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Marionette, immagini e stati emozional

Te orie e vi sioni de ll ’es perienza

2. Marionette, immagini e stati emozional

L’espressione «merveilleux pantin» è senza dubbio indicata a descrivere la percezione di una performance attoriale, dal momento che sottolinea al contempo l’espressione visibile di un’entità che si muove non di volontà propria, ma come se fosse diretta da fili invisibili, e il senso di stupore che deriva dalla consapevolezza che gli automatismi secondo cui tale entità si muove sono, in effetti, inerenti alla sua natura di essere umano.

Nell’antica Grecia, stupore e marionetta erano associati, al punto che la parola θαυ̃μα (tháuma) – insieme a “meravi- glia”, “stupore”, “prodigio” – indicava (solitamente al plura- le) anche i burattini o le marionette. Già Platone aveva sotto- lineato la coincidenza e, come ricorda A.K. Coomaraswamy, l’aveva sviluppata, individuando

nelle marionette (θαυμάτα), con i loro movimenti auto- matici, autocinetici, un esempio tipico dello stupore (τὸ θαυμάζειν), che è la fonte o l’origine della filosofia: noi «siamo veramente i giocattoli di Dio per quel che di meglio è in noi», e così dovremmo danzare, obbedendo soltanto al controllo di quell’unico filo lassù che tiene la marionetta so- spesa e non ai contrastanti e irregolari strappi con cui le cose esteriori traggono ogni individuo da una parte o dall’altra a seconda delle sue preferenze o avversioni.12

Un’altra espressione per indicare i burattini e le mario- nette, che compare in Erone di Alessandria ed Erodoto, è ἀγάλματα νευρόσπαστα (agálmata neuróspasta), dove il senso

12. A.K. Coomaraswamy, «Spiritual paternity» and the «puppet complex», in The Bug- bear of Literacy, London, Dennis Dobson, 1949, pp. 97-98. Per una visione di questo

concetto platonico interna alla tradizione teologica cristiana, si veda H. Urs von Balthasar, Introduzione al dramma, vol. I di Teodrammatica, Milano, Jaca Book, 1980, pp. 130-131.

Rappresentazione ed emozione estetica tra Oriente e Occidente 163

del participio aggettivale composto, reso consuetamente con “mosse (o tirate) da fili”, è esplicito (néuron, come si intuisce, significa anche “nervo, tendine, ecc.”); il sostantivo agálmata, che viene tradotto generalmente con “immagini”, merita in- vece qualche precisazione, che ci è offerta da Karl Kerényi, il quale aveva dedicato un saggio alle differenze di significato di tre termini greci nelle traduzioni moderne sono resi co- munque con “immagine”: éikon, éidolon e, appunto, ágalma:

Ἄγαλμα è trasparente come parola. Vorrei fermarmi a questa definizione, trasparente, sebbene questo possa dirsi di una parola solo in senso traslato. Trasparente è la parola

agalma perché questo termine, usato per lo più per le imma-

gini sacre, non sta a indicare presso i Greci una cosa solida e determinata, ma (anche questo detto metaforicamente) è la fonte perpetua di un evento al quale si suppone che la divinità prenda parte non meno dell’uomo. L’agalma ha, sì, una superficie, ed è sempre una bella superficie, ma da ciò deriva sempre anche un’altra dimensione, la dimensione dell’evento. La superficie è qui la fonte di quello che nella lingua antica si chiama ἀγάλλω, ἀγάλλομαι e da cui deriva- no le formazioni più tarde, come ἀγαλλίαμα e ἀγαλλίασις, in latino exultatio, come in Luca 1, 14: ἔ́σται χαρά σοι καὶ ἀγαλλίασις, erit gaudium tibi et exultatio. Alla base c’è sempre, verbalmente, la gioia considerata come un evento ed identi- ficata con la cosa che la suscita.13

Benché Kerényi si occupi delle agálmata in quanto immagini cultuali, distinguendone l’esperienza da quella delle éidola (immagini di ombre senza sostanza vivente) e delle éikona (immagini storiche, “profane”, come ad esempio i ritratti), nulla impedisce che l’argomento possa essere esteso a qual- siasi invenzione artistica, a qualsiasi rappresentazione in cui attraverso la superficie si rivela qualcosa di altro sia dalla real- tà terrena, sia da una parvenza immaginaria senza vita: la trasparenza è la coscienza della rappresentazione, e quindi

13. K. Kerényi, Agalma, eikon, eidolon, in Scritti italiani, Napoli, Guida, 1993, p. 95.

È opportuno ricordare qui che Abhinavagupta definisce come segue l’effetto della rappresentazione tea trale sullo spettatore: «L’attore, essendo visto, stimola, allo- ra, negli spettatori, una ri-percezione (detta anche gustare, assaggiare, camatka¯ra, gradimento, immersione, godimento, ecc.), che, tramite il consistere nella luce e nella beatitudine della nostra stessa coscienza, è ancora influenzata da vari senti- menti, ed è perciò varia. Il tea tro è solo ciò che appare in questa ri-percezione» (AG, p. 100 [Ad NS´ I, 107b]).

Teorie e visioni dell’esperienza “teatrale” Edoardo Giovanni Carlotti 164

della sostanza dietro la rappresentazione. Questa coscien- za è accompagnata da un sentimento di gioia, che unifica l’oggetto-rappresentazione allo stato emozionale che emer- ge alla coscienza. Dalle testimonianze citate nel saggio, si apprende poi che l’unica traduzione possibile di ágalma, nei contesti in cui ricorre il termine, non solo unifica l’oggetto- rappresentazione al sentimento di gioia, ma lo riferisce alla divinità rappresentata in senso soggettivo: l’immagine è la gioia del dio, e la sua esperienza unisce umano e divino nella condivisione del sentimento.

Questa esperienza dell’immagine come ágalma, secondo Kerényi, acquisiva senso all’interno di una cultura in grado di diversificare la nozione stessa di immagine secondo la varietà delle sue funzioni: le tendenze iconoclastiche dei primi secoli dell’era cristiana contribuirono anche alla cancellazione di ogni possibilità di distinzione tra ágalma e éidolon, tanto che il termine «idolatria» passò a indicare, dalla lingua dei greci cristiani a quella medioevale, la religione greca antica, privi- legiando questo aspetto – l’adorazione di éidola – su quello della sopravvivenza cultuale nelle campagne e nei villaggi,

da cui deriva invece «paganesimo».14

La conclusione del saggio, apparso nel 1962 negli atti di un convegno intitolato «Demitizzazione e immagine», si im- pernia su un interrogativo che riguarda il carattere dell’espe- rienza dell’ágalma nella modernità:

Oggi si pone un problema più generale. Un’immagine, che è anche opera d’arte, può lo stesso esser chiamata agal-

ma – e in tal modo può risolversi la differenza tra immagine

cultuale e immagine votiva, o anche addirittura immagine profana – se per mezzo suo l’uomo è mosso alla gioia per l’Essere. «Deagalmatizzazione» significherebbe allora una tendenza contraria alle immagini, che in questo senso sa- rebbero agalmata. Non sarebbe essa forse diretta contro la gioia di dio della quale abbiamo detto, ovvero, per parlare come i cristiani, contro la gioia di Dio per la Sua creazione, indipendentemente dalla questione se oggi la tendenza ge- nerale sia contro le «immagini sacre»?15

14. «È questo l’aspetto della religione greca antica che la cristianità greca ha tenu-

to costantemente presente, e non già il fatto che tale religione si è conservata più a lungo nelle campagne (pagi)» (K. Kerényi, Agalma, eikon, eidolon cit., p. 84).