocare nello spettatore l’ostacolo dell’inverosimiglianza. A causa di tutto ciò, questa ri-percezione è come una forma di percezione diretta. Inoltre, perché la scena rappresenta- ta, essendo accompagnata da gradevoli musiche vocali, ecc., è fonte di camatka¯ra, è dotata di una naturale idoneità a penetrare nel cuore. Ancora, le quattro forme di rappre- sentazione nascondono la vera identità dell’attore. Infine, il prologo, ecc., dà agli spettatori la [costante] impressione che essi hanno a che fare con un attore. L’attore, essendo visto, stimola, allora, negli spettatori, una ri-percezione (det- ta anche gustare, assaggiare, camatka¯ra, gradimento, immer- sione, godimento, ecc.), che, tramite il consistere nella luce e nella beatitudine della nostra stessa coscienza, è ancora influenzata da vari sentimenti, ed è perciò varia. Il tea tro è solo ciò che appare in questa ri-percezione.15

La condizione della ri-percezione è definita camatka¯ra, uti-

15. Ivi, pp. 99-100 (Ad NS´ I, 107b). Anche in questo caso «tea tro» traduce l’inglese

Origini nel mito, effetti sulla vita

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lizzando un vocabolo che denota una condizione di stupore e sorpresa (e che ha le accezioni aggiuntive di “spettacolo” e “agitazione festiva”); camatka¯ra, a sua volta, è la condizione preliminare alla “gustazione” del rasa, che è l’essenza stessa dell’esperienza. Rispetto alla sostanza particolare della ri-per- cezione esperita, ovvero «ciò che appare» in essa, il filosofo kashmiro manifesta una totale mancanza d’interesse per una discussione dell’argomento, adducendone a motivo la lon- tananza dall’oggetto principale del discorso e il rispetto nei confronti dei lettori, la cui sensibilità sarebbe messa a dura prova da una trattazione necessariamente pedante e noiosa; a suo parere, ognuno ha la totale libertà di considerarla «o un’immagine interiore di ciò che conosciamo, o un’immagi- ne generica sovrapposta, o ancora una creazione improvvisa,

oppure addirittura qualcos’altro».16

In effetti, la posizione espressa suggerisce che la questio- ne non risieda tanto nell’oggetto della ri-percezione, quan- to nella qualità dell’esperienza che esso comporta, che il seguente passo differenzia sostanzialmente dall’esperienza ordinaria indicando in quale misura ogni componente della rappresentazione contribuisce al processo:

In primo luogo, nel tea tro c’è assenza, in noi, dell’inten- zione: “Oggi devo fare qualcosa di pratico” e presenza, in sua vece, dell’intenzione: “Oggi io godrò di viste e suoni di natura non-ordinaria che meritano attenzione, che alla fine non stimoleranno nessuna sensazione di disgusto e la cui es- senza è un piacere generalizzato condiviso da tutti gli spetta- tori”. Il gusto della musica vocale e strumentale appropriata fa allora dimenticare allo spettatore la sua esistenza pratica (sa¯m.sa¯rikabha¯va), ed essendosi trasformato il suo cuore in uno specchio limpido, egli diventa capace di identificarsi con gli stati mentali del dolore, piacere, ecc., che scaturisco- no alla vista dei gesti e delle altre specie di rappresentazione. Ascoltare la recitazione fa entrare lo spettatore nella vita di un personaggio diverso da sé e, come risultato, cresce in lui una cognizione il cui oggetto è Ra¯ma, Ra¯van.a e così via. Questa cognizione non è circoscritta da alcuna limitazione di spazio e tempo, ed è libera da tutte quelle forme di pen- siero che riguardano quale sia la materia della conoscen- za, che sia erronea o incerta o probabile ecc. Questo non

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è tutto. Lo spettatore è accompagnato dall’impressione di questa cognizione (il cui oggetto era Ra¯ma ecc.) e poi da una sorta di camatka¯ra per parecchi giorni. Queste impres- sioni sono evidenziate, a loro volta, da altre, depositate in lui dalla percezione diretta delle varie cose che producono piacere – donne, musica vocale e strumentale – che hanno accompagnato la performance. Queste ultime impressioni sono la causa efficiente della continuazione delle prime.17

Abhinavagupta si premura di sottolineare che tutte le compo- nenti della rappresentazione concorrono a rendere possibile l’esperienza della “gustazione”, o rasa, che è definita come l’essenza sia del tea tro che della poesia, a qualsiasi indivi- duo. La richiesta degli dèi a Brahma¯ di una forma di intrat- tenimento e istruzione intelligibile a tutte le caste trova qui la sua spiegazione: sebbene sia la poesia la fonte primaria dell’esperienza del rasa, non tutti sono forniti di sensibilità sufficiente per fruirne, mentre tutti possono sperimentare la “gustazione” assistendo a una rappresentazione tea trale.

Come affermano questi passi, l’esperienza del rasa non si verifica come fosse un momento separato nell’esistenza indi- viduale, privo di conseguenze future, ma offre a chi la prova istruzioni pratiche per indirizzare la sua condotta lungo un cammino ben preciso. È per questa ragione che, nel suo com- mento, Abhinavagupta non manca di descrivere il processo che dall’esperienza conduce al comportamento; lo spettato- re, influenzato dalle impressioni che ha raccolto durante la rappresentazione, che si sono fissate tramite la particolare “colorazione della coscienza” che è propria dell’esperienza del rasa, diviene soggetto a

una sorta di intimazione esprimibile al modo ottativo, cioè: “Una certa cosa (deve accadere) a coloro che fanno una certa cosa”. Questa intimazione è libera da ogni specifica- zione spaziale e temporale. La summenzionata impressione in virtù dell’esperienza del Rasa resta profondamente fissata nel cuore, come una freccia, in tal modo che non può essere alleviata, e tanto meno estratta. Grazie ad essa, i desideri di attingere il bene e abbandonare il male sono costantemente presenti alla mente dello spettatore, che pertanto fa il bene ed evita il male.18

17. Ivi, pp. 96-97. 18. Ivi, p. 98.

Origini nel mito, effetti sulla vita

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In questo autorevole commento al mito di fondazione dell’ar- te performativa indiana, la discussione sulla sua funzione è vista come il fulcro del discorso che ne riguarda l’origine, in quanto funzione ed esperienza sono strettamente connesse come peculiarità del dono offerto agli dèi e all’umanità da Brahma¯. In base ai pochi accenni nella narrazione di Bha- rata, il pensatore s´ivaita anticipa, già nelle glosse al primo capitolo, gli elementi essenziali della teoria psicologica che costituirà l’argomento del sesto e del settimo, e sottolinea con cura che nel concetto di rasa risiede la raison d’être della rappresentazione drammatica.

In altre parole, qualsiasi tentativo di definire l’essenza del na¯t.ya non può avere successo, se non è preceduto dalla co- gnizione che l’esperienza da esso provocata si differenzia in misura sostanziale da quella di altri stati che possono appa- rire simili; a questo scopo, Abhinavagupta opta per non sof- fermarsi su ulteriori specificazioni, dal momento che forma e contenuto dell’esperienza non possono essere sottoposti a distinzioni. Questo concetto è affermato esplicitamente quando sorge la questione se il “tea tro” sia una forma di riproduzione: benché la sua argomentazione suggerisca una precisa posizione in merito, la conclusione del commento al primo capitolo del Na¯t.yas´a¯stra è rivelatrice:

Riassumendo, il tea tro è solo una “narrazione” (kı¯rtana), fatta di una ri-percezione, una forma di coscienza influenza- ta da cognizioni discorsive (ru¯s.itavikalpa-sam.vedana) – è, in effetti, così percepito – e non una forma di riproduzione. Se, però, voi dite che è una riproduzione, nel senso che segue la “produzione” della vita reale, ordinaria, non è un errore. Una volta che i fatti sono stati determinati chiaramente, le parole non meritano di diventare fonte di disaccordo.19

La questione non tocca, perciò, il contenuto dell’esperienza, che è certamente un insieme di immagini, di cui tuttavia non è importante individuare l’origine: siano interne o imposte dall’esterno, esse hanno un senso solo nella misura in cui appartengono alla condizione peculiare della ri-percezio- ne – alla “gustazione” del rasa.

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