Il fascismo, Bottai e la tradizione classica
3.3 L’Umanesimo fascista
Erano questi i termini entro i quali fu portato in auge il concetto di un Umanesimo moderno che, trovando applicazione nella scuola, po- neva sullo stesso piano il lavoro intellettuale e il lavoro manuale. Si trattava di un’innovazione culturale cui si associava il carattere politi- co dell’intero progetto educativo di Bottai; si trattava, cioè, di mettere la cultura al servizio della società, allo scopo di equiparare e mitigare le differenze di classe quale necessaria premessa sociale alla stabilità e all’unità che il Paese esigeva. La scuola si colorava a tutti gli effetti dei tratti della politica fascista, dei lineamenti militari e delle caratteristi- che squadriste. E Bottai tradusse codesto impianto nell’obiettivo di da- re vita ad una istituzione che fosse luogo deputato alla formazione dei giovani inseriti nei quadri del Partito e in grado di rinnovarli.
L’affermazione dell’umanesimo fascista non era altro che un modo per dotare la riforma di Bottai di un fondamento culturale, per il quale educare l’uomo del regime secondo i dettami di una nuova humanitas significava favorire l’ingresso nelle aule di una scuola antiborghese di saperi moderni. Lo scenario cognitivo, che ne derivava, risultava una sintesi di saperi umanistici e discipline tecniche e scientifiche.
Si trattava di conciliare due esigenze, culturali e sociali nel contem- po: universalizzare le fonti del nuovo umanesimo fascista a tutti, schi- vando il pericolo di una educazione lacunosa perché manchevole dei tratti moderni e perché circoscritta ad un universo scolastico limitato, e perseverare nella prospettiva di una seria selezione dei giovani che avrebbero ricoperto posizioni direttive e fondamentali per la crescita della nazione. Erano questi due punti che il Ministro considerava, sin dall’esordio della sua nomina, reali esigenze nei confronti delle quali la scuola non aveva saputo dare risposta. Il cuore del problema risiedeva nella disorganicità o, per volere di precisione, nella assenza di una unità strutturale del corso inferiore del settore mediano dell’istruzione.
I fini della riforma del ’39 riscattavano la funzione e il ruolo della scuola dinanzi alla società ed erano essenzialmente due le motivazioni di una sua necessaria pratica realizzazione: «quello di mettere le intel- ligenze, dovunque esse si trovino, nella condizione di poter fruttifica- re; e quello di selezionarle rigorosamente secondo le attitudini e le ca- pacità»20.
20Dichiarazione di Bottai, citata in M. Ostenc, La scuola italiana durante il fasci-
L’umanesimo fascista si appoggiava su di una pedagogia specifica, i cui punti nevralgici si possono in breve riassumere nell’avversione a qualsiasi forma di spontaneismo e liberalismo che la scuola attiva e il
pragmatismo proprio in questi anni andavano diffondendo21. Di contro
a tali teorie, tese a porre al centro di ogni pratica pedagogica l’allievo e la sua libera creatività, il saldo sostegno politico alla riforma di Bot- tai implicava un rovesciamento ideologico e culturale tale che il di- scente, da soggetto attivo in una scuola concepita a sua misura, diveni- va una pedina nelle mani del Fascismo.
L’umanesimo, inteso quale atteggiamento di restaurazione ed eman- cipazione dell’uomo, non poteva, dunque, essere privilegio di pochi, ri- ferirsi ad una casta sociale in particolare. In altri termini, l’umanesimo come sinonimo di equilibrio e tensione verso la perfezione rappresen- tava un insieme di valori che sono stati una conquista della sapienza antica, classica, greca e romana, un complesso di ideali a cui tutti, si riteneva, avrebbero dovuto mirare.
Così, l’umanesimo, nella accezione di equilibrata condotta umana, si riferiva alla categoria “uomo”, non a quella di “un uomo” privile- giato, e alla scuola si assegnava il compito di determinare le condizio- ni ideali in cui tutti gli individui potessero elevare al massimo le pro- prie facoltà, al di là delle possibilità di classe.
L’umanesimo fascista si appellava ad una idea pura e originaria di humanitas, lontana dall’inquinamento di una concezione che riportava l’umanesimo nelle zone amorfe dell’intellettualismo. Nazareno Padel- laro, infatti, operava una scissione fra due concetti, la cui associazione non aveva fatto altro che distorcere la natura e l’essenza dell’humani- tas. «Bisogna imparare a distinguere studi ed umanità» e – a sostegno aggiungeva Padellaro – «si può anzi dire che può essere più vicino al- la propria essenza di uomo il contadino che zappa la terra e non si sen- te per nulla asservito alla sua condizione, perché ha coscienza che il suo lavoro serve alla sua famiglia, alla sua patria, di chi cerchi in Vir- gilio le anomalie del congiuntivo e rimane impermeabile alla sugge-
stione del suo canto»22.
Il contadino, quindi, può essere più virgiliano del grammatico. Af- fermazioni che valgono anche come delucidazione di cosa fosse e di
21Erano considerate teorie antinaturaliste, ad esempio, il pragmatismo elaborato
da James, l’attivismo d’Euckem, il personalismo di Scheler.
22N. Padellaro, Fascismo educatore, Cremonese Libraio Editore, Roma 1938, p.
come dovesse essere inteso l’umanesimo del Fascismo, della sua di- mensione concreta e aderente ai tempi, che veniva sempre posta come esigenza e correlazione delle finalità educative e di quelle sociali.
Si stabiliva un collegamento tra umanesimo e sentimento naziona- le, e si innescava una celebrazione del passato che aveva posto le basi della grandezza dell’Italia. Il culto di Roma si innalzava a naturale ri- ferimento, al pari dell’universo religioso che in questa ottica costituiva l’altra faccia del nazionalismo fascista. Si stabiliva, così, una analogia fra il sentimento nazionale e il sentimento religioso, sostenuta da un identico sentimento di venerazione e dalla medesima forma di culto: «dopo Dio, è verso i propri genitori e verso la propria patria che l’uo- mo è maggiormente in debito. Quindi, come appartiene alla religione di rendere a Dio il culto che gli è dovuto, così appartiene alla pietà di
rendere ai genitori e alla patria il culto che loro è dovuto»23.
Il richiamo all’eredità classica era naturale per considerazioni sto- riche, ma anche e soprattutto per ragioni culturali, per l’universalità del pensiero ellenico e latino che rimane valido e per l’umanità un patri- monio per sempre, un ktema eis aei. Secondo Bottai, la devozione ver- so la tradizione greca e soprattutto latina, che poi doveva tradursi nel- le scuole in un rinvigorimento degli studi classici, era tanto più appro- priato per l’Italia in quanto «unico paesaggio virgiliano, unico paesag- gio oraziano, unico paesaggio cesareo. In essa le emozioni classiche sono di un ordine più elevato, perché più vive e come radicate alla no- stra terra. I grandi maestri dell’umanità ebbero davanti ai loro occhi lo stesso paesaggio a noi consueto. La linfa delle loro opere ha succhi no- strani»24.
E il latino era logicamente eretto a strumento ideale e politico in grado di ripristinare il mito dell’Impero romano con il quale doveva identificarsi il nuovo Impero del Fascismo. La celebrazione di Roma, l’esaltazione di una tradizione gloriosa e il continuo rifarsi al passato classico hanno avuto per il Fascismo una valenza strumentale; le ra- gioni, infatti, furono altre, tutte relative alla politica nazionalistica a cui era necessario fornire un sostrato culturale. Si intravede, infatti, una differenza di fondo nelle dinamiche della riforma Gentile e della rifor- ma Bottai. Quest’ultima può essere a ragione definita come la vera riforma scolastica del Fascismo: infatti, il progetto nel Fascismo trovò
23Ibidem, pp. 67-69. L’autore riporta un’affermazione di Lachange, chiarificatrice
per illustrare l’analogia fra sentimento nazionale e sentimento religioso.
pieno sostegno e approvazione. La riforma Gentile, di contro, non be- neficiò dell’appoggio politico ma, diversamente dal progetto del ’39, ebbe un solido apparato ideologico e quel saldo sostegno culturale che mancò a Bottai.
L’origine latina e l’ideale continuazione con l’Impero romano co- stituivano i presupposti dell’estensione del latino a tutti, di un latino per cui, in realtà, veniva eretta la scuola media unica che sull’insegna- mento di tale disciplina doveva fondarsi. In tal senso, dal latino esteso a fasce scolastiche sempre più ampie, pronte a recepire i principi del-
l’ideologia del momento25, nasceva l’idea di quell’«umanesimo mo-
derno», in cui la tradizione umanistica si concretizzava nel contatto con la contemporaneità, favorendo la fondamentale finalità della scuo- la, ossia la formazione completa dell’uomo. A riprova di tale imposta- zione, un’attenta analisi della relazione con cui il ministro Bottai pre- sentò la Carta della Scuola a Mussolini nel 1939 rivela che in essa non c’era punto che non facesse riferimento alla volontà di partecipare al popolo l’eredità culturale classica e, a tal fine, si proponeva l’estensio- ne dello studio del latino a tutti senza discriminazioni per coloro che lo avessero abbandonato al quattordicesimo anno di età, in nome di un la-
tino «indispensabile per la formazione del giovane»26.
Non poche furono le voci del dissenso, di pedagogisti e uomini di lettere che intravedevano i pericoli di un panlatinismo di massa, causa di un abbassamento culturale e di un decadimento di prestigio dello stesso classicismo. Ci si opponeva al latino per tutti, in difesa della se- rietà dello studio e della pochezza, quanto a risultati, di una pratica di- dattica che riservava all’insegnamento del latino ben poco, o almeno non quanto necessario, in un teatro in cui attori erano anche altre ma- terie.
Degna di nota la posizione di Giovanni Calò che, di fronte alla «più recente e mostruosa inflazione panlatinistica della scuola italiana, ve-
25Si veda, in particolare, la recente ricostruzione storica circa l’insegnamento del
latino, presente nel volume di A. Giordano Rampioni, Manuale per l’insegnamento del latino nella scuola del 2000. Dalla didattica alla didassi, cit., pp. 46-57.
26Di appoggio al disegno della Scuola media unica con il latino sono alcune af-
fermazioni di nomi illustri dello scenario pedagogico di questi anni. Merita di essere riportato il giudizio espresso da Luigi Volpicelli, Commento alla Carta della Scuola, Istituto Nazionale di Cultura Fascista, Roma 1940, p. 43: «(la Carta della Scuola) ha cercato di rivalutare codesti studi (classici), superando le ragioni della loro decadenza, tutte riferibili al fatto che essi si sono ridotti a fenomeno tipicamente letterario e mira perciò a rimuovere codeste ragioni definendo un nuovo ideale della cultura, che rap- presenta anche un nuovo concetto di lavoro».
rificatasi durante il fascismo»27, vale a dire la smania del regime di infondere in tutti il sentimento della gloria romana, difendeva un inse- gnamento del latino che, per sfociare in un apprendimento duraturo e davvero formativo, non poteva fare a meno della disposizione di tem- pi larghi e di una intensa e seria applicazione. Il classicismo, per Calò,
come si è ricordato «o è midollo di leone o non è niente»28.