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NS´ [Ghosh], pp 145-146 (VII, 92-94.) Riportiamo per un confronto le altre

Te orie e vi sioni de ll ’es perienza

5. NS´ [Ghosh], pp 145-146 (VII, 92-94.) Riportiamo per un confronto le altre

versioni: NS´ [Rangacharya] (p. 51): «Perché questi Bha¯va sono chiamati Sa¯ttvika? Vuol dire che gli altri Bha¯va sono interpretati senza Sattva (emozione, qualità rea- listica)? La risposta alla domanda sopra è affermativa. Poiché Sattva, che significa emozioni o genuinità, è la qualità della mente (lett. prodotta dalla mente). Ciò è possibile solo quando la mente è controllata. Il controllo della mente porta alla soddisfazione immediata (realizzazione). Cose come sentirsi rabbrividire, lacrime, pallore, ecc. non possono essere realizzati se la mente è turbata. L’emozione è ne- cessaria nel Na¯t.ya riguardo al comportamento dei personaggi che devono essere rappresentati. I dolori e i piaceri che si verificano nel Na¯t.ya per sembrare naturali, devono essere emozionalmente corretti. Come può uno che non sente dispiacere gridare di dolore? Come può una persona infelice apparire gioiosa per la felici- tà? Quando si sente dolore o gioia e si versano lacrime o ci si sente rabbrividire, ciò si chiama emozione; e quindi il Bha¯va è chiamato emozionale». NS´ [Satguru] (p. 109): « “Allora gli altri Bha¯va menzionati sono privi di Sattva? Perché chiami solo questi Sa¯ttvika Bha¯va?” Qui si risponde così: “In questo contesto Sattva signi- fica originante nella mente. è causato dalla mente quando c’è concentrazione. Attraverso la concentrazione mentale il Sattva si sviluppa. La sua natura include Stambha (Paralisi), Sveda (Traspirazione), Roma¯ñca (orripilazione), As´ra (lacri- me), Vauvarn.ya (perdita di colore) e altre cose. Esse non possono essere ritratte appropriatamente da una persona mentalmente assente. Quindi i Sa¯ttvika sono ri- chiesti nella rappresentazione in modo che la natura umana sia appropriatamente imitata e per nessun altro fine’’. fine. Qui l’obiettore chiede: “Esiste qualche esem- pio per questa cosa?” A questo riguardo rispondiamo: “”Qui bisogna esaminare il Na¯t.ya Dharma (attività tea trale), cioè le situazioni che richiedono felicità o infeli- cità. Esse dovrebbero essere ritratte in maniera tale da accordarsi con il tempera- mento che le sottende, al fine di diventare realistiche. Ciò che è chiamato Duhkha (infelicità) ha il pianto come base. Sukham (felicità) ha il piacere come base. Il dolore come può essere rappresentato da uno che non è addolorato? Come può

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Il testo sembra presentare qui un’affermazione contrad- dittoria, passando dall’indicazione della coincidenza, nei sa¯ttvika, tra stato rappresentato e stato esperito dall’attore alla spiegazione conclusiva secondo cui la necessità di tali stati è motivata dal fatto che essi devono essere rappresentati da individui che non sono affetti dalla condizione psicofisi- ca che li determina. Inoltre, il riferimento a stati di gioia o tristezza non aiuta a individuare il collegamento con gli stati sa¯ttvika, che – com’è evidente – sono essenzialmente sinto- mi fisici, richiesti come ingredienti necessari all’espressione degli altri bha¯va.

Ci sono alcuni indizi, tuttavia, che possono suggerire un’in- terpretazione del testo coerente: in primo luogo, si segnala che l’obiettivo degli stati sa¯ttvika è che le situazioni in cui sono uti- lizzati «possano apparire realistiche», e il traduttore si premura di riportare tra parentesi il termine sanscrito yatha¯svaru¯pa, che approssimativamente può essere reso con l’espressione “come se qualcosa fosse di tale forma (o natura)” ed è inserito in un contesto ove si specifica che la questione riguarda la pratica tea trale; poi, poche righe sopra, si indica sia il metodo e la modalità di tali espressioni: l’uno si basa sulla concentrazione mentale, l’altra è esplicitamente definita come una contraffa- zione, un’imitazione, non un fenomeno “reale”.

In altri termini, le emozioni personali dell’attore non sono comprese nella rappresentazione degli stati sa¯ttvika, benché la loro natura di manifestazioni fisiche involontarie possa suggerire uno stato di profonda identificazione con la condizione del personaggio. Se l’attore si immedesimasse nel personaggio al punto di rendere indistinguibili le due personalità, le stesse premesse del processo che porta alla produzione del rasa sarebbero invalidate, perché la condi- zione di generalizzazione necessaria verrebbe a mancare, annullata dalla mancanza di una relazione dialettica tra chi rappresenta e chi è rappresentato. E si ripeterebbe l’erro- re della ninfa Urvas´ı¯, che aveva cancellato la distanza tra sé e il personaggio sostituendo la propria condizione reale di innamorata alla rappresentazione dello stato d’animo gene- ralizzato dell’innamoramento.

essere presentata la felicità da uno che non è felice? Quindi la spiegazione è che le lacrime e l’orripilazione dovrebbero essere mostrate da una persona addolorata o felice». Come si nota, le conclusioni divergono sensibilmente.

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È ancora Abhinavagupta che, nel suo commento al Rasasu¯tra, ci fornisce elementi preziosi per andare più a fon- do nella questione della condizione dell’attore:

Né, ancora, l’attore ha questa nozione, “Io sto riprodu- cendo Ra¯ma o il suo sentimento”. Giacché una riproduzio- ne, ovvero, una produzione di azioni simili (sadr.s´akaran.am) a quelle di qualcuno la cui natura non abbiamo mai perce- pito, non è possibile. E se dite che il significato del termine riproduzione è produzione successiva (pas´ca¯tkaran.am), tale riproduzione, replichiamo noi, si estenderebbe anche alla vita ordinaria. Si può dire, magari, che l’attore non riproduce un essere particolare (niyata), e che ha soltanto la nozione, “Io sto solo riproducendo il dolore di un nobile personag- gio (uttamaprakr.ti)”. Ma allora, replichiamo noi, da che cosa viene eseguita questa riproduzione? Questo è il problema. Certo non dal dolore, dal momento che è assente dall’attore. Indubbiamente non dalle lacrime, ecc., perché queste, come già detto, sono di una natura diversa da quella del dolore. Si può replicare: bene, allora diciamo che, nell’attore, si verifica la seguente percezione: “Io sto riproducendo i conseguenti del dolore in un personaggio nobile”. Ma in questo caso, an- cora, noi osserviamo, quale personaggio nobile? Se dite “un personaggio nobile qualsiasi, non importa chi’”, allora noi re- plichiamo che nessun personaggio può essere richiamato alla mente senza un’idea definita (vis´is.t.ata¯m vina¯). Se, d’altra par- te, dite che l’attore riproduce un personaggio che avrebbe pianto nel modo in cui lo fa lui, allora interviene anche la sua personalità (sva¯tma¯) così che la relazione riprodotto-ripro- ducente non esiste più. Inoltre l’attore non ha la coscienza di eseguire una riproduzione. La performance dell’attore, in real tà, ha luogo soltanto per tre cause: la sua perizia nell’arte, la sua memoria dei suoi propri determinanti, ed il consenso del suo cuore, stimolato dallo stato di generalizzazione dei sentimenti; ed in virtù di questo, egli mostra i conseguenti corrispondenti e legge il poema con le adatte intonazioni di accompagnamento (ka¯ku) della voce. Di conseguenza, egli è cosciente soltanto di questo e non di riprodurre qualcuno.6

La capacità di riprodurre i sintomi fisici di uno stato emozio- nale non è conseguenza dell’identificazione con il personag- gio, ma dipende dall’approccio dell’attore alla rappresenta- zione, che dev’essere considerato in termini di una relazione

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tra ciò che è da riprodurre e la modalità della riproduzione, non come sostituzione di personalità. Personaggio e attore coesistono al momento della rappresentazione, e all’attore è chiesto di interagire costantemente con il personaggio, dal momento che la condizione della generalizzazione risiede in una sorta di estraneazione dalle personalità individuali, come se l’espressione universale potesse essere attinta solo attraver- so la cancellazione di ciò che è specifico di entrambi. E ciò può avvenire solo se l’attore rivela l’esistenza di una relazione tra sé e il personaggio, sottraendosi all’identificazione.

Abhinavagupta, al contrario di Vis´vana¯tha, non considera la performance attoriale solo come una questione di tecnica acquisita tramite insegnamenti e pratica, ma individua come essenziali anche la memoria dei Determinanti personali (una sorta di memoria emozionale, focalizzata più sugli stimoli che non sulle reazioni) e «il consenso del cuore», che è la medesi- ma disposizione che lo spettatore deve assumere per godere dell’esperienza del rasa. Tutto ciò converge nell’esecuzione di un compito che non si limita all’esibizione di gesti, azioni e intonazioni codificate, ma richiede un più ampio coinvol- gimento creativo, che deve esplicitarsi nella scelta delle solu- zioni più appropriate, in rapporto alla coscienza dei propri stati emozionali e del significato poetico delle situazioni.

La tecnica attoriale non è quindi né la base di un’esecu- zione meccanica di cliché appresi tramite l’esercizio, né un punto di appoggio per uno stato estemporaneo di immede- simazione con il personaggio, ma uno degli elementi che consentono la trasformazione in uno strumento per traspor- re il rasa dall’esperienza elaborata dal poeta al pubblico. Il termine pa¯tra, che significa “coppa” o, più estensivamente, “utensile per bere”, ed è usato per designare sia l’attore che il personaggio (o, forse meglio, la funzione del complesso attore-personaggio), suggerisce una mancanza di sensibilità, come sostiene Lyne Bansat-Boudon commentando Abhina- vagupta, perché se anche gli attori fruissero dell’esperienza del rasa, che è contemplativa e non attiva, la rappresentazio-

ne stessa ne sarebbe notevolmente inficiata.7

7. «Qu’adviendrait-il, en effet, de la représentation – car le rasa se définit comme

un enchantement – si l’acteur, à l’image du public, se laissait fasciner et immobi- liser par le jeu théâtral dont il a l’entière responsabilité? C’est, conclut Abhinava- gupta, le rythme même du spectacle qui en serait brisé: “Si l’acteur était assujetti à

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Tuttavia, Abhinavagupta non sembra introdurre parti- colari distinzioni tra la sensibilità dell’attore e quella dello spettatore, che sono entrambe definite con lo stesso termine che denota la qualità peculiare alle persone dotate di sensibi- lità (hr.dayasam.va¯da, sinonimo di sahr.dayata¯)8 e che Raniero

Gnoli traduce con «consenso del cuore». Sorge il dubbio che, come nel caso delle divergenti accezioni di sensibilité nel xviii secolo, anche in questo caso le divergenze possano es- sere risolte differenziando l’uso comune del termine dal suo significato in campo estetico e, in special modo, nel contesto della creazione attoriale: il che ci porterebbe a individuare una certa affinità tra la posizione espressa da Diderot e la concezione dell’attore del filosofo s´ivaita.

Non è di questo parere Bansat-Boudon che, quantunque ammetta l’insensibilità dell’attore al rasa per questioni di ordine pratico, sostiene però che il coinvolgimento richie- sto per l’esecuzione della parte comporta suggerisce una condizione «loin de l’acteur absent dont le Paradoxe sur le comédien fait le portrait»;9 bisogna però osservare che gli aned-

doti di Diderot sulla capacità di attori e attrici di estraniarsi temporaneamente dai loro ruoli per occuparsi di questioni personali, o per prestare attenzione a circostanze estranee alla rappresentazione, sono utilizzati più per mettere l’ac- cento sulla loro facoltà di agire secondo un duplice livello di coscienza che non per dare prova della loro insensibilità; l’expérience du rasa, il serait pénétré par des émotions réelles au moment de jouer la mort, etc., et s’ensuivrait une interruption du tempo, etc.”» (L. Bansat-Boudon,

Pourquoi le théâtre? La réponse indienne, Paris, Mille et un nuits, 2004, p. 103). 8. Ivi, p. 112.