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Francisci Robortelli Utinensis in librum Aristotelis de Arte Poetica Explanationes,

Te orie e vi sioni de ll ’es perienza

25. Francisci Robortelli Utinensis in librum Aristotelis de Arte Poetica Explanationes,

Imitazione e contagio delle passioni nella polemica antitea trale 83

le cose singole che prima ha percepito con il senso della vista. E come il filosofo congiungendo le cose generali alle singolari le unisce nel ragionamento, di qualunque cosa si tratti, cosi anche un uomo volgare e rozzo, quando rapporta ciò che prima aveva compreso con i sensi a ciò che appare espresso tramite l’imitazione, conclude: questo qui è quello.26

Inoltre, se la visione di oggetti terribili o rivoltanti si muta in un’esperienza piacevole quando essi sono percepiti come prodotti di imitazione, le rappresentazioni drammatiche, per le loro ovvie restrizioni convenzionali, godono di un partico- lare vantaggio per favorire l’esperienza:

Gli uomini nelle immagini che gli scultori o i pittori han- no riprodotto vedono con piacere anche le cose orribili; in real tà esse sono infatti μιμήματα, come quelle poetiche. Ar- gomenta quindi Aristotele in via generale cosi: se gli uomini nelle figure scolpite e dipinte guardano con piacere anche le cose orribili, con quanto più diletto guarderanno l’azio- ne poetica, in cui c’è imitazione, ma non di cose orribili: infatti l’arte poetica non rappresenta o pone dinanzi agli occhi le uccisioni, le ferite, le ripugnanti lacerazioni delle membra, come ottimamente ammonisce Orazio nella sua poetica quando dice “Neu Medea ferox” e quanto segue. E se qualcuno chiede il motivo per cui quelle due arti dell’imi- tazione imitano le cose formidabili e orribili, e quest’altra, cioè l’arte poetica e l’arte degli istrioni, non le rappresenta? Si può facilmente rispondere che in quelle l’imitazione è in un certo senso muta e morta, che in sé non rappresenta la natura e la sostanza di ciò che ha da rappresentare. Ma nell’arte poetica e istrionica, anche se c’è imitazione, come in quelle, è tuttavia viva, e pressoché la stessa, eccettuato solo quello che da queste non è imitato, perché se lo fosse, non sarebbe imitazione, come è abbastanza evidente.27

Robortello distingue chiaramente tra imitazione e riprodu- zione, riferendosi a ciò che è espresso in altri passi del com- mento, ovvero che le imitazioni artistiche prendono forma in base alle convenzioni specifiche di ogni forma d’arte; per questa ragione, l’«arte degli istrioni» ha la capacità di rappre- sentare una “configurazione oggettuale” che si approssima alla vita, dal momento che le sue componenti sono suscetti-

26. Ivi, p. 31. 27. Ivi, p. 30.

Teorie e visioni dell’esperienza “teatrale” Edoardo Giovanni Carlotti 84

bili di un’evoluzione nello spazio e nel tempo. Per quanto le arti visive possano esorbitare i limiti che le arti performative sono tenute a osservare, ritraendo oggetti che la scena non può rappresentare, l’azione drammatica ha tuttavia la pre- rogativa di poter trattare direttamente con «la natura e la sostanza» dei suoi oggetti. Da tale prerogativa – si potrebbe dedurre – deriva un effetto più profondo sugli spettatori.

Viene quindi affrontata la definizione di tragedia, e natu- ralmente il concetto di catarsi in essa contenuto:

Se mi si chiede qual è l’opinione di Aristotele sulla tra- gedia, io rispondo che egli ritiene che la sua recitazione e osservazione purifichi questi due disturbi [perturbationes]: la pietà e la paura. Infatti, chi partecipa alle recitazioni, ascolta e vede persone che dicono e fanno cose che si avvicinano molto alla verità; si abitua a soffrire, temere, avere pietà; e cosi accade che, se gli càpita qualcosa nella vita, soffre e teme meno, perché è inevitabile che chi non ha mai sofferto per qualche sventura, soffra di più quando gli càpita inaspettata- mente qualcosa di avverso. Si aggiunga poi che spesso gli uo- mini soffrono e temono erroneamente, mentre i poeti inve- ce nelle recitazioni delle loro tragedie presentano persone e cose degnissime di pietà, delle quali a buon diritto chiunque, persino il saggio, deve temere; gli uomini apprendono quali sono le cose che a buon diritto suscitano pietà, e profondo dolore, e quali incutono timore. Infine uditori e spettatori delle tragedie traggono questo giovamento, affatto grandis- simo, poiché la fortuna è infatti comune a tutti i mortali, e non c’è nessuno che non sia soggetto a sventure: gli uomini sopportano più facilmente, quando accade loro qualcosa di avverso, e si sorreggono a questa solidissima consolazione, se si ricordano che la stessa cosa è capitata ad altri.28

Più che come una “purificazione”, Robortello intende la ca- tarsi aristotelica come una terapia preventiva contro quelle perturbationes che possono affliggere gli individui soggetti ad avversità: la pietà e la paura sono considerate parte della sof- ferenza inevitabile nell’esistenza, che riconoscere come una condizione comune a tutta l’umanità può mitigare; come si può facilmente notare, qui non compare – nonostante le premesse – alcun accenno al piacere che dovrebbe essere tratto dalla loro rappresentazione, ma se ne enfatizza soltan-

Imitazione e contagio delle passioni nella polemica antitea trale 85

to la funzione di possibile educazione alla sofferenza, che in termini di psicologia moderna si potrebbe definire come abituazione attraverso l’esposizione a stimoli ripetuti.

Il tutto appare come un trattamento omeopatico, dove ciò che viene fatto sperimentare allo spettatore differisce non per intensità ma per qualità del principio: si presume, infat- ti, che gli stimoli provengano da esempi scelti di situazioni e eventi degni di compassione o timore, che devono fissarsi nella memoria come un antidoto per affrontare personali esperienze future; la forma della rappresentazione è indicata in quanto può operare una selezione, non perché ne produ- ca un’esperienza diversa da quella della real tà ordinaria: simi- lia similibus curantur, ma sotto la forma dell’immunizzazione, della “mitridatizzazione” che previene gli effetti dannosi di

sovraccarichi emozionali inattesi.29

Appena due anni più tardi, viene stampato In Aristotelis Librum de Poetica communes explanationes, scritto da Vincenzo Maggi in collaborazione con Bartolomeo Lombardi, in cui la catarsi tragica viene intesa non come un possibile allevia- mento della pietà e della paura, ma di altre perturbationes, che l’esperienza di esse può trasformare, o addirittura eliminare totalmente:

Dunque è assai meglio con l’intervento della misericordia e del terrore purgare l’anima dall’Ira, per la quale accadono tante morti; dall’Avarizia, che è causa di mali quasi infiniti; dalla Lussuria, a cui motivo si compiono spessissimo crimini indicibili. Per queste ragioni, allora, non dubito affatto che Aristotele non volesse che il fine della Tragedia fosse di pu- rificare l’anima umana dal terrore e dalla misericordia, ma di usarle per allontanare dall’animo altri disturbi; con il cui allontanamento l’animo si adorna di virtù, infatti scacciata l’ira, verbigrazia, compare la mansuetudine.30

Questa posizione venne in séguito adottata da molti altri ese- geti del periodo e – sebbene anche la tesi di Robortello non