CAPITOLO I: INQUADRAMENTO DEI PROBLEMI TEORICI DELLA FISCALITÀ
4. L’economia e il mercato digitale: l’emersione di nuovi modelli di business e la
4.2. I modelli di business nell’economia digitale: differenze e diffidenze fiscali
Sembra che, infatti, lo sviluppo del digitale e l’avvento della globalizzazione abbiano cambiato, quasi radicalmente, il modo di produrre ricchezza o, come si usa dire, il modello di business dell’impresa. Il modello di business, per definizione, rinvia all’idea di uno schema teorico attraverso cui un’attività di impresa gestisce i suoi affari attraverso transazioni commerciali al fine di pareggiare i costi dell’attività con i ricavi attesi o, in altre parole, come “un’organizzazione crea, genera e cattura valore”86. L’affermazione
85 Per fare un esempio, allorquando si acquista un bene strumentale si utilizza quel procedimento contabile di
ammortamento per cui il costo del bene viene ripartito fra più esercizi, tendenzialmente coincidenti con il tempo di vita utile del bene stesso, essendo il riscontro bilancistico della progressiva perdita di valore di un bene risultante dall'usura, dalla vetustà o dal progresso tecnologico. Negli ultimi periodi, è invalso l’uso di una forma di incentivazione, definita “iper-ammortamento” o “super-ammortamento”, normalmente la scelta di uno dei due termini varia a seconda dell’aliquota di ammortamento in eccesso consentita. In buona sostanza, questa forma di ammortamento risulta essere un aiuto per le imprese che possono dedurre costi superiori rispetto a quelli effettivamente sostenuti. Tuttavia, è noto che nell’industria 4.0 il bene strumentale tende a divenire intelligente e, dunque, a migliorare con il progressivo utilizzo attraverso l’interazione con gli altri beni della filiera produttiva. La possibilità per l’impresa di “ammortizzare” il costo del bene strumentale intelligenza sembra contraddire lo spirito con cui viene concesso l’ammortamento, soprattutto, se esso consiste nella deduzione di una quota superiore rispetto a quanto si è speso. Pare lecito domandarsi se non sia necessario rivedere in profondità il sistema fiscale attuale che agevola quello che, forse, andrebbe tassato.
86 OSTERWALDER, PIGNEUR, Business Model Generation. A Handbook for Visionaries, Game Changers,
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travolgente del digitale nell’economia digitale ha fatto emergere un numero rilevante di nuovi modelli di business, sopprimendone altri. Sebbene molti di questi abbiano modelli paralleli nell’economia tradizionale, i moderni sviluppi delle tecnologie informatiche hanno amplificato i diversi tipi di business in una più grande scala e a più lunga distanza di quanto era prima possibile. Si è assistito negli ultimi tempi a una sempre più accelerata globalizzazione del mercato digitale e le imprese, soprattutto quelle medio-piccole, hanno possibilità di ampliare il proprio business che prima erano sconosciute.
D’altra parte, le imprese non hanno semplicemente adattato al commercio elettronico i modelli di business utilizzati per il commercio tradizionale, ma li hanno trasformati, fino a stravolgerli; le tecniche e le strategie di marketing, distribuzione e vendita sono state ripensate in modo da adeguarsi al nuovo «mezzo»87. Ricondurre i vari modelli di business così modificati dal digitale in categorie omogenee appare difficile, se non inutile, in considerazione del fatto che l’evoluzione consente l’emersione di nuovi modelli di business quasi in tempo reale.
Al fine di verificare, però, se l’emersione dei nuovi modelli economici possa utilmente influenzare la normativa tributaria e come la normativa tributaria sia inadatta a questi modelli, sembra utile cercare qualche profilo comune ai modelli esistenti.
Analizzare il modello di business dell’impresa per un tributarista, infatti, è fondamentale al fine di comprendere quali siano effettivamente gli elementi rilevanti perché si realizzi un’imposizione che tenga effettivamente conto dei cambiamenti tecnologici avvenuti nel corso degli anni. Il cambiamento dei modelli di business, infatti, non ha portato a una “modernizzazione” dei sistemi fiscali contemporanei, i quali sono stati realizzati in un’epoca in cui l’economia era sensibilmente diversa dallo stato attuale di avanzamento tecnologico della società88. In generale, trascendendo da questi esempi, si vedrà come i
87 CASSANO, E-Commerce: opportunità e rischi del nuovo mercato globale, in A&F, 2000, vol. 4, p. 17. 88 D'ANGELO, Nuove imposte ed economia digitale, in Studi Tributari Europei, 2016, vol. 1, p. 25;
ASSONIME, La fiscalità d’impresa nel nuovo mondo globalizzato e digitalizzato, in Note e Studi, 2017, vol.1. Già nel 1928 Einaudi affermava che “la tassazione personale fosse anacronistica negli attuali Stati nazionali e avrebbe dovuto lasciare spazio a una tassazione reale” EINAUDI, La coopération internationale en matière fiscale, Recueil des Cours de l'Academie de Droit International de la Haye, 1928, in FRANSONI, La stabile organizzazione: nihil sub sole novi?, in Riv. Dir. Trib., 2015, vol. 2, pp. 123, nota 25. Le spinte per una tassazione reale o, comunque, per un progressivo spostamento verso un’imposizione reale in luogo di quella personale per quanto riguarda il reddito d’impresa, sono emerse, anche se non completamente attuate, anche nella riforma dell’Ires del 2004.; FANTOZZI, La nuova disciplina Ires: i rapporti di gruppo, in Riv. dir. trib., 2004, vol. 4, p. 489.
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modelli di business concretamente attuati dalle imprese devono essere presi come parametri per la tassazione delle imprese. La considerazione del solo profilo reddituale, spesso, mal si concilia con le concrete modalità di business, in quanto, per esempio, queste imprese optano per una massiccia patrimonializzazione più che per una distribuzione degli utili prodotti89.
In breve, in questa fase, si tenterà di individuare un minimo comun denominatore che ci consenta di comprendere come il diritto tributario attuale possa essere modulato alla nuova realtà economica attraverso l’analisi dei concreti modelli di business implementati dalle grandi multinazionali. Si consideri, per questo scopo, che il modello di business può essere analizzato sotto diverse angolazioni: indaga l’organizzazione interna dell’impresa, individua i rapporti con gli stakeholders e, soprattutto, analizza il modo in cui l’impresa traduce il valore creato in profitto. Sebbene il primo profilo, indagando le modalità con cui l’impresa si organizza al proprio interno, sia di rilevante importanza, ciò che interessa particolarmente ai fini della nostra trattazione attiene gli altri due profili, ossia il modo in cui l’impresa si relaziona con i terzi (profilo esterno) e, soprattutto, il modo con cui l’impresa traduce la propria organizzazione in profitto (profilo interno).
4.2.1. Il “profilo esterno” del modello di business: il rapporto con terzi
L’analisi delle modalità con cui l’impresa si confronta con terzi, naturalmente, è strettamente correlata al modo (quomodo) in cui l’impresa produce ricchezza/valore e, pertanto, cosa e come l’impresa produce nel mercato digitale. Per quanto riguarda l’oggetto dell’offerta delle imprese digitali, in generale, si può affermare vi sia una preminenza della prestazione di servizi rispetto alla produzione e la cessione di beni. Ciò non è di poco conto se si considera che le prestazioni di servizi non garantiscono lo stesso grado di certezza e sicurezza della produzione e cessione di beni materiali. Avendo riguardo al modus operandi
89 Attraverso la ormai famigerata struttura societaria nota come “Double Irish Dutch Sandwich and Bermuda
Black hole”. Per una sommaria spiegazione della prima parte della struttura “Double Irish” si veda MARINO, L'IRES nel contesto della tassazione delle società nella ue: bilanci e prospettive, in Rass. Trib., 2015, vol. 1, p. 131; una descrizione del Sistema in VALENTE, Economia Digitale e Commercio Elettronico, Milano, Wolters Kluwer, 2015, p. 147; si veda anche DIAN, Google, panino fiscale servito, in Dir Prat. Trib. 2013, vol. 5, p. 1211; sulla tematica del “Black hole” si rinvia a VALENTE, Taxless Corporate Income: Balance against White Income, Grey Rules and Black Holes, in European Taxation, 2017, Vol. 57, No. 7.
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delle imprese digitali, l’OCSE90 ha individuato, pur senza pretese di esaustività, alcuni modelli generali adattabili ai vari contesti socioeconomici: l’e-commerce, gli app stores, la pubblicità online, il cloud computing, i network partecipativi, le piattaforme, il trading ad alta velocità e i servizi di pagamento online.
Il commercio elettronico rappresenta, senza dubbio, il modello di business classico e, forse, il più soggetto a studi e analisi, considerando che si tratta dell’evoluzione, anche logicamente più vicina, del commercio tradizionale. Con l’accezione di commercio elettronico (o e-commerce)91 si intende, infatti, la molteplicità di transazioni economiche
effettuabili per via telematica, relative alla cessione di beni e alla prestazione di servizi. In altre parole, si sostanzia nella trasformazione digitale del commercio, praticato nei mercati tradizionali. Solitamente si suole distinguere tra il cd. commercio elettronico indiretto, in cui la conclusione del contratto avviene per via telematica, mentre la consegna fisica del bene segue i canali tradizionali e, il cd. commercio elettronico diretto, in cui sia il consenso sia la consegna si concludono per via telematica. Entrambe le forme di commercio elettronico sembrano potersi inquadrare, senza troppe difficoltà, sotto le tradizionali categorie giuridiche civilistiche e tributarie.
Il commercio elettronico indiretto, in sostanza, consiste nella conclusione “online” del contratto e la successiva consegna per via analogica del bene materiale, oggetto dell’accordo e, per questo, può essere ricondotto nella categoria delle cd. “vendite a distanza”92 in cui, in sostanza, cambia il mezzo (Internet) in luogo di altri (telefono, fax).
Ai fini fiscali, tralasciando, per un momento, il tema della territorialità (si rinvia al cap. III), i ricavi derivanti dalla vendita di beni materiali per via digitali sono da assumersi
90 OECD (2015), Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, Action 1 - 2015 Final Report,
OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, Paris, 54.
91 In generale sui profili fiscali del commercio elettronico MELIS, Commercio elettronico nel diritto tributario,
in Digesto discipline privatistiche, sezione commerciale, Aggiornamento, IV, Utet, Torino, 2008, pp. 63-85.
92 PERRONE, Nuovi criteri di collegamento e ridefinizione del concetto di stabile organizzazione nella Digital
Economy, in Le nuove forme di tassazione della Digital Economy, a cura di Del Federico, Aracne, Roma, 2018, p. 66; CORASANITI, Profili fiscali del commercio elettronico, in Commercio elettronico, documento informatico e firma digitale. La nuova disciplina, a cura di Rossello, Finocchiaro, Tosi, Torino, Giappicchelli editore, 2003, p. 10607, nota 58; FICARI, Regime fiscale delle transazioni telematiche, in Rass. Trib., 2003, vol. 3; PIERRO, Beni e servizi nel diritto tributario, Padova, Cedam, 2003, p. 286; GARBARINI, La disciplina fiscale del commercio elettronico: principi ispiratori, problematiche applicative e prospettive di sviluppo, in Dir. e Prat. Trib., 2000, vol.71, no.5, p. 11205.
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produttivi di redditi d’impresa, oltre che, ovviamente, operazioni imponibili, al ricorrere delle altre condizioni, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto.
Per quanto riguarda il commercio elettronico diretto, invece, c’è una completa dematerializzazione sia del luogo in cui si incontrano le volontà delle parti sia nella consegna del bene, in quanto entrambe le fasi si svolgono digitalmente. È, ormai, un dato acquisito la considerazione di questa tipologia di operazione nell’ambito delle prestazioni di servizi93
con le relative conseguenze ai fini dell’imposizione sul consumo. Più problematica è apparsa la considerazione di questa tipologia di operazione, nell’ambito dell’imposizione diretta in considerazione della diversa tassazione dei redditi d’impresa e delle royalties94. In sede
OCSE, in ogni caso, la distinzione operata tiene conto della possibilità per l’acquirente del bene digitalizzato del solo utilizzo, ricadente nella fattispecie di reddito d’impresa, ovvero di uno sfruttamento economico e, dunque, come canone o royalty. In sostanza, se l’acquirente (sia esso consumatore o imprenditore) impiega il bene solo per fini personali, il ricavo della vendita è sussunto all’interno della categoria reddito d’impresa; se l’acquirente sfrutta il bene per iniziare o continuare una propria attività economica, il provento è ricondotto all’interno della categoria dei canoni.
La diversa interpretazione della categoria reddituale, però, ha importanti conseguenze sul piano della territorialità dell’imposta, in quanto, nel primo caso, secondo l’art. 7 del Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni dell’OCSE lo Stato avente la titolarità dell’imposizione sarebbe lo Stato di residenza dell’impresa venditrice, nel secondo caso, invece, lo Stato della fonte ai sensi dell’art. 12 dello stesso modello di Convenzione. L’analisi di questa prima forma di economia digitale, ossia il commercio elettronico, manifesta sì la peculiarità di questa tipologia di commercio rispetto a quello tradizionale, ma, in ultima istanza, eccettuando le problematiche inerenti al tema della
93 Sul punto, oltre alla dottrina di cui alla nota 29, si vedano anche la Direttiva 2006/112/CE e la risoluzione
274/E/2008 dell’Agenzia delle Entrate.
94 Ne discendono, infatti, due differenti statuti fiscali: secondo l'art. 7 del Modello OCSE, gli utili delle imprese
sono tassabili soltanto nello stato di residenza, ma nel caso di impresa che opera in uno Stato diverso dal proprio per il tramite di una stabile organizzazione, gli utili ad essa riferiti sono imponibili nello Stato della fonte. Le royalties, invece, sono tassabili secondo l'art. 12 del Modello OCSE solo nello Stato di residenza del percettore, anche se la maggior parte dei trattati stipulati dall'Italia, prevede che le royalties erogate da soggetti residenti in Italia subiscano una ritenuta alla fonte a titolo d'imposta.
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territorialità (cap. III), sembra potersi senza troppe difficoltà ricondursi in categorie tradizionali.
Oltre alle tipiche modalità business to business (B2B) ovvero business to consumer (B2C)95, la novità principale è l’emersione di una nuova forma, il consumer to consumer (C2C), e di una nuova figura, ossia il cd. prosumer96. Tale soggetto è una persona fisica che non è mai organizzata in forma d’impresa, per usare categorie civilistiche, né può essere sussunto, almeno in linea di principio, nella categoria di operatore economico ai fini dell’imposizione sul valore aggiunto, per utilizzare termini propri dell’ordinamento eurounitario. Questa figura “atipica”, però, analizzando le concrete modalità di effettuazione del business, consente una riflessione sul ruolo degli intermediari digitali, normalmente rappresentato dalle piattaforme, le quali consentono l’incontro di domanda e offerta tra privati. Il prosumer, infatti, nella normalità dei casi, non cederà i beni o effettuerà prestazioni di servizi in via diretta, ma si avvarrà dell’intermediazione delle piattaforme, in cui offrirà i beni e i servizi ad altri soggetti che potrebbero essere, alternativamente, altri consumatori (modello c2c) o anche altre imprese. In una logica similare è emerso, con alterne fortune, il modello “consumer-to-business” (C2B), in cui i consumatori stabiliscono il prezzo che sono disposti a pagare per un prodotto o servizio e allo stesso tempo le aziende possono accettare
95 Oltre a questi modelli si potrebbero individuare ulteriori modalità di business definite “b2A”, “A2b” e “A2c”,
tuttavia, queste forme di servizi possono essere assimilate ai modelli precedenti. In particolare, il modello business-to-Administration è, in realtà, una variante dei modelli b2c o b2b a seconda che l’Amministrazione possa qualificarsi come consumatore finale o se intende a sua volta fornire un servizio attraverso l’utilizzo di quello fornitole. I restanti modelli (Administration-to-business e Administration-to-consumer), in verità, sembrano retti da principi ancora differenti. Se l’Amministrazione fornisce il servizio in quanto pubblica autorità, non pare possibile poterla sussumere sotto l’attività d’impresa e il relativo corrispettivo sotto la nozione di ricavo o prezzo. Sembrerebbe, in tal caso, che il servizio sia, invero, fornito dietro pagamento di una tassa o di un contributo o, comunque, di un tributo. Nei restanti casi, invece, il servizio sarebbe fornito dall’Amministrazione-imprenditrice e sarebbe peraltro soggetto alle regole dell’imposta sul valore aggiunto (su questo punto si rinvia alla copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di soggettività passiva ai fini iva degli enti pubblici e, in particolare, alle sentenze storiche riferite al Comune di Carpaneto Piacentino, ossia Sentenze Corte di Giustizia, C-231/87 e C-4/89, Comune di Carpaneto Piacentino, ECLI:EU:C:1989:381 e ECLI:EU:C:1990:204; alla sentenza Corte di Giustizia, C-202/90, Ayuntamiento de Sevilla, ECLI:EU:C:1991:332, fino alle più recenti Isle of Wight Council e a., C‑288/07, EU:C:2008:505 e l’ordinanza Gmina Wrocław, C‑72/13, EU:C:2014:197, alle conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott in Gemente Borsele, C-520/14, ECLI:EU:C:2015:855 e a D’ANGELO, Le diverse declinazioni della soggettività passiva iva: il caso clinico delle società cc.dd. in house, in Riv. Dir. Trib., 2018, vol. 4, p. 407).
96 Si vedano le definizioni date da STABILE, Le nuove frontiere della pubblicità e del marketing su internet,
in Dir. Industriale, 2009, vol. 5, p. 482, e MAUGERI, Elementi di criticità nell’equiparazione, da parte dell’AEESGI, dei «prosumer» ai «consumatori» e ai «clienti finali», in Nuova Giur. Civ., 2015, vol. 7-8, p. 20406.
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o rifiutare l’offerta. La figura del prosumer, ovviamente, potrebbe impegnare l’operatore, oltre che in termini di occasionalità dei proventi prodotti ai fini dell’imposta sui redditi, anche in riferimento all’eventuale soggezione all’imposta sul valore aggiunto, qualora si dimostri che il soggetto ha agito “per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità”97.
Il ruolo di intermediario, assai rilevante in questo contesto, è svolto anche nella seconda categoria analizzata dall’OCSE, ossia il modello di business consistente nella prestazione di servizi per pagamenti elettronici.
L’intermediario “finanziario”, in questo caso, si frappone tra compratore e venditore, il quale accetta un pagamento digitale in luogo di quello monetario, consistente nell’utilizzo di carte di debito o di credito, di trasferimenti bancari, di deposito di somme presso il conto del venditore o utilizzo di intermediari veri e propri, come Paypal. In questa sede, ovviamente, non si intendere discutere dell’apparente successo delle monete virtuali o criptovalute (es. Bitcoin), le quali, in verità, pongono più problemi in altri settori giuridici rispetto al diritto tributario98.
Tralasciando le problematiche sui pagamenti online, variamente declinati, si passa a considerare il tema della pubblicità online, probabilmente, la modalità principale di business nell’era del web. Ciò che, però, rende davvero unica la pubblicità online rispetto agli altri mezzi di comunicazione (televisione, giornali, cartelloni per strada) è la possibilità di essere ottimizzata per i navigatori che hanno manifestato un certo interesse per quell’area merceologica. Tale possibilità è realizzata mediante la “profilazione” del consumatore, il quale navigando su Internet accetta, spesso inconsapevolmente, che i suoi dati personali siano acquisiti dai portali grazie all’installazione di cookie. Dopo aver analizzato la mole di dati forniti dal consumatore, i siti hanno la possibilità di tracciare il profilo “commerciale” del cliente e di effettuare il cd. “marketing mirato”. Innanzitutto, è opportuno precisare che
97 Sentenza Corte di Giustizia, Enkler, C-230/94, p.22 ECLI:EU:C:1996:352.
98 Volendo seguire la bipartizione classica tra imposizione diretta e imposizione indiretta il caso dei Bitcoin,
probabilmente la moneta virtuale più famosa, è stato oggetto di numerose riflessioni nelle riviste del settore, oltre che di una circolare dell’Agenzia delle Entrate (n. 72/E). Dal punto di vista iva è chiaro che le prestazioni di servizi sui bitcoin costituiscano operazioni esenti (sentenza Corte di Giustizia dell’Unione Europea C-264/14 Hedqvist, ECLI:EU:C:2015:718), mentre dal punto di vista dell’imposte dirette, sulla stessa scia, si potrebbe equiparare il bitcoin a una valuta estera (si veda Repubblica e Cantone Ticino, Dipartimento delle finanze e dell’economia, Divisione delle contribuzioni, Comunicazione della prassi cantonale, Trattamento fiscale delle criptovalute, 28 febbraio 2018, Bellinzona); In ogni caso, sul punto si veda BAL, Taxing Virtual Currency: Challenges and Solutions, Intertax, 2015, 5, 380; VAN DER BOSCH, DIEDERICHSEN e DEMETRIUS, Blockchain in Global Finance and Tax, Derivatives & Financial Instruments, 2018 (Volume 20), No. 1
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queste forme di sfruttamento pubblicitario potrebbero essere sottoposte già ad oggi a tributi speciali99, plasmati solo sul presupposto dello svolgimento dell’attività pubblicitaria, senza riferirsi all’eventuale reddito incassato. Gli introiti pubblicitari possono derivare da diversi modelli d’impresa, potendosi rintracciare imprese digitali che, in estrema sintesi, cedono dietro corrispettivo i dati raccolti ovvero che, direttamente, sfruttano a fini pubblicitari i dati raccolti. In ogni caso, al di là dei modelli implementati nella pratica, la pubblicità online è probabilmente il modello più redditizio dell’economia digitale. Comprensibilmente, allo stato attuale della normativa tributaria nazionale, europea e internazionale, anche in questo caso ai fini dell’imposta sul reddito e dell’imposta sul valore aggiunto, le problematiche più evidenti afferiscono la territorialità dell’imposizione. Malgrado l’utente visualizzi la pubblicità “mirata” sul proprio pc di casa, infatti, non è detto che la manifestazione rilevante a fini tributari sia localizzata nell’ordinamento dell’utente. Nella normalità dei casi, infatti, le imprese raccolgono i dati nello Stato dell’utente e li rivendono alle varie società interessate alla pubblicità mirata o li “lavorano” in house. Una volta raccolti i dati, senza la necessità di presenza fisica nello Stato dell’utente e, dunque, senza la creazione di una sede fissa d’affari, vengono lavorati e venduti in uno Stato diverso da quello in cui c’è stata l’estrazione. Pertanto, il reddito d’impresa generato sarà tassato solo nello Stato di residenza dell’impresa