• Non ci sono risultati.

La cura omeopatica agisce infatti sì con la somministrazione dello stesso prin-

Te orie e vi sioni de ll ’es perienza

29. La cura omeopatica agisce infatti sì con la somministrazione dello stesso prin-

cipio attivo che è causa della patologia, ma tale principio è assunto dal paziente in forma talmente diluita che i suoi eventuali effetti negativi sono trascurabili; peraltro, il fatto che la diluizione è spinta ben oltre il limite espresso dal numero di Avogadro, sotto il quale non si può parlare di presenza di molecole di una data sostanza, costituisce l’obiezione scientifica più consistente alla reale efficacia dell’omeopatia.

Teorie e visioni dell’esperienza “teatrale” Edoardo Giovanni Carlotti 46

cui era esposta, tanto da spingere all’ipotesi (peraltro non facilmente dimostrabile) di una sua influenza diretta sullo

sviluppo della tecnica catartica di Breuer e Freud,30 che a

sua volta è stata un punto di riferimento per la teoria e la pratica dello psicodramma di Jacob L. Moreno; tali questio- ni, tuttavia, riguardano un’esperienza diversa, in cui attore e spettatore si concentrano nella medesima persona, in un contesto che può essere definito di auto-rappresentazione. In ogni caso, anche se la terapeutica – se vogliamo intender- la in tal modo – della catarsi aristotelica ha luogo, secondo le informazioni che abbiamo a disposizione, esclusivamente sul versante dello spettatore, non si può negare che abbia ispirato svariate tecniche novecentesche, tuttora in fase di evoluzione, rivolte al trattamento di psicopatologie, disturbi psicologici, o anche condizioni di disagio psicosociale, af- frontati tramite la condizione di auto-rappresentazione. In ogni caso, sussiste una linea di separazione ben definita tra ciò che Aristotele ci ha trasmesso e come è stato sfruttato il concetto di catarsi nella modernità.

Nella Poetica, si è visto che il concetto di catarsi entra come parte integrante della definizione di tragedia, fianco a fianco con osservazioni di poetica e retorica; e se la sua introduzione appare, a un primo sguardo, abbastanza sorprendente, lo è certamente meno quando si constata che, nel medesimo trat- tato, è frequente la ricorrenza non tanto del concetto, quanto dell’endiadi pietà-paura ad esso collegata, in special modo nei passi in cui Aristotele offre indicazioni circa la scelta dei

30. «L’evoluzione della tecnica catartica sembra legata ad altri sviluppi coevi. Juan

Dalma ha fatto notare che Jacob Bernays, zio della futura moglie di Freud, si era occupato a lungo del concetto aristotelico di catarsi drammatica. A Vienna, come altrove, l’argomento era nel suo complesso molto dibattuto tra gli studiosi e nei sa- lotti e per un certo periodo aveva addirittura assunto le proporzioni di una mania. Secondo Hirschmüller, all’altezza del 1880 le idee di Bernays avevano ispirato cir- ca settanta pubblicazioni in tedesco sulla catarsi, che nel 1890 erano più che rad- doppiate. Sembra verosimile che una ragazza intelligente come Anna O. fosse al corrente dell’argomento e avesse inconsciamente incorporato queste conoscenze nella vicenda drammatica della sua malattia. E il collegamento tra il senso tea trale e quello medico della catarsi non era certo trascurato da Bernays e da altri. Non si sa se Breuer and Freud fossero al corrente delle idee di Bernays mentre stavano elaborando la loro teoria dell’isteria. Però è estremamente difficile credere che non lo fossero; e un anno dopo la comparsa di Studien in Hysteria (1895), Breuer, il quale aveva un particolare interesse per il tea tro greco, discuteva le opinioni di Bernays in una lettera a Theodor Gomperz» (F.J. Sulloway, Freud, Biologist of the

La catarsi aristotelica

47

personaggi e delle situazioni da rappresentare, allo scopo che tali emozioni siano adeguatamente percepite da coloro che assistono alla lettura o alla rappresentazione dell’opera tragica.

Di conseguenza, se assumiamo che la catarsi non fosse esclusiva dell’esperienza della tragedia (un’assunzione che non manca di ulteriori indizi, oltre l’esplicito riferimento nel De Mysteriis) ma coinvolgesse anche altre emozioni diver- se in contesti diversi, si potrebbe pensare che l’intento del filosofo fosse quello di esporre regole di composizione che rispettassero le caratteristiche essenziali del genere tragico, insistendo sulla distinzione tra ciò che suscita pietà e paura e ciò che può provocare reazioni ben distinte, come la ripu- gnanza o l’orrore.31 Il testo stabilisce infatti espressamente

che la questione principale riguarda l’effetto della composi- zione, e sembra essere informato al principio dell’immediata corrispondenza tra lo stimolo e la reazione, come se la qualità di un’opera d’arte non potesse essere accertata con mezzi più adeguati. Se, come suggerisce Bernays, l’uso ripetuto dell’endiadi pietà-paura implica la loro mutua interazione, mediante cui tali emozioni sono private dei loro aspetti dolo- rosi o sgradevoli nello stato peculiare dell’esperienza estetica, non dovrebbe affatto sorprendere che un trattato di poetica contenga indicazioni su come suscitarle negli spettatori. In altre parole, chiunque presenti a un pubblico un’opera di imitazione – un’opera d’arte – deve essere pienamente con- sapevole dell’effetto che essa deve produrre e, di conseguen- za, deve avere padronanza totale dei mezzi per produrlo.

Suscitare la pietà e la paura non è allora un effetto secon- dario della tragedia ma la sua stessa raison d’être, se si accetta la nozione che l’esperienza estetica non è solo una momen- tanea condizione di piacere intellettuale ma ha considerevoli effetti psicofisici sull’individuo. In ogni caso, poiché in epoca aristotelica si concordava universalmente che il fine dell’arte fosse il piacere – anche se hedoné e kátharsis non erano affat- to sinonimi – non sarebbe infondato dedurre che il piacere tratto dalla tragedia dovesse consistere nel sentimento della “purificazione” delle emozioni, ovvero nella coscienza delle emozioni stesse sotto forma di esperienza non ordinaria o,