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Educazione linguistica tra classicismo e modernismo

Gli anni liberali: una querelle infinita

1.3 Educazione linguistica tra classicismo e modernismo

A dettare le linee-guida della scuola, e in specie della scuola classi- ca «di cultura», intervenivano le contingenze storiche dell’Italia post- unitaria, la forte convinzione che l’unificazione politica non stesse a significare, come logica conseguenza, unificazione linguistica. Emer- geva con urgenza, in questo torno di tempo, la necessità di dotare il Paese di una lingua comune che simboleggiasse una comunanza terri- toriale e politico-nazionale.

16Il sistema delle opzioni, applicato al greco nel progetto del 1888 del ministro

Martini, veniva riproposto dallo stesso ministro nel 1893 in una ipotesi di disegno di legge che non compare tra gli atti parlamentari ma di cui abbiamo cognizione grazie alle notizie riferite da Giuseppe Chiarini.

D’altra parte, quella tradizione filosofica positivistica che infarciva di sé la cultura italiana post-unitaria, proiettava verso affermazioni uti- litaristiche e verso la definizione di una istruzione dai contenuti tecni- ci e scientifici, in cui si riflettevano le esigenze delle nuove classi ege- moni e di una società ormai industriale. In tal senso, l’insegnamento delle lingue classiche rientrava nel problema di una educazione lingui- stica e, più precisamente, nella “questione della lingua” che ha investi- to per tutto il cinquantennio successivo al 1861 il dibattito degli intel- lettuali italiani.

Non si trattava tanto di delineare quale lingua dovesse caratterizza- re il neonato Regno, bensì quale italiano adottare nel variegato pano- rama dei dialetti locali. L’inchiesta Matteucci del 1864-1865 Sulle con- dizioni della pubblica istruzione in Italia tratteggiava la situazione sco- lastica di quegl’anni e si soffermava sul massificato uso dei dialetti da parte degli insegnanti sia nel nord del Paese che nelle realtà meridio-

nali17. Fiorivano in questo periodo i dizionari dialetto-italiano, insieme

a testi di conversione dal dialetto alla lingua18, e lo studio del latino e

del greco era visto come un mezzo prezioso, come lo “strumento” per riflettere sulla lingua e sul percorso diacronico seguito dall’italiano.

Ecco, dunque, che nell’affermarsi dell’esigenza di una educazione

linguistica19il greco e il latino si configuravano come il campo di ri-

17Fra i numerosi contributi sul tema della storia linguistica dell’Italia, si vedano

M. Raicich, Questione della lingua e scuola (1860-1900), in «Belfagor», 21, 1966, pp. 245-268 e 369-408; G.I. Ascoli, Scritti sulla questione della lingua, Einaudi, Torino 1967; T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari 1970; A. Castel- lani, Quanti erano gli italiani nel 1861, in «Studi di linguistica italiana», 8, 1982, pp. 3-26; M. Raicich, Scuola cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Nistri-Lisci, Pisa 1981; G. Freddi (a cura di), L’Italia plurilingue, Minerva Italica, Bergamo 1983; G. Klein, La lotta contro l’analfabetismo e il posto del dialetto nei programmi scolastici. Sulla politica linguistica del fascismo, in «RID», 8, 1984, pp. 7-39; M. Raicich, Itine- rari della scuola classica dell’Ottocento, in S. Soldani, G. Turi (a cura di), Fare gli ita- liani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea. I. La nascita dello Stato nazionale, il Mulino, Bologna 1993, pp. 131-170.

18Cfr. P.E. Balboni, Gli insegnamenti linguistici nella scuola italiana, Liviana Edi-

trice, Padova 1988, p. 13. Si veda sul tema della fioritura e dell’uso, nella seconda metà dell’Ottocento, dei dizionari dialetto-italiano C. Marello, Lessico ed educazione popolare. Dizionari metodici italiani dell’Ottocento, Armando, Roma 1980.

19L’espressione e la concettualizzazione di «educazione linguistica» si fanno risa-

lire al 1912 e portano il nome di Giuseppe Lombardo Radice, teorico ma anche intel- lettuale impegnato direttamente nella Direzione Scuola Elementare del Ministero del- l’Educazione Nazionale con la responsabilità di predisporre i programmi, di dare di- sposizioni sulla stesura dei libri di testo e di garantire un’adeguata preparazione, in cui siano previste forme di aggiornamento agli insegnanti. Nelle sue Lezioni di didattica

ferimento per una profonda riflessione grammaticale, morfologica, sintattica e lessicale delle strutture linguistiche dell’italiano. Contro i sostenitori della pedagogia utilitaristica non mancarono coloro che, a spada tratta, si mossero a difesa della tradizione classica e della sua im- portanza per la formazione dei giovani.

La convinzione del valore delle lingue classiche come fonte di edu- cazione morale e intellettuale si rintracciava nel disegno di legge, risa- lente al 1903, del ministro Nasi che proponeva, per il grado inferiore, una scuola media unica con latino obbligatorio a tutti e, per il corso su- periore, un periodo di quattro anni distinto nel biennio in tre sezioni preparatorie all’Università (letteraria, magistrale classica o secondaria e fisico-matematica) e in tre sezioni abilitanti alle professioni (magi- strale primaria, agrimensura, ragioneria e commercio).

La difesa degli studi classici aveva come fondamento la certezza dell’utilità del latino per la preparazione mentale di tutti, non solo per coloro che intendessero proseguirne gli studi nei corsi universitari: «A me pare che ogni buona pedagogia debba essere nello stesso tempo uti- litaria e liberale: cioè a dire, deve proporsi di formare l’uomo ideale, quale lo richiede la civiltà moderna, e dargli quella istruzione che è ne- cessaria alla carriera per la quale vuole avviarsi. Questo secondo fine mira al conseguimento di un’utilità immediata: il primo non è tuttavia di minore utilità, benché gli effetti si ottengano più tardi; se esso man- ca, avremo un uomo incompleto, avremo, direi quasi, una eccellente macchina, ma non un’anima. In nome appunto di una utilità così alta e più generale, io raccomando una maggior diffusione dell’insegnamen-

to classico, che mi pare uno dei mezzi più adatti a conseguirla»20. Si

insisteva, tuttavia, sul rinnovamento dei metodi tale da rendere il lati- no e il greco lingue tutt’altro che morte, ma vive e pratiche, attraverso

e ricordi di esperienza magistrale (Sandron, Firenze 1913) Lombardo Radice defini- sce il docente educatore, aggiungendo che in quanto tale il docente è e deve essere in- segnante di lingua. Con l’ovvia aderenza alla filosofia idealistica, Radice sosteneva la necessaria congiunzione fra fatto linguistico e coscienza storica, la cui assenza è da lui considerata causa di errori degli alunni e la cui importanza è posta a fondamento del- la stesura dei programmi della scuola elementare del 1923, in cui emerge il rilievo ri- conosciuto all’intima relazione fra ambiente e sviluppo intellettuale del bambino. La scuola e l’educatore devono «aiutare l’alunno nella formazione spontanea delle rego- le linguistiche»: occorre, dunque, prendere le mosse dalla lingua che gli studenti co- noscono, il dialetto appunto, dal momento che «gli scolari sanno dire in dialetto ciò che in italiano ripetono in maniera scolorita e schematica».

20MPI, Commissione Reale per l’ordinamento degli studi secondari in Italia, Re-

la riduzione delle eccessive regole grammaticali e puntando sull’ap- prendimento dei vocaboli in vista della comprensione dei testi.

A proposito delle strategie didattiche da adottare e seguire per por- re rimedio allo stato deprimente degli studi classici fra gli scolari ita- liani, Giovanni Pascoli, da relatore delle acquisizioni della Commis- sione per l’insegnamento classico istituita da Ferdinando Martini nel 1893, auspicava una inversione metodologica con cui ridurre lo studio grammaticale e insistere sui collegamenti linguistici fra italiano e lati- no.

Il tema della riforma della scuola secondaria e, congiuntamente, di una soluzione per le lingue antiche occupava il nucleo centrale del di- battito sulla scuola, tanto che si perseverava nelle indagini sullo stato dell’istruzione secondaria italiana e si continuava a istituire Commis- sioni, procedendo ad apportare ritocchi lievi, seppure simbolici di una più generale tendenza culturale.

Nei primi anni del ’900 prendeva sempre più vigore la convinzione che, accanto ad una scuola di alta cultura classica, fosse necessaria l’i- stituzione di una scuola di alta cultura moderna per rispondere ai biso- gni sociali e dare, parallelamente, alle famiglie la possibilità di sce- gliere l’educazione più confacente per le disposizioni dei loro figli. La questione dei classici e dei moderni, antica di almeno tre secoli, torna- va ad alimentare la disputa fra coloro che riconoscevano alle lingue classiche il pregio di elevare lo spirito al di sopra delle miserie della quotidianità e di offrire un ampio universo storico attraverso il quale ri- costruire la civiltà contemporanea e coloro i quali sostenevano che lo sviluppo delle capacità logiche fosse un obiettivo raggiungibile in una

scuola di cultura fondata sulle lingue moderne e sulle scienze21. Veni-

va messo al bando, da questi ultimi, il principio di una cultura disinte- ressata e di una scuola educativa a sostegno di una istruzione basata principalmente sul criterio della utilità. Molto spesso, ai primi del XX secolo, la polemica fra classicisti e anticlassicisti si è risolta a favore di questi ultimi; non era difficile, infatti, dissimulare gli argomenti chia- mati a sostegno delle lingue classiche e, tralasciando il greco, si face- va complesso difendere il latino e sostenerne la presenza nel curricu- lum formativo dei giovani nel momento in cui esso non ricopriva alcu-

21Di questi anni va ricordata la polemica alla Camera francese fra Arago, che si

schierò con forza a difesa delle scienze, e Lamartine il quale, di contro, propugnava la impareggiabile validità delle lettere classiche. Sul tema si veda, fra gli altri, A. Piazzi, La scuola media e le classi dirigenti (Per il riordinamento dell’istruzione secondaria in Italia), cit., pp. 205-223.

na utilità pratica. Fra coloro che, con maggiore veemenza, sottolinea- rono l’inutilità dell’insegnamento classico, appellandosi a motivazioni diverse, va ricordato Lemaître il quale sostiene che lo studio delle lin- gue antiche rappresenta un «anachronisme effronté», uno studio che non apporta alcun profitto, e con esso si dà una risposta ad un proprio personale interrogativo: «ces langues [antiche] que je néglige aujourd’hui ont-elles laissé en moi dépôt d’émotions nobles et d’idées, dont je continue à profiter sans m’en apercevoir? Franchement je n’en crois rien»22.

Da un lato, dunque, si passavano a negare le taumaturgiche virtù at- tribuite ai classici dell’antichità, dall’altro si estendeva pari valore alle lingue moderne e addirittura, da parte di non pochi uomini di cultura, si arrivava a riconoscere un ruolo privilegiato ai classici moderni per l’educazione delle nuove generazioni. Posizione, quest’ultima, che tro- vava conferma nella politica scolastica seguita nel XIX secolo come ri- flesso di quel movimento culturale che fu il Romanticismo e per in- flusso dei principi diffusi dalla Rivoluzione francese; una condotta mi- nisteriale che concedeva, nella pratica scolastica, più largo spazio alle lingue e alle letterature nazionali.

Al di là delle valenze linguistiche, storiche, artistiche, estetiche, eti- che, riconosciute al patrimonio letterario e ideologico moderno, tali da porlo alla medesima altezza di quello classico antico, si insisteva sul vantaggio istruttivo derivato dall’attrazione dei giovani ad un mondo più vicino, fonte, dunque, di maggiore interesse e di una più sicura ac- quisizione culturale, nella convinzione che «non si apprende e non si

ricorda se non ciò che ci appassiona»23. E così «lo studio della lingua

materna entrò di forza dappertutto nelle Scuole medie, quando si com- prese che la letteratura nazionale era ricca, varia, matura abbastanza da offrire agli spiriti un nutrimento corroborante come le antiche e, più gradito forse, perché più prossimo a noi, più in armonia con la vita e

con le aspirazioni dei tempi nostri»24. Si distinguevano, nell’ultimo de-

cennio del XIX secolo, appoggiate e condivise da più parti le posizio- ni di Arturo Graf e di Cesare Lombroso. Costoro erano convinti e de- cisi assertori della necessità di ridimensionare lo spazio ricoperto da- gli studi classici: il primo si muoveva contro la formazione anacroni- stica e poco confacente agli interessi degli adolescenti derivata da un

22Passi citati anche in A. Piazzi, op. cit., pp. 208 e 214.

23Cfr. A. Galletti e G. Salvemini, La riforma della scuola media, cit., p. 188. 24Ibidem, p. 181.

faticoso studio mnemonico di regole e di storia remota25; il secondo aggiungeva al motivo della inutilità quello della pericolosità dell’inse- gnamento del greco e del latino per la «degenerazione del carattere». In particolare, sosteneva Lombroso, lo studio del latino generava for- me di esaurimento nervoso nei giovani costretti a calarsi in una di- mensione lontana e “falsa”, per la quale alto è il grado di disinteresse ed elevato il rischio di stress26.