• Non ci sono risultati.

In real tà, questo potere del numero sull’intensità dell’emozione suscitata dal-

Te orie e vi sioni de ll ’es perienza

40. In real tà, questo potere del numero sull’intensità dell’emozione suscitata dal-

lo spettacolo è esteso oltre gli spettatori, e ritenuto un carattere distintivo della natura umana: «Chi non sente aumentare la sua emozione per il gran numero di persone che la dividono con lui, ha qualche vizio segreto; c’è nel suo carattere qualcosa di appartato che mi dispiace. Ma se il concorso d’un gran numero di persone doveva accrescere l’emozione dello spettatore, che influenza mai doveva avere sugli autori, sugli attori?» (D. Diderot, Teatro e scritti sul tea tro, a cura di M. Grilli, Firenze, Sansoni, 1980, p. 114).

Sensibilità e tecnica nell’esperienza attoriale

149

commoventi: sta all’osservazione e allo studio ricostruirle e, al tempo stesso, magnificarle alla dimensione richiesta dal contesto della loro presentazione.

Da queste coordinate, Diderot aveva cominciato a trac- ciare, già a partire dal 1757 (con la pubblicazione del Fils naturel), le linee guida del suo progetto di riforma del tea tro, che da un lato prende in considerazione le possibilità dell’in- tensificazione dell’illusione scenica, dall’altro la rappresen- tazione di ciò che è naturale e vero. Il suo obiettivo ideale, come è noto, è la “quarta parete”, la separazione assoluta tra scena e uditorio, che è proposta come la condizione ideale della ricezione.

In questa prospettiva, può essere sorprendente osservare come, negli stessi anni (precisamente nel 1758), il philosophe ricorda, in risposta a una lettera a M.me Riccoboni, la sua esperienza di spettatore negli anni Quaranta, quando ancora era un frequentatore abituale di tea tri:

Quindici anni fa i nostri tea tri erano luoghi di tumul- to. Le teste più posate si scaldavano entrando, e gli uomini assennati erano più o meno coinvolti negli slanci degli en- tusiasti. Qui si sentiva «fate posto alle signore»; là «mani a posto, signor abate»; altrove «giù il cappello» e dappertutto «silenzio, silenzio la claque». Ci si agitava, ci si muoveva in continuazione, ci si spingeva; si perdeva il controllo. Ora io non conosco situazione più stimolante per uno scrittore. La rappresentazione cominciava con fatica, era spesso interrot- ta, ma appena arrivava un momento ben riuscito, succedeva un fracasso incredibile, si chiedevano bis a non finire; ci si entusiasmava dell’attore e dell’attrice. L’entusiasmo si tra- smetteva dalla platea all’anfitea tro, e di lì ai palchi. Si era arrivati già eccitati, ci se n’andava completamente ebbri; chi andava a cercar donne, chi si sparpagliava qua e là; era come un temporale che andava a sciogliersi lontano ed a rumoreg- giare a distanza per molto tempo dopo che s’era allontanato. Ed era un gran bel godere. Oggi, si arriva freddi, si esce freddi e non so dove si va. Questi insolenti poliziotti preposti a destra e a manca per frenarmi gli slanci dell’ammirazione, della sensibilità e della gioia, e che fanno dei nostri tea tri luoghi più tranquilli e più dignitosi delle nostre chiese, mi colpiscono singolarmente.41

Teorie e visioni dell’esperienza “teatrale” Edoardo Giovanni Carlotti 150

Il clima festivo che aleggiava sui tea tri d’un tempo neppu- re lontano, rievocata in tali termini, appare al di là di ogni possibilità di essere restaurato, e con essa le dinamiche di comportamento che innescava: la riforma invocata in que- gli anni (come nel secolo precedente), che avrebbe dovuto trasformare le sale in luoghi tranquilli e rispettabili, sembra essersi realizzata, e l’esperienza collettiva che vi aveva luogo mostra tratti affatto diversi. Invece di manifestarsi nell’agita- zione e nell’irrequietezza festiva, la sensibilità collettiva (per via di un presumibile mutamento nella composizione e nelle aspettative del pubblico) sembra aver acquisito un’attitudi- ne più “moderna” verso gli spettacoli, dirigendosi verso ciò che può essere compostamente (e passivamente) fruito nella sua autosufficienza rappresentativa. L’esigenza di verosimi- glianza, adesso, non può che accompagnare una richiesta di illusione, e ogni componente della rappresentazione mira a questo obiettivo, evitando il ricorso alla convenzione a me- no che invenzione e tecnologia non siano impossibilitate a sopperirvi.

Diderot aveva presumibilmente impostato la sua riforma sulla constatazione di questo cambiamento, alla cui base c’è l’emergere di qualcosa che potrebbe essere definito come sensibilità per la sensibilità, per cui si chiede alle rappresenta- zioni tea trali di attrarre l’uditorio con le dinamiche delle pas- sioni e degli antagonismi drammatici, e non più di sfruttare l’eccitazione generale trasformandola in entusiasmo collet- tivo per quanto transitorio. La reminiscenza diderotiana del suo passato di spettatore assiduo vede l’esperienza proiettata sull’orizzonte del mondo esterno: l’evento esorbitava i limiti del tea tro per riversare i suoi accalorati partecipanti nelle strade, come a diffondere l’entusiasmo all’esterno, con la turbolenza fugace e intensa di un temporale; sul finire de- gli anni Cinquanta, la sala sembra avere i confini presidiati, come se le emozioni stesse fossero segregate, e dovessero manifestarsi soltanto nelle forme temperate dell’applauso o dell’acclamazione: è un’esperienza principalmente intima, che lo spettatore riporta nel privato della propria casa.

Viene da chiedersi se le impressioni di esperienze così diverse, per il contesto e per le reazioni che ne conseguo- no possano coincidere: anche se fosse possibile stabilire la questione, il fatto rimane che Diderot sceglie di incentrare il suo progetto sulla rappresentazione e sul suo allestimento,

Sensibilità e tecnica nell’esperienza attoriale

151

mirando a intensificare, per via d’illusione scenica, uno sta- to non ordinario della coscienza che, in precedenza, nasce- va – da quel che possiamo dedurre – dalle circostanze stesse dell’evento, in una sorta di zona franca, dove lo scorrere del tempo quotidiano era momentaneamente sospeso. In ogni caso, il progetto stesso del filosofo rivela che, anche in condi- zioni in cui la partecipazione collettiva è accuratamente con- trollata e priva di eccessi, l’esperienza della rappresentazione tea trale è ritenuta in grado di influenzare il comportamento, anche se non in prospettiva immediata.

Il Settecento si configura come un punto di svolta nell’e- voluzione dell’esperienza tea trale, da cui si aprirà la strada alle riflessioni d’impronta moderna che, in seguito all’av- vento delle tecnologie di comunicazione di massa, ruoteran- no intorno alle forme di controllo politico e sociale che tali mezzi di rappresentazione possono esercitare. La caratteri- stica principale di questa svolta culturale sembra risiedere nella ricognizione che è possibile un controllo “estetico” sul- la società, che il gusto collettivo può essere sottoposto a un processo di formazione e trasformazione; quindi, che gusto e comportamento, a livello sia individuale che sociale, mo- strano evidenti connessioni: il contributo di Diderot sembra segnalare che le impressioni successive e reiterate che si de- positano nella mente-corpo dell’individuo non sono soltanto portato di elaborazioni cognitive della materia rappresenta- tiva, ma sono anche il risultato di un’assunzione inconscia di immagini-modelli che, nonostante la loro sostanza fittizia e convenzionale, sono percepiti e trattenuti come modelli naturali e reali.

Nel Paradoxe sur le comédien c’è la suggestione di qualcosa che potremmo definire paradoxe sur le spectateur: più l’arte vie- ne spinta alla perfezione, più viene percepita come natura; più il modello attinge qualità ideali – di qualunque ideale si tratti – più s’impone e s’imprime come reale.

Teorie e visioni dell’esperienza “teatrale”

Edoardo Giovanni Carlotti

152 1. Sensibilità ed emozione estetica

Termini e temi del dibattito sulla sensibilità dell’attore, come esso emerge in Europa nel corso del Settecento, suggeriscono un approfondimento di alcuni concetti secondo la tradizione del Na¯t.yas´a¯stra, dove l’esperienza dell’arte performativa, al pari di quella delle altre arti, è oggetto della dettagliata teo- ria psicologica che ruota intorno alla “produzione’’ del rasa come emozione peculiare dell’esperienza estetica, legata a una forma di sensibilità che la permette.

Come si è visto, il rasa è uno stato della coscienza partico- lare, distinto da altri per la sua manifestazione in forma di una “gustazione” dell’emozione rappresentata, che lo spet- tatore, assistendo alla performance dell’attore, percepisce e riconosce come propria nella sua forma generalizzata di stha¯yi-bha¯va (lo stato «permanente» o «duraturo»), presente nell’essere umano come memoria di passate esperienze, o come tracce latenti impresse da esistenze anteriori. Senza ne- cessariamente aderire alla teoria delle reincarnazioni succes- sive dell’individuo, possiamo avvicinare questa idea alla forma mentis occidentale moderna figurandola in termini di eredità genetica, tenendo conto che i tratti caratteristici dell’espres- sione emozionale sono disposizioni innate a tutti gli individui

6. Rappresentazione ed emozione estetica