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L’abito politico della scuola

Il fascismo, Bottai e la tradizione classica

3.1 L’abito politico della scuola

Intensi malumori fra uomini di scuola, accese critiche provenienti dagli ambienti universitari, forti polemiche espresse dai comitati dei padri di famiglia e personale insoddisfazione del Duce per l’operato di De Vecchi sono state le ragioni del passaggio della Minerva a Giusep- pe Bottai. Questi il 15 novembre 1936 assunse l’incarico ministeriale di riformare globalmente l’ordinamento scolastico italiano. Riforma e non prosecuzione della politica dei ritocchi che, infine, aveva determi- nato l’oblio del pensiero centrale animatore della riforma Gentile. Con Bottai la scuola indossò un abito politico, in conformità con l’analogia insita e voluta dal Fascismo fra la sfera formativa e didattica e quella sociale e politica. Di prim’ordine, infatti, appariva la necessità di in- staurare un collegamento fra la nuova situazione economica di un’Ita- lia in guerra e bisognosa di una ripresa e l’esigenza di una istruzione tale da risultare consona alle reali condizioni sociali e alle richieste avanzate dal mondo del lavoro.

La progettata riforma, tuttavia, prendeva spunto da elementi ag- giuntivi e non secondari: in particolare, a dare moto al meccanismo della revisione e della ristrutturazione educativa furono le considera- zioni circa il divario ideologico fra cultura umanistica e cultura del la- voro, il pregiudizio assai diffuso fra gli italiani nei confronti della scuola tecnica dispensatrice di una formazione agli occhi dei più se- condaria, la parallela perdita di prestigio della cultura umanistica e il conseguente ripiegamento di tanti e troppi giovani nel liceo classico che ormai aveva aperto le porte a tutti.

A differenza di Gentile, le questioni enunciate trovavano nella men- te del nuovo ministro una trattazione diversa, una risoluzione che, ben lontana dal ripristinare metodologie elitarie e selettive, affrontava il

problema rovesciandone le angolazioni di analisi e, di conseguenza, riordinando e “risanando” la vera scuola del popolo, ossia la scuola di avviamento professionale. Diversamente da Gentile, inoltre, il genera- le problema della scuola non assumeva con Bottai alcuna dimensione filosofica e intellettuale. La divergenza tangibile fra ramo classico e sezione tecnica, così come il contrasto fra scuola e politica e fra uni- verso dell’istruzione e mondo produttivo, restava agli occhi di Bottai il groviglio problematico da sciogliere.

La necessità, dunque, di un rinnovamento della società e dell’inte- ro sistema scolastico italiano non trovava conforto ed elementi di svi- luppo nella tradizionale e conservatrice struttura dell’istruzione classi- ca, ovvero di quel liceo che continuava a percorrere le note strade di un metodo didattico a lungo provato e considerato immutabile. Il rigore dell’analisi logica e l’assidua lettura dei classici costituivano gli ele- menti della formazione dei giovani, per sorte destinati al raggiungi- mento delle vette elevate dei ranghi sociali.

Il Fascismo, dal canto suo, alimentava il perpetuarsi di questa pra- tica educativa, proponendo ed estendendo l’insegnamento del latino ad una popolazione studentesca notevolmente accresciuta. Il latino impe- riale costituiva l’oggetto di un apprendimento concentrato su una mas- siccia dose di regole grammaticali, nei quadri di una contorta convin- zione secondo la quale la pedissequa concentrazione prestata dagli adolescenti nello studio delle norme grammaticali e delle strutture morfo-sintattiche greche e latine, oltre ad agevolare lo sviluppo delle abilità mentali, rappresentasse un esercizio di condotta morale, un mo- do di educare l’inquietudine adolescenziale alla moderazione, prezio- sa dose per il “buon” inserimento nella vita fuori dalla scuola. «Dalla grammatica all’etica il passaggio era breve!». Il rigoroso procedimen- to di studio del greco e del latino, intriso di eccessivi esercizi sulla sin- tassi dei casi e del periodo, alimentato da liste di forme grammaticali irregolari, rappresentava, infatti, la certa acquisizione da parte dei gio- vani di un abito mentale “ordinato” e razionale. In altri termini, la mi- steriosa e impegnativa strutturazione frasale dei classici determinava una altrettanto logica e regolare formazione mentale: «La sintassi dei casi e del periodo, quell’accanito compitare ablativi in i e in e, geniti- vi irregolari; gli infiniti modi di rendere una proposizione finale, i rap- porti misteriosi intrattenuti da protasi e apodosi con congiuntivi e con- dizionali, l’interminabile corredo insomma delle regole e delle ecce- zioni di una grammatica assolutamente preponderante che sopravvive nell’avvicendarsi delle generazioni di studenti come memoria cantile-

nante sul ritmo di “spero, promitto e iuro reggono l’infinito futuro”, si esaltava in una sorta di zelo ciceroniano che accomunava padri di fa- miglia ed insegnanti nella rassicurante convinzione che quel tacito “la- boravimus fidenter” attribuito ai loro figli propiziasse alla loro edifi- cazione morale il soccorso moderato e conservatore di un’etica che prim’ancora che nel trattato dei doveri viveva nel rigore della consecu- tio temporum»1.

Proprio qui risiedeva il rovesciamento, attuato da Bottai e più in ge- nerale dal Regime, della filosofia idealista su cui Gentile aveva co- struito la riforma del ’23: la scuola classica pensata dal filosofo sici- liano aveva fatto del latino e del greco i cardini di una istruzione tesa alla formazione dello spirito. Con l’ordinamento fascista era venuta meno la finalità principale della scuola classica gentiliana, vale a dire la formazione dello spirito, era scomparsa la vocazione ad una cultura disinteressata capace di dare impulso alle qualità interiori dell’uomo e di consentire l’acquisizione di giudizio critico che equivaleva a con- quista della libertà interiore. Qualche anno più tardi Antonio Gramsci parlerà del fine disinteressato con cui si insegnavano il latino e il gre- co, discipline scevre di ogni immediato riscontro pratico. Tale studio «appariva disinteressato, perché l’interesse era lo sviluppo interiore della personalità, la formazione del carattere attraverso l’assorbimento e l’assimilazione di tutto il passato culturale della moderna civiltà eu- ropea» e in ciò consistevano, secondo l’autore, il prestigio e la gran- dezza della vecchia scuola dimora di uno studio fondato sul sistema grammaticale greco e latino. Il principio dell’interesse e del riscontro pratico immediato è stato il fattore principale che ha causato la crisi de- gli studi classici e, più in generale, della scuola, determinando come conseguenza l’oblio della principale finalità educativa, vale a dire la formazione del carattere e della personalità. Parallelamente alla perdi- ta di prestigio della cultura classica si assiste ad un più intenso proli-

ferare delle scuole professionali2.

Si poneva ora, di contro, in primo piano un modello formativo ret- to su basi diverse e opposte a quelle del 1923, si diffondeva un model- lo educativo tutto fondato sulla professionalizzazione, consono ad una società che rivolgeva alla scuola la richiesta di formazione professio- nale e che si addiceva a quelle fasce sociali, piccolo-borghesi, ostili al

1A. Scotto Di Luzio, Il Liceo classico, il Mulino, Bologna 1999, p. 159.

2A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Editori Riuniti, Ro-

meccanismo di selezione ed esclusione da specifiche attività e profes- sioni, appannaggio di una ristretta classe sociale. Il curricolo che la scuola classica continuava a proporre veniva messo sotto accusa e, d’altro canto, l’istruzione tecnica subiva una riqualificazione sociale, rivitalizzando il manicheo dualismo fra cultura classica e cultura tec- nica.

A ben guardare, durante gli anni Trenta, nonostante la politica dei ritocchi e la definizione di un nuovo ordinamento scolastico operata da Bottai, il piano di Gentile non ne usciva privato delle sue caratteristi- che strutturali. Il vero tradimento andava al di là delle modifiche nel meccanismo di selezione e nell’alleggerimento degli orari e dei pro- grammi d’esame; l’atto di snaturamento della riforma Gentile si cela- va dietro il binomio scuola-politica e, dunque, dietro la relazione istru- zione-formazione pratica, politica, corporativa. Il problema, infatti, ri- siedeva nella fascia mediana della scuola, in quel settore medio dell’e- ducazione che necessitava, in questi anni in particolare, una unità strut- turale.

Da qui nasceva l’ipotesi, ventilata e auspicata da più di cin-

quant’anni3, della scuola media unica e si riproponeva con una luce di-

versa il tema delle lingue classiche, del latino in primis, con implica- zioni circa la definizione della loro finalità formativa. In altri Paesi d’Europa le ipotesi di creare una scuola media unica emersero a inter- valli temporali frequenti. In Francia, ad esempio, la riforma del 1923, che porta il nome di Bérard, estendeva il latino a tutti per almeno quat- tro anni dell’istruzione secondaria e il greco per almeno due anni. In Austria fu avanzata la proposta di una scuola media, successiva alla scuola primaria unica di quattro anni. La scuola media inferiore, qua- driennale, si ramificava al terzo anno in tre indirizzi: scuola media con latino, scuola media con lingue moderne, scuola media di cultura na- zionale. In Italia l’obiettivo del progetto veniva palesato nel discorso «Sul bilancio dell’Educazione Nazionale» pronunciato alla Camera dei

Deputati il 17 marzo 19374, in cui i concetti di unità e di vita attiva, va-

le a dire di vita fondata sul lavoro, esortavano alla creazione di un set- tore medio derivato non da una semplice comunione di classico e tec- nico, da una «miscela» che – affermava Bottai – « può, a lungo anda-

3I primi progetti di unificare il grado inferiore della scuola secondaria risalgono

al 1861. In proposito, si veda Capitolo 1, intra, pp. 25-47.

4Il testo della relazione si trova inserito in G. Bottai, La nuova scuola media, San-

re, darci davvero una cultura “media”; ma “media” nel senso di “me-

diocre”»5, bensì dalle esigenze sociali, nazionali e politiche.

La nuova scuola media proposta da Bottai nasceva con finalità nuo- ve e altre rispetto a quelle dei vecchi corsi inferiori delle scuole secon- darie. Allo stesso modo, «il problema, che è politico, che è scolastico, che è morale, appare, in pieno, un problema di difesa della cultura», poiché «tutta la scuola che non sia animata da un serio e preciso con-

cetto della cultura e della vita, è una cattedra di rettorica»6. Sono già

manifeste, prima ancora di enunciare nei particolari l’impianto del si- stema scolastico pensato da Bottai, le linee generali dell’ideologia pe-

dagogica fascista. La Carta della Scuola7, presentata al Gran Consiglio

del Fascismo nel 1939, è la fonte storica più fedele per ricostruire ciò che avrebbe potuto significare, per l’Italia e per la scuola italiana, una simile operazione di indottrinamento e un tale progetto formativo dei giovani del nostro Paese.

La condizione prima che non determinò la possibilità di una piena attuazione del piano va ricercata nello sconvolgimento provocato dalla guerra che, di lì a poco, segnò la tappa della distruzione materiale e della fine della dittatura del Regime; al tempo stesso impose un nuovo scenario su cui dover apporre il sigillo della ricostruzione, non solo fi- sica ma anche e principalmente morale, e del risanamento di una scuo- la, d’ora in avanti, ispirata a principi nuovi di libertà e di democrazia.

La novità senza dubbio più eclatante sotto il ministero di Giuseppe Bottai, ossia la proposta di creare una scuola media unica, avrebbe do- vuto ricoprire, nella mente del ministro e nel pensiero del Duce, un ruolo sociale di alto prestigio. Infatti, la scuola media unica diveniva l’istituzione deputata ad accogliere i giovani provenienti dalla piccola e media borghesia, assicurando di conseguenza la possibilità di mobi- lità sociale e formando quelle classi sociali che più sostenevano il Fa- scismo. In realtà, l’unificazione del ginnasio, dell’istituto tecnico e magistrale inferiore da cui sarebbe sorta la scuola media si rivelò a ben

5Ibidem, p. 32. 6Ibidem, pp. 33-34.

7È importante notare l’uso del termine «Carta» che, come Bottai tiene a sottoli-

neare, nel lessico fascista assume il significato di documento «che proclama tutti i princípi fondamentali, secondo la nostra dottrina – concetto, funzione e struttura della Scuola – ai quali dovranno attingersi, di mano in mano, le norme giuridiche per con- cretare le future leggi; un documento destinato, perciò, a rimanere valido e in atto, an- che quando singoli provvedimenti si dimostrassero, col tempo, superati». Cfr. Ibidem, pp. 382-383.

guardare un atto privo di qualsiasi carattere democratico. La scuola media di Bottai evidenziava la sua natura volutamente selettiva, in cui la funzione di distinzione dei migliori era affidata all’insegnamento del latino e la funzione livellatrice al severo esame di ammissione. Bottai guardava all’Italia da una prospettiva diversa rispetto a Gentile: non si pensava a un Paese contadino, ma ad uno Stato in crescita e ad una so- cietà industriale che necessitava di una formazione culturale aderente ai tempi e alle esigenze del momento.

Pur non rinnegando esplicitamente l’architettura scolastica di Gen- tile, di fatto la Carta della Scuola finì con lo smantellare l’impianto de- finito nel 1923, ponendo sul piedistallo l’idea di una formazione cul- turale congiunta ad una preparazione per così dire politica e, meglio, militare; veniva rigettata la finalità di una formazione disinteressata, tesa alla cura dello spirito e non a preoccupazioni pratiche, concrete e quotidiane. Bottai nel presentare le linee del suo disegno riformatore, ne evidenziò la continuazione rispetto alla riforma del ’23, risponden- do a quanti parlavano di abbattimento delle pareti dell’architettura sco- lastica tracciata da Gentile. Bottai stesso precisò, in occasione di una conferenza tenuta a Palazzo Zuccai il 2 giugno 1939, che i principi del- la sua riforma si innestavano sull’operato della riforma del ’23, riba- dendo che quella di Gentile fu in realtà la prima riforma del Fascismo che prendesse in esame in maniera sistematica tutto l’intero sistema scolastico e non un solo settore dell’istruzione. Fin dal discorso pro- nunziato a Cremona il 22 novembre 1938, il ministro dell’Educazione Nazione, citando il Duce, ripeteva che quella di Gentile fu davvero «la più fascista delle riforme fasciste» e simile affermazione era colorata della volontà politica di porre in continuazione il suo progetto con quello del ’23. D’altra parte, di continuazione parlava lo stesso Genti- le in un articolo, uscito sul “Corriere della Sera”, 22 marzo 1939: «La Carta della Scuola non fa punto e daccapo, ma continua».

La congiunzione scuola-politica, evidente e confessata, era l’ele- mento su cui si insisteva per divulgare la magnificenza del nuovo pia- no operativo e, soprattutto, l’alto interesse che il Regime riversava sul problema dell’educazione della gioventù italiana. In altri termini, era argomento di vanto del Fascismo: un motivo per accreditare il partito di fronte alla nazione e per ricevere il consenso popolare.

La scuola, dunque, diveniva una regione della grande Nazione Fa- scista, contribuiva alla costruzione e allo sviluppo dello spirito del Pae- se, educava l’uomo in tutte le sue dimensioni, preoccupandosi non so- lo dell’aspetto intellettivo, ma avvezzandolo all’amore per lo Stato di

appartenenza, allenando le qualità morali e fortificando quelle fisiche. Da questo punto di vista e nella concezione di una scuola che fosse in- timamente politica, si comprende la valenza riconosciuta alla cultura umanistica, intesa come patrimonio di valori immortali di cui ciascun individuo doveva acquisire consapevolezza e in cui ciascuno doveva rintracciare il segno delle proprie radici.

Il latino e il greco, espressione del mondo classico e della tradizio- ne italiana ed europea, venivano posti al centro dei curricula formati- vi; il corso triennale della scuola media, la scuola dei ragazzi fra gli 11 e i 14 anni e, perciò, il grado più complesso dell’intero sistema per le implicazioni legate all’età, allo sviluppo intellettivo e per i coinvolgi-

menti con le future scelte intellettuali e professionali8, diveniva la di-

mora stabile del latino cui si attribuivano virtù taumaturgiche e fun- zioni educative nuove e consone alla stagione politica. Al di là, infatti, della derivazione storica e del ricorso alle lingue classiche per scende- re negli alvei della tradizione, il latino in particolar modo era preso co- me lo strumento per attuare quella selezione di talenti già a partire dai

giovani fra gli undici e i quattordici anni9.