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J J Rousseau, Lettera sugli Spettacoli, a cura di F.W Lupi, Palermo, Aesthetica

Te orie e vi sioni de ll ’es perienza

30. J J Rousseau, Lettera sugli Spettacoli, a cura di F.W Lupi, Palermo, Aesthetica

Riforma della scena ed e(ste)tiche della rappresentazione 115

ne rifiuterebbero la rappresentazione se non fosse gradevole, e al contempo non mostrerebbero interesse per personaggi che fondassero i loro comportamenti su considerazioni det- tate dalla ragione, frenando gli impulsi passionali. Di conse- guenza, la ragione è inutile sulla scena, perché il pubblico cerca a tea tro l’espressione delle passioni.

Non si può quindi chiedere a un dramma di esercitare un’influenza positiva sul gusto o sulla morale trasmettendo contenuti conformi a una visione razionale delle cose, per- ché il suo oggetto di rappresentazione, e la condizione del suo successo, sono sempre le passioni; Rousseau specifica di utilizzare i termini goût (gusto) e mœurs (costumi, morale)

indifferentemente, «per quanto una cosa non sia l’altra»,31

dal momento che entrambi hanno la stessa origine e sono sottoposti a cambiamenti nel tempo, quantunque la coinci- denza dei concetti non sia perfetta.

Consegue da queste prime osservazioni che l’effetto ge- nerale dello spettacolo è di rinforzare il carattere nazionale, di incentivare le inclinazioni naturali e di dare nuove ener- gie a tutte le passioni. In tal senso, limitandosi questo effetto a rinforzare e non a cambiare i costumi esistenti, sembre- rebbe che la commedia sia buona per i buoni e cattiva per i cattivi. Inoltre, nel primo caso, rimarrebbe sempre da sapere se le passioni troppo irritate non degenerino in vizi. So che la poetica del tea tro pretende di operare in modo esatta- mente contrario, di purificare le passioni eccitandole: ma comprendo a fatica questa regola. Forse che per diventare temperante e prudente, occorre iniziare con l’esser furente e folle?32

Affrontando la questione della catarsi con lo stesso scettici- smo di Bossuet, Rousseau prima dichiara la sua incapacità di immaginarne un’azione omeopatica, poi si dedica alla confutazione dell’effetto allopatico, per cui l’eccitazione di passioni opposte dovrebbe agire come un deterrente morale. A supporto della sua tesi non vengono introdotte testimo- nianze autorevoli, perché a suo parere è sufficiente rivolgere l’attenzione all’esperienza personale:

31. Ivi, p. 137 n. 32. Ivi, p. 42.

Teorie e visioni dell’esperienza “teatrale” Edoardo Giovanni Carlotti 116

Per capire la malafede di tutte queste repliche, è suffi- ciente consultare la condizione del proprio cuore alla fine di una tragedia. L’emozione, il turbamento e l’intenerimento che avvertiamo in noi stessi e che si protrae dopo la rap- presentazione, annunciano forse una disposizione d’animo prossima a vincere e regolare le nostre passioni? Le impres- sioni vivaci e toccanti alle quali ci abituiamo e che si fanno così spesso risentire sono poi le più indicate a moderare, quando serve, i nostri sentimenti? Perché mai l’immagine delle pene che nascono dalle nostre passioni cancellerebbe quella degli impeti di piacere e di gioia che ne vediamo, al pari, nascere, e che gli autori si occupano altresì di abbellire, per rendere i loro lavori più piacevoli? Non è risaputo che tutte le passioni sono sorelle, ma che una soltanto è sufficien- te a destarne mille e che combatterle l’una con l’altra non è che un mezzo per rendere il cuore più sensibile a tutte? Il solo strumento che serva a renderle pure è la ragione ed ho già detto che la ragione non sortisce alcun effetto a tea tro.33

Le passioni suscitate dalle rappresentazioni non solo non sono ritenute diverse per qualità da quelle sperimentate nel- la vita ordinaria, ma possono assumere anche una funzione di sensibilizzazione, aumentandone il potere e, insieme, in- debolendo le facoltà razionali. In risposta a Du Bos – che è esplicitamente menzionato – Rousseau, riferendosi ancora all’esperienza personale come parametro di giudizio, nega che le passioni suscitate dalle imitazioni artistiche abbiano qualche tratto che le distingua dalle loro analoghe nella vita reale: non sono né più deboli di esse, né la loro sostanza viene trasformata dalla consapevolezza della loro origine

nella finzione;34 inoltre, esse hanno la proprietà di fungere

da surrogato delle responsabilità che ciascun individuo ha per i suoi simili, poiché intenerirsi dinanzi allo spettacolo delle sventure di un personaggio può sostituire, senza alcun impegno effettivo, il dovere di prestare soccorso al prossimo in difficoltà, con il sentimento di aver adempiuto all’incom- benza e senza alcun peso sulla coscienza:

In fondo, quando un uomo è andato ad ammirare delle azioni encomiabili in qualche favola ed a versare qualche lagrima per delle infelicità immaginarie, che si vuole ancora

33. Ivi, p. 43. 34. Ivi, pp. 46 e nn.

Riforma della scena ed e(ste)tiche della rappresentazione 117

da lui? Non è contento di se stesso? Non si compiace per la sua anima bella? Non ha pagato il suo debito con la virtù, rendendole omaggio? Cosa si pretenderebbe che facesse di più? Che praticasse egli stesso la virtù? Questo ruolo non gli compete: non è mica un commediante [comédien].35

La conclusione di questo passo anticipa un’espressione paral- lela nella pars construens con cui termina la Lettre dove – dopo aver completato un dettagliato excursus sui possibili effetti indesiderati che l’introduzione degli spettacoli provoche- rebbe sui costumi e sull’economia di Ginevra – Rousseau si sente in obbligo di esprimere la propria opinione sulla que- stione essenziale della reale necessità delle rappresentazioni sceniche in una repubblica modello. Il suo ideale di evento performativo, in tali fortunate circostanze sociopolitiche, è la festa: una festa, però, dove non c’è nulla da esibire e che trova il suo significato nella felicità e nella libertà dei cittadini che vi partecipano, raccolti intorno al semplice segno di un palo sormontato da fiori; e questa festa culminerà quando gli spettatori diventeranno essi stessi spettacolo: «rendete essi stessi attori [acteurs]; fate in modo che ciascuno veda e ami se stesso negli altri, affinché tutti risultino più uniti».36

Non è soltanto la parola acteur che eleva lo spettatore di tale festa al di sopra della condizione vile del comédien, ma è la forma stessa dell’evento, in cui scompare ogni separazione tra chi assiste e chi agisce, e chi osserva e chi è osservato si fonde in un unico soggetto. Anche se il tea tro fosse in grado di trasformare gli spettatori, e riuscisse a far adottare loro il modello delle virtù esaltate nei drammi, ciò significhereb- be sempre assumere un ruolo, cioè – dal punto di vista di Rousseau – conformarsi senza convinzione a una personalità differente, svilendo la propria natura individuale: accogliere in sé i tratti essenziali del comédien, così come erano descritti nelle pagine precedenti.

Gli spettatori-attori di queste feste ideali non avrebbero invece altro ruolo oltre il proprio e, nell’altrettanto ideale prospettiva di una società di uguali, al contempo vivrebbero e vedrebbero rispecchiata la loro condizione negli altri. L’op- posizione tra festa e tea tro, in Rousseau, riflette l’opposizione

35. Ibid.