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CAPITOLO II: LA DETERMINAZIONE E LA CARATTERIZZAZIONE DELLA

11. L’affermazione di un modello di sviluppo digitale europeo e la mancanza di un

Fin da questa prima parte della ricerca, appare chiaro che l’economia digitale ha messo in discussione l'identificazione degli elementi costitutivi dell’obbligazione tributaria. In sostanza, la precisa identificazione della ricchezza è indebolita dalla necessaria integrazione di elementi economicamente rilevanti non facilmente riconducibili alle categorie conosciute e consolidate, dove la moltiplicazione dei soggetti e il loro ruolo rende difficile coniugare soggettività e responsabilità secondo parametri di coerenza soggettiva con un presupposto sfuggente come quello che caratterizza l'economia digitale. La territorialità, d’altra parte, riferita ad una dimensione naturalmente espansiva mette in discussione parametri tradizionali affidati alla collocazione territoriale dei profili soggettivi od oggettivi. In questa confusione concettuale, prima che pratica, ne paga la coerenza e la tenuta complessiva del sistema fiscale perché l'incertezza sulla loro identificazione rende difficile applicare le regole che nella tradizione tributaria potevano raggiungere una sufficiente certezza perché affidate a parametri tradizionale di ricchezza. Dal punto di vista della ricerca, le scelte nazionali più che dannose rischierebbero di risultare poco utili, in quanto foriere di conflitti e di una perdurante incertezza che renderebbe, a sua volta, difficile l'esercizio della sovranità nazionale. Le scelte nazionali, inoltre, rischierebbero di risolversi in una rivendicazione unilaterale o arbitraria e, in ultimo, potrebbero facilitare la sottrazione all'imposizione delle imprese digitali, le quali potrebbero beneficiare di una concorrenza fiscale cui i singoli stati non sarebbero in grado di opporsi.

La trasformazione così radicale dell’attività imprenditoriale non è riconducibile alla sola digitalizzazione delle attività così vistosamente integrate da non poter essere invece essere qualificate e quindi fiscalmente giudicate con parametri e categorie che sono utilizzate tradizionalmente per regolare l'imposizione di ricchezze tradizionalmente divise e tradizionalmente differenziate con l’utilizzo di concetti sedimentati, come redditi o patrimonio, oltre a quelli ormai presidiati dal diritto comunitario come scambio, consumo e produzione. Bisogna, dunque, ripensare le tradizionali categorie, accettando l'assioma tra nuova ricchezza e nuovo mercato e modellare il sistema impositivo sulla base di questi rinnovati parametri. Sembra evidente che i tentativi di intercettare la ricchezza

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dell’economia digitale con iniziative unilaterali, da un lato, sia la spia di una insofferenza degli Stati dinanzi al mancato gettito derivante dalla tassazione delle grandi multinazionali del digitale, dall’altro, evidenzia anche una certa incompatibilità tra le regole attuali e un’economia sempre più diversa da quella tradizionale. L’invenzione di tributi assai diversi da quelli tradizionali, infatti, appare essere la prova più evidente di un tentativo di rinnovamento delle categorie tradizionali attuali, non solo in termini di territorialità dell’imposizione, ma anche nel nucleo fondamentale del presupposto. D’altra parte, però, bisogna comprendere la necessità di favorire il generale sviluppo digitale delle imprese tradizionali e la nascita di grandi operatori digitali europei.

Dal punto di vista europeo, nel contesto mondiale del digitale, infatti, le grandi multinazionali sono principalmente espressione dell’economia nordamericana o di quella asiatica. Pochissime imprese europee sono riuscite a diventare giganti nell’economia digitale e ancora meno attività europee sono riuscite a penetrare i mercati globali. Considerando questo dato, è lecito domandarsi quanto il contesto attuale di frammentazione politica ed economica sia correlato a questa mancanza.

L’Unione, allo stato attuale, non incoraggia la nascita di start-up europee, principalmente, perché non attiene alle proprie competenze. Gli Stati Membri, d’altra parte, sono vittime dei loro particolarismi giuridico-economici e le loro misure incentivanti sono votate a una logica mercantile più che programmatica. In poche parole, gli Stati, attraverso gli strumenti sopracitati, sembra che più che favorire la nascita di Over the Top europei vogliano invogliare le altre imprese a localizzarsi nell’ordinamento europeo. Insomma, si dovrebbe puntare verso una disciplina realmente europea che, da un lato, possa favorire lo sviluppo di imprese digitali europee e, dall’altro lato, consenta una tassazione effettiva delle multinazionali anche straniere.

Nell’attesa è evidente che vi sia un certo grado di sfiducia verso l’assetto attuale del sistema impositivo nazionale, europeo e internazionale. Le riflessioni, però, non dovrebbero limitarsi a valutare l’eventuale riforma dei criteri di localizzazione della ricchezza, i quali, in verità, pongono problemi sotto la lente del criterio (non del principio) di territorialità, in quanto questioni circa la distribuzione di almeno quota parte del gettito complessivo delle imprese digitali. L’apertura di una nuova fase costituente dei sistemi impositivi dovrebbe portare a un ripensamento anche dei presupposti di base della tassazione e, dunque, dei criteri

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economicamente rilevanti. Prendendo come modello di base una delle principali imprese del mercato digitale, scopriamo che il metodo per capire dove e come Google genera il suo fatturato è guardare l’ultimo bilancio annuale di Alphabet, la holding quotata a Wall Street che controlla Google stessa. Ebbene, il documento contabile indica che il giro d’affari del gruppo a fine 2017 è stato di 110,855 miliardi di dollari. La cifra, nel documento contabile, è divisa seguendo molteplici criteri. Quello che pare più interessante è il seguente: 95,375 miliardi di dollari sono appannaggio della pubblicità; 14,277 miliardi di dollari sono riferibili ad “altri ricavi”; 1,203 miliardi, infine, ricadono sotto la dicitura “altre scommesse”. Insomma: dai numeri è evidente che la maggiore parte dei ricavi (oltre l’86%) di Alphabet arriva dalla pubblicità. Vale a dire: Google si basa quasi esclusivamente sull’advertising. Tutto il modello di business, dunque, è fondamentalmente imperniato e fondato sull’utilizzo dei dati, forniti dall’utente e raccolti dalla grande piattaforma. Ora se è vero che questi dati hanno un valore economico rilevante per questi modelli, anche al fine di riequilibrare il luogo di estrazione della ricchezza e quello della relativa tassazione, è fisiologico interrogarsi se questa attività non possa e non debba essere autonomamente tassata.

Ora, questa intuizione non è necessariamente una novità nel panorama accademico, considerando che già a metà degli anni Novanta, Cordell proponeva la famosa bit tax. Tuttavia, si potrebbe pensare a un sistema di tassazione strutturale sull’attività di estrazione, profilazione e commercializzazione dei dati personali. Un tributo, insomma, con l’obiettivo di colpire la manifestazione di ricchezza espressa dalla raccolta dei dati personali a fini pubblicitari il cui presupposto sarebbe l'esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata diretta alla raccolta e commercializzazione dei dati personali, indipendentemente dal risultato economico di tale attività. Tradizionalmente, i diritti della personalità erano considerati indisponibili e il consenso all’utilizzo è sempre stato qualificato quale mero consenso dell’avente diritto, sempre revocabile. All’interno di questa posizione possono, tuttavia, individuarsi impostazioni diverse: una posizione più tradizionale escludeva il contenuto patrimoniale dei diritti della personalità e da tale incommerciabilità argomentava l’indeducibilità in contratto. Altri, pur escludendo la possibilità di dedurre in contratto gli attributi immateriali della persona, pongono un maggiore accento sulla necessità di non coartare il libero sviluppo della personalità tramite l’apposizione di vincoli contrattuali; in questa prospettiva, l’accento è posto sulla impossibilità di vincolarsi

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mediante un contratto, piuttosto che sulla illiceità di prestare un consenso, sia pur sempre revocabile, dietro corrispettivo. Questa diversità di impostazioni è, ai nostri fini, significativa: non si può infatti meccanicamente ricondurre le posizioni che escludono la contrattualità al principio di gratuità del consenso, potendo esse ispirarsi anche alla diversa necessità di garantire la revocabilità del consenso prestato. La prassi, peraltro, riconosce il contenuto patrimoniale dei diritti della personalità e la possibilità di disporne tramite contratto, attraverso la tipizzazione sociale di contratti che hanno ad oggetto proprio lo sfruttamento economico degli attributi immateriali della persona: ad esempio, accordi di merchandising, sponsorizzazione, endorsement, testimonial, contratti di scrittura cinematografica e televisiva. La giurisprudenza ammette la validità di tali accordi e riconoscono alla persona il diritto di sfruttare economicamente gli attributi immateriali della propria personalità (inibendo invece lo sfruttamento da parte di terzi non autorizzati). Peraltro, in caso di uso non autorizzato da parte di terzi, il risarcimento dovuto alla persona dei cui attributi immateriali si tratta è parametrato all’ipotetico “prezzo del consenso” che quest’ultima sarebbe stata disposta a ricevere quale corrispettivo per la prestazione del consenso allo sfruttamento.

Sotto questo versante, i servizi digitali, spesso, si basano sullo scambio, per lo meno in termini economici, tra i servizi e i dati personali. Si tratta di servizi gratuiti (nel senso che non è previsto un corrispettivo in denaro per il loro utilizzo), l’utente acconsente al trattamento dei propri dati personali anche per scopi non necessari alla fornitura del servizio. I dati vengono solitamente utilizzati per fini pubblicitari ed è proprio da tale utilizzo che il fornitore del servizio (gratuito) trae il proprio vantaggio. Si tratta dunque di un settore in cui il business model prevalente consiste nel subordinare l’erogazione dei servizi non ad un corrispettivo diretto ma alla prestazione del consenso al trattamento dei dati per finalità ulteriori, in particolare pubblicitarie. In questo senso, trascendendo dalla discussione circa la liceità o la correttezza del comportamento delle grandi piattaforme, bisogna considerare che, nel momento in cui raccolgono e organizzano i dati personali degli utenti, le imprese digitali manifestano già una ricchezza economicamente apprezzabile considerando i parametri di valutazione dei dati personali. Insomma, già solo questo tipo di attività potrebbe essere sottoposto a imposizione chiaramente alla luce del valore aggiunto fornito dai dati personali nell’organizzazione complessiva dell’impresa. Il valore dei mezzi organizzati,

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ossia i dati raccolti e profilati, dovrebbero essere valutati con gli strumenti tipici della contabilità e, dunque, facendo riferimento al valore di mercato degli stessi, in particolare, al prezzo normalmente praticato nel mercato digitale dei dati a fini pubblicitari.

Chiaramente questo lavoro non è orientato a caldeggiare l’introduzione di un’imposizione di tal guisa, sicuramente, però, si deve ammettere che l’attuale sistema impositivo potrebbe non essere efficace nell’intercettare nuove manifestazioni di ricchezza in questa nuova economia. Non tanto per quanto attiene il tema dell’imposizione sul consumo, la quale, per la sua struttura, è naturalmente più adatta e adattabile ai cambiamenti socioeconomici, ma per l’imposizione diretta personale, la quale soffriva già una globalizzazione che rende alquanto difficile per gli ordinamenti nazionali una efficace determinazione degli imponibili. Dunque, appare lecito domandarsi, se in quest’epoca altamente digitalizzata e alla luce dei modelli d’impresa in concreto implementati, siano ancora validi alcuni assiomi classici dell’imposizione reddituale societaria e se, d’altra parte, non sia necessario operare anche un cambiamento radicale degli stessi.

In termini ancora più generali, si noti che la moltitudine di proposte che sono state avanzate tese a tassare le attività digitali siano l’indice più evidente del grado dell’insoddisfazione verso le categorie giuridiche tributarie attuali e, in generale, verso il diritto tributario globalmente considerate, il quale non può isolarsi dalla realtà attuale e non può non adattarsi alla stessa nel più breve tempo possibile, imponendo un ruolo statico e non più adeguato all’evoluzione sociale ed economica della realtà circostante.

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