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Benché le opere a stampa contro il tea tro abbondino tra Cinque e Seicento, le

Te orie e vi sioni de ll ’es perienza

14. Benché le opere a stampa contro il tea tro abbondino tra Cinque e Seicento, le

argomentazioni da esse proposte sono solitamente rielaborazioni della patristica: sia in campo cattolico che protestante, raramente si trovano trattati o pamphlet che utilizzano l’esperienza in prima perdona come fonte d’informazione. Un caso particolare, in epoca elisabettiana, è The School of Abuse di Stephen Gosson, scritto dal punto di vista di un uomo di tea tro “pentito” (cfr. S. Gosson, The Schoole of

Abuse, containing a pleasant invective against Poets, Pipers, Plaiers, Jesters and such like Caterpillars of the Commonwealth (1579), in Early Treatises on the Stage, London, Shake-

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presidiata nella misura in cui costituiva uno dei pilastri più solidi della vita collettiva: il pericolo non riguardava adesso tanto l’osservanza religiosa, quanto la società nel suo com- plesso, poiché la diffusione tramite le rappresentazioni di modelli negativi avrebbe potuto causare serie conseguenze sulla stabilità sociale.

Un punto di vista diverso era, invece, quello degli intellet- tuali che avevano recepito la tradizione umanistica e rivaluta- to l’antichità classica, per i quali il tea tro doveva riacquisire lo status di legittima attività sociale e di risorsa per la collettività, esercitando le sue potenzialità di strumento educativo, come indicava la sua fioritura in epoche esemplari per avanzamen- to politico e culturale.

In mezzo a queste posizioni contrastanti, e testimoni del crescente interesse generale per le rappresentazioni dram- matiche, gli emergenti stati moderni si trovarono obbligati ad affrontare la questione direttamente, e le forme di intervento da essi individuate erano principalmente mirate a un’opera di indulgente regolamentazione, giacché interventi più ra- dicali erano ormai divenuti una prospettiva impraticabile; quando vennero adottate misure repressive, esse furono sol- tanto temporanee (con la notevole eccezione dell’Inghilterra sotto i puritani), e la politica più seguita si configurò come la ricerca di uno sfruttamento delle potenzialità educative degli spettacoli. Le eventuali problematiche di ordine pub- blico, comunque, sarebbero state più agevoli da affrontare che non le questioni riguardanti gli effetti a lungo termine della frequenza dei rinati spazi per le rappresentazioni: una valutazione definitiva, che soppesasse adeguatamente pro e contro e facesse pendere la bilancia dall’una o dall’altra par- te, non ebbe mai modo di essere definita come risoluzione del dibattito, che sarebbe proseguito nel tempo.

Relativamente alla fisionomia assunta dalle rappresenta- zioni drammatiche, la drammaturgia rinascimentale, special- mente tra il xv e il xvi secolo, si associa alla diffusione in Europa di forme tea trali ispirate in parte ai canoni classici e in parte (certamente maggiore) debitrici dei meno codificati esempi di spettacolo medievale, che si evolvono secondo mo- dalità specifiche e differenziate, sottolineando, pur in misura variabile, la necessità dell’autonomia dalla tradizione antica e l’esigenza comune di conformarsi alla sensibilità e al gusto di un pubblico che non si limita più alle cerchie accademiche.

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Il tea tro elisabettiano, il tea tro del Siglo de oro in Spagna, la Commedia dell’Arte e il dramma classico francese mostrano una ricca fenomenologia di forme spettacolari che non può essere ricondotta a un’origine comune, giacché le rispettive “configurazioni oggettuali” e modalità di sviluppo mostrano sensibili difformità, cosi come anche i rispettivi contesti di ricezione, dipendenti dalla struttura dello spazio scenico, che può a seconda dei casi favorire la visione frontale o radunare l’uditorio intorno agli attori.

Nondimeno l’autorità dei classici – messa in discussione più nella pratica che in teoria – rimane il punto di riferimen- to costante della drammaturghi e degli uomini di tea tro, nella misura in cui si propone come modello di legittima attività sociale che non riveste la sola funzione di intratte- nere e occupare il tempo libero. Non è infrequente – an- zi, è abbastanza consueto – che chi fa del tea tro la propria professione si senta in obbligo di sottolinearne il valore cul- turale ed educativo, sia in trattati espressamente composti (come ad esempio l’Apology for Actors di Thomas Heywood), sia in implicite dichiarazioni di poetica inserite nei prologhi dei drammi; quantunque la sincerità e la buonafede del lo- ro richiamo alla tradizione antica non siano in dubbio, va comunque osservato che tali rivendicazioni si trasformano inevitabilmente in definite prese di posizione all’interno del dibattito sull’opportunità delle rappresentazioni sceniche.

È molto raro invece che ci si riferisca alla ricezione del pubblico come criterio di merito, e le captationes benevolentiae sono di solito dirette non a spettatori (o lettori) comuni, ma a chi ha la facoltà di esercitare un controllo delle rappre- sentazioni. A prescindere dagli specifici contesti geografico- culturali, le apologie del tea tro, qualunque sia la loro forma, non hanno come referente principale il pubblico, che del resto non ha bisogno che il lavoro dei poeti o degli attori sia legittimato; piuttosto, è il successo delle rappresentazioni tea trali, emancipate dall’obbligo medioevale di trattare esclu- sivamente (e sporadicamente, ovvero in occasione di certe festività) soggetti religiosi, a destare l’interesse delle autorità, che d’altra parte dovevano approfittare di qualsiasi pretesto per giustificare la loro politica di tolleranza, costantemente criticata.

Il fenomeno significativo che emerge durante il periodo rinascimentale e barocco, con l’eccezione dei casi di mecena-

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tismo, è la dipendenza delle compagnie tea trali da un pubbli- co disposto a versare un corrispettivo in denaro per assistere agli spettacoli; e la dimensione di questo pubblico è reputata abbastanza ingente da consigliare alle autorità preposte di vigilare sulle conseguenze delle rappresentazioni sulla vita collettiva.

In questa fase, l’esperienza delle arti performative si tra- sforma in una sorta di bene voluttuario, alla cui fruizione è riservato uno specifico momento dell’esistenza che, con l’emergere dei modi di produzione moderni, non è più tem- po consacrato, ma tempo libero: una dimensione ai margini della vita sociale, che non è lavoro, in quanto improduttiva, ma non può neppure essere definita gioco, dal momento che si configura come un’offerta di servizi, quantunque non essenziali. Questa caratteristica facilitava, per gli avversari del tea tro, la comparazione della professione attoriale con la prostituzione, nella scia di una tradizione che datava all’Im- pero romano e alle invettive dei Padri della Chiesa. Di con- seguenza, l’esigenza fondamentale, per gli uomini di tea tro, era precisare e sottolineare a ogni occasione che i servizi da loro offerti non erano esclusivamente mirati al piacere e al divertimento, e – se questi effetti non potevano ragionevol- mente essere negati – essi venivano associati, come mezzi, a fini nobili ed edificanti. I drammaturghi e gli attori espleta- vano il compito rivendicando la qualità dei loro lavori, che era tanto più elevato quanto più si sosteneva all’istruzione e all’erudizione di chi ne era responsabile.

Tra i comici dell’Arte in Italia, ad esempio, troviamo attori e attrici che entrano a far parte di accademie (o anche com- pagnie che si battezzano con denominazioni sulla falsariga di tali istituzioni) e sono orgogliosi di dimostrare, direttamente sulla scena o attraverso i loro scritti, l’entità degli studi e delle ricerche che sottendono le loro improvvisazioni, che riven- dicano come ispirate dalla tradizione classica. Simili rivendi- cazioni erano magari più ardue da sostenere in paesi, come la Spagna o l’Inghilterra, ove le forme di rappresentazione erano debitrici più alla pratica scenica medioevale che non ai modelli greci o romani. Tuttavia, l’antichità classica è un orizzonte di riferimento condiviso anche dagli usi dramma- tici che avevano pochi elementi di affinità con i paradigmi trasmessi ed evidenziavano, invece, segni inequivocabili di un’attitudine diversa nei confronti della convenzione tea-

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trale, conforme ai “moderni” cambiamenti di gusto e sensi- bilità; e certamente moderna – e tipica dei periodi in cui le produzioni sceniche devono confrontarsi col pubblico anche in termini economici – è la pratica di verificare direttamente in sede di rappresentazione tali soluzioni. Quindi, se da una parte un drammaturgo (estendendo qui la funzione anche a chi si incarica dell’allestimento di uno spettacolo) è indotto a presentare i propri lavori giustificandoli con l’osservanza dei dettami di una tradizione legittimata e condivisa, dall’altra nuove generali condizioni di ricezione impongono conside- razioni di ben più ampia portata in merito al senso delle convenzioni sceniche, e di conseguenza alle relazioni che intercorrono tra esse e la real tà, suscitando interrogativi sullo stesso statuto delle rappresentazioni drammatiche.

Nell’Inghilterra elisabettiana, è sufficiente una visione panoramica dell’opera drammatica shakespeariana per per- cepire che in essa l’emergere delle rappresentazioni tea trali come parte integrante della vita sociale implica una riflessio- ne sull’esperienza che esse propongono, e spinge a un impie- go ricorrente di termini come «immaginazione» e «sogno», introdotti – da una parte – per giustificare l’inadeguatezza della scena alla costruzione di un’immagine plausibile della real tà nelle correnti condizioni tecniche di rappresentazio- ne; dall’altra, a suggerire un’attitudine spettatoriale che ha qualcosa in comune sia con il risultato atteso dall’effetto di straniamento brechtiano, sia con la «volontaria sospensione dell’incredulità» di Coleridge.

Le osservazioni sulla poetica del tea tro disseminate nei drammi di Shakespeare, intese anche come risposta a chi proponeva il rispetto delle cosiddette regole aristoteliche come garanzia della verità della rappresentazione, possono essere viste sia come una rivendicazione di appartenenza a un’altra tradizione, meno antica ma certo più viva, sia come un implicito invito ad assumere uno sguardo diverso sulle presenze e gli eventi della vita reale, le cui immagini appaio- no rispecchiate sulla scena nella forma di simulacri agenti, che condividono la medesima materialità onirica e transito- ria degli esseri umani e, proprio come loro, interpretano un ruolo nel corso del breve momento della loro apparizione.

Nella storia della cultura tea trale occidentale, il caso di Shakespeare è probabilmente una singolarità, in cui gli stessi assunti che, nel giro di pochi decenni, si trasformeranno in

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consuetudini nella pratica della rappresentazione illusionisti- ca, sono temporaneamente invalidati, lasciando spazio a una rivalutazione degli elementi essenziali che avevano caratte- rizzato l’emergere del fenomeno drammatico ai suoi esordi. Un aspetto notevole della riflessione shakespeariana sul- la scena – e avremo occasione di ritornarvi in un momento successivo – riguarda la sua concezione dell’interpretazione attoriale, dove l’espressione degli “affetti” e delle “passioni” (ovvero delle emozioni) è descritta come un’azione volon- taria sul corpo tramite l’immaginazione, percepita come re- ale ma fittizia, essendo lo stadio conclusivo di un processo in cui il «conceit» immaginativo prende forma visibile nelle modificazioni fisiche del corpo. Questa concezione, che ave- va ovviamente come base principale l’esperienza in prima persona, benché sia molto probabilmente influenzata dalle osservazioni sull’espressione delle emozioni esposte all’epoca

dal gesuita Thomas Wright,15 è il complemento ideale alla sua

concezione della rappresentazione come un’esperienza in cui l’immaginazione svolge il ruolo principale, ricontestualiz- zando gli stimoli percettivi attraverso la consapevolezza della convenzione scenica.

Tuttavia, le posizioni di Shakespeare non possono certo essere viste come rappresentative dell’attitudine prevalente all’epoca, giacché l’influenza del modello illusionistico conti- nentale era in via di diffusione costante, fino alla sua afferma- zione definitiva con la restaurazione della monarchia. Tale modello, saldamente fondato sulle regole aristoteliche, era sotteso dalla convinzione che la verosimiglianza dei contenuti drammatici, e dunque il senso educativo ed edificante dell’e- sperienza, fosse garantito dal rispetto delle regole aristoteli- che. Benché frequentemente la pratica scenica confutasse gli assunti teorici, l’aspirazione alla verosimiglianza, intesa come